
Foto scattata nel dicembre 2023.
Ero convinta che al termine di Città della pianura avrei aspettato, che mi sarei data tempo per metabolizzare – come faccio di solito con la grande letteratura – e magari scriverci sopra qualcosa di strutturato e ragionato. Ma stanotte ho girato l’ultima pagina e ho capito che non posso aspettare, che qualcosa devo scriverla adesso, a caldo e senza troppo riflettere, perché di questo finale di trilogia voglio fissare nel modo più assoluto l’emozione, e un po’ anche perché questa emozione ho bisogno di buttarla fuori subito.
Io non lo so come faccia McCarthy. Non so come riesca a fare questo effetto su di me. A colpirmi così, ogni volta. Forse è quel suo modo essenziale e poetico di incastonare nelle parole la meraviglia e la disperazione della vita. McCarthy ha un modo profondamente… arcano di raccontare la storia di tutti gli uomini nella storia di un unico uomo. O, se vogliamo dirla al contrario, di prendere la storia di un unico uomo e mostrare in essa la storia di tutti. Ha un modo così intimo di portarti dentro, poi. Dentro la vita, intendo. Ti fa avvicinare alla verità della vita descrivendo il semplice atto di sciacquare una tazza. In McCarthy, anche l’azione di portarsi un piatto a tavola sembra racchiudere un implicito intensamente spirituale. E ci sono queste parti, a volte anche pagine e pagine, in cui non accade nulla di particolare – e però c’è tutto; c’è la vita nella sua essenza. Ecco perché mentre leggo McCarthy mi dimentico veramente di avere un libro tra le mani. In qualsiasi punto: dai racconti dei gesti quotidiani alle svolte di trama. Mentre leggevo la scena di John Grady, Billy e i cagnolini si è fatta notte fonda e neanche me ne sono accorta.
Ah, John Grady. John Grady in Città della pianura: una tenerezza straziante.
E forse in un certo senso Città della pianura è il libro di John Grady molto più di quanto lo sia stato Cavalli selvaggi, anche se in Cavalli selvaggi era lui e lui solo il protagonista. Ma Cavalli selvaggi era una storia di ricerca, di suggestioni infinite e vagabonde, e il personaggio principale appariva sfumato rispetto alla natura pazzesca e ammaliante che esplodeva tra le pagine. Vale un po’ la stessa cosa anche per Oltre il confine, dove emergeva moltissimo del protagonista Billy – la sua onestà, per esempio; la sua generosità, il suo senso del dovere – e tuttavia erano il carattere iniziatico del romanzo, il leitmotiv dell’appartenenza e la solennità della natura a occupare lo spazio maggiore.
In Città della pianura accade qualcosa di diverso, perché McCarthy sceglie di far arretrare la natura e di dare più spazio ai personaggi. Adesso sono John Grady e Billy, insieme, al centro assoluto della scena. Nel frattempo, con la natura è arretrato anche il tema del viaggio: in un certo senso, Città della pianura è più statico dei due romanzi precedenti; è fondato completamente sulle azioni e sui dialoghi, ed è nelle azioni e nei dialoghi che si concentra tutto il misticismo di cui McCarthy è capace. Come dicevo prima, in lui anche un semplicissimo gesto della quotidianità – in questo libro più che mai – sembra racchiudere un senso altro. E i dialoghi! Anche – e forse soprattutto – gli scambi sui cavalli, sui pascoli, sui comportamenti del bestiame, anche gli aneddoti di vecchi cowboy sembrano attraversati da un umore mistico, perché McCarthy ha il dono sublime di mostrare l’impronta della verità essenziale impressa nelle cose più semplici. Succede sempre. E poi, quelle battute così stringate e così dense. Dal forse non sono capace di lavorare per più di una persona alla volta di John Grady al è che non posso farne a meno di Billy mentre ingrana la retromarcia per aiutare i messicani.
E sì, a proposito: c’è questa scena, poco dopo l’inizio, in cui Billy aiuta un gruppo di messicani a riparare una gomma bucata – ecco, un’altra di quelle scene in cui ho perso la cognizione del tempo – e non so perché ma leggendola stavo per mettermi a piangere, talmente era profonda la scena e talmente era profondo il suo significato nel modo in cui McCarthy l’ha scritta.
Ho detto che John Grady mi ha fatto una tenerezza straziante. E tra lui e Billy – be’, non so chi tra lui e Billy mi abbia commossa e devastata di più. Il fatto è che non si può non volere a entrambi un bene immenso.
Non posso parlare di questo libro raccontandone la trama. E non serve a molto raccontare la trama quando le cose che fanno il libro sono altre. Sono partite a scacchi, luci al neon che ribollono e galleggiano sbavate ed evanescenti nella pioggia, un arco descritto in aria da una sigaretta, il vento che gioca coi tizzoni di un falò, occhi di ragazza che nascondono il mondo, aste di cavalli, ombre stratificate di palizzate come binari di ferrovie, costellazioni alla deriva, arcani insondabili iscritti su strapiombi rocciosi, una vecchia casa da rimettere a posto, le luci della città nella pianura come stelle riflesse in un lago, occhi di bestiame che galleggiano nel buio come carboni ardenti al faro di una locomotiva, staffe e redini, oche selvatiche che volano davanti alla luna e chissà dove vanno, fondi di caffè che roteano in una tazza, sveglie a notte fonda, stelle sulla testa come un’alluvione, le storie implacabili raccontate dagli antichi ingranaggi di una pendola e dall’antico silenzio del deserto, un cucciolo in una cassetta, matasse di luce nella strada attraversate e scomposte dai raggi delle ruote di un carretto, racconti di vita randagia, il catino azzurro cupo che resta della notte mentre un nuovo giorno scende lento sul paesaggio, l’alone delle luci cittadine sul deserto come un’alba eternamente a venire, i pioppi e le montagne e la distesa rossastra del cielo al tramonto… E in tutto questo i gesti e i riti quotidiani, i dialoghi e i silenzi, i detti e i non detti.
E sono sempre loro, soprattutto loro – i gesti, i detti e i non detti – i cardini dei rapporti più profondi; i cardini, soprattutto, di un’amicizia che insieme scalda e strappa il cuore. Perché questo libro parla di amicizia più di ogni altra cosa. È vero, parla anche (e moltissimo) di amore – il motore della trama è legato a un innamoramento – ma ancora di più parla di amicizia e del senso della famiglia, di quella famiglia che si viene a creare tra persone che vivono e lavorano insieme. L’amicizia fraterna tra John Grady e Billy, così rude e così tenera e così intima, ti scava dentro come nessun altro rapporto raccontato nel libro. Spunta a metà tra un pennello in più – giusto nel caso saltasse fuori uno scemo che aveva voglia di pitturare – e un come fai a essere così testone?, tra un buonanotte gridato in corridoio e una cantilena burlona in rima; tra detti e non detti, silenzi e mezzi silenzi.
E mentre leggi sai che soffrirai, capisci dove sta andando a parare la storia, lo avverti tra le pagine che per questi personaggi non ci sarà un lieto fine – eppure non riesci a smettere di leggere. Forse per quegli sprazzi di luce che affiorano all’improvviso e che a volte si allargano, sempre più vividi, e poi diventano così abbaglianti da coprire tutto il resto. Sono i momenti che ti ricordano che anche in mezzo alla sofferenza, alla cattiveria e alle ingiustizie del mondo ci sono valori che rimangono solidi, sempre, e ci sono persone che credono in questi valori: l’amicizia, la famiglia, il potere del cuore; ma anche la gentilezza, la fiducia, la generosità, l’aiuto reciproco, l’ospitalità, la condivisione, la pietà. Per questo Città della pianura è così disperatamente bello. Per questo è incredibile come ti pugnali, ti devasti, ti faccia a pezzi, eppure dopo averlo chiuso tu McCarthy vuoi ringraziarlo. Per aver scritto qualcosa di così tremendo e di così maestoso. Per averti portato dentro a tutto il dolore e a tutta la grazia della vita. Per essere riuscito a scaldarti il cuore mentre te lo strappava.
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Se ti interessa leggere altro sulla Trilogia della frontiera, ho parlato del primo volume, Cavalli selvaggi, qui e qui, e del secondo volume, Oltre il confine, qui. 😉