È poesia irrefrenabile, impetuosa, pulsante e istintiva; poesia sovrabbondante, primitiva, vertiginosa e appassionata.
Una poesia che è una catarsi.
E smuove e commuove, stordisce e meraviglia.
[Di Foglie d’erba ho parlato qui]
Non dirmi che la luna splende, mostrami il riflesso della sua luce nel vetro infranto. (A. Čechov)
Non dirmi che la luna splende, mostrami il riflesso della sua luce nel vetro infranto. (A. Čechov)
È poesia irrefrenabile, impetuosa, pulsante e istintiva; poesia sovrabbondante, primitiva, vertiginosa e appassionata.
Una poesia che è una catarsi.
E smuove e commuove, stordisce e meraviglia.
[Di Foglie d’erba ho parlato qui]
“Ormai, sotto ogni cosa che io faccio e dico, c’è la presenza di questo quaderno. Non avrei mai creduto che tutto quanto m’accade nel corso della giornata valesse la pena di essere notato. La mia vita mi è sempre parsa piuttosto insignificante, senza avvenimenti notevoli fuorché il mio matrimonio e la nascita dei bambini. Invece da quando per caso ho cominciato a tenere un diario mi pare di scoprire che una parola, un accento, possono essere altrettanto importanti, o anche di più, dei fatti che siamo abituati a considerare tali. Imparare a comprendere le cose minime che accadono tutti i giorni è forse imparare a comprendere davvero il significato più riposto della vita. […]”
Nuova Guinea, territori lungo il fiume Sepik, primi anni Trenta. Tre antropologi, due dei quali marito e moglie, si trovano a condividere lo spazio di lavoro nello studio di alcune tribù, trovandosi coinvolti in un triangolo amoroso e professionale.
Due aspetti ho apprezzato particolarmente: il racconto della dinamica lavorativa-relazionale tra i tre protagonisti (affinità mentali e rivalità, supporto reciproco e antagonismo) e quello della ricerca sul campo (accattivanti gli accenti sulle differenze nel metodo, sulle difficoltà a cui i tre vanno incontro e sul processo che conduce alla nascita di idee e teorie).
Il modo in cui il libro è stato concepito e poi sviluppato – è dichiaratamente (ed evidentemente) ispirato alle vicende di Mead, Fortune e Bateson e alle peculiarità dei popoli da loro studiati, ma di tutto ciò King fa un vero e proprio rimpasto – e la sua parte di contenuto prettamente antropologica hanno il merito di stimolare più di una domanda e di spingere chi legge a ricerche e approfondimenti.
Ambientato tra la riviera ligure e Milano, questo romanzo intreccia le storie di quattro personaggi, tre femminili e uno maschile, che si muovono in modo diverso attorno al mondo dell’editoria.
Ci sono tutti gli immancabili elementi della scrittura di Convalle – il mistero sul passato e la necessità di affrontarlo, il potere dei rapporti umani, vicende dagli sviluppi enigmatici, vite che si incrociano in modi impensati, il ruolo del destino – e c’è, soprattutto, una riflessione schietta sui problemi dell’editoria contemporanea e sul conflitto tra ideale e compromesso.
“Ma tutto ciò che di noi si può immaginare è realmente possibile, ancorché non sia vero per noi. Che per noi non sia vero, gli altri se ne ridono. È vero per loro. Tanto vero, che può anche capitare che gli altri, se non vi tenete forte alla realtà che per vostro conto vi siete data, possono indurvi a riconoscere che più vera della vostra stessa realtà è quella che vi danno loro.”
“Viveva […] schiacciato dal sentimento della propria insignificanza, annientato dalla massiccia dominazione dei millenni addormentati. La grandiosità di tutte le cose lo atterriva. Tutto era solenne, tranne lui stesso: la perfetta cessazione del vento e del moto, l’immensità del wilderness coperto di neve, l’altezza sublime del cielo e le profondità sconfinate del silenzio.”
Tre “quasi fratelli”, un legame viscerale e complesso e l’amore in molte diverse declinazioni: con un ottimo lavoro sui personaggi (estremamente vividi), sui dialoghi e sulla struttura (i salti temporali sono gestiti benissimo), e dando voce a una prima persona piuttosto credibile, l’autrice racconta una storia in grado di coinvolgere fin da pagina uno, a prescindere da quanto possano piacerci i suoi protagonisti (per quanto mi riguarda, due sono tutt’altro che amabili).
È la prima volta che leggo Valentina D’Urbano, e Tre gocce d’acqua mi è piaciuto davvero tanto: la scrittura mi è arrivata, mi ha emozionata e mi ha commossa.
Io non lo so come faccia McCarthy. Non so come riesca a fare questo effetto su di me. A colpirmi così, ogni volta. Forse è quel suo modo essenziale e poetico di incastonare nelle parole la meraviglia e la disperazione della vita.
[Di Città della pianura ho parlato qui]
Ambientato tra gli anni Cinquanta e Settanta in un campo estivo sui monti Adirondack (stato di New York), questo romanzo prende le mosse dalla scomparsa di una ragazzina e sceglie di raccontare in parallelo le vicende investigative e un dramma familiare che si dipana tra passato e presente, tra segreti e menzogne.
Tutto si gioca sulla costruzione dell’intreccio e su un abile utilizzo di diversi piani temporali e punti di vista, ma mi sono piaciute in modo particolare le riflessioni sulla disuguaglianza di classe e sul(i) (vari tipi di) pregiudizio che emergono tra le righe.
Un ex poliziotto con la paura delle altezze, un incarico da parte di un vecchio amico e una donna misteriosa e disturbata sono gli ingredienti del noto lavoro di Boileau e Narcejac, una perfetta sintesi tra noir e thriller psicologico che con toni di angoscia crescente indaga l’ossessione e la paranoia, l’illusione e l’idealizzazione attraverso una brillante scomposizione di piani, dove realtà e allucinazione si confondono tanto per il protagonista quanto per il lettore, mentre l’ambientazione e le atmosfere – Parigi e dintorni e poi Marsiglia, negli anni della Seconda Guerra Mondiale e in quelli immediatamente successivi – completano la trama, così vivide e al contempo oniriche, col loro carico di grigiore e inquietudine.
L’ottima gestione del lavoro e il colpo di genio di un finale assolutamente imprevedibile – dopo averti trascinato tutto il tempo da una parte, la storia cambia direzione nelle ultimissime pagine – quasi mi costringono a chiudere un occhio sull’improbabilità della trama e sulla sua incapacità di coinvolgermi fino in fondo.