Non smetterò mai di leggere Dialoghi con Leucò

Credo in ciò che ogni uomo ha sperato e patito. Non penso esistano parole più efficaci di queste – queste, pronunciate dal primo interlocutore nel pezzo intitolato Gli dèi – nel condensare il senso ultimo del mito e, insieme, il senso ultimo di questi Dialoghi con Leucò, impresa maestosa compiuta da Pavese, trionfo commovente di grecità e umanità.
Grecità e umanità. Perché insieme?, vi potreste chiedere.
Perché non c’è interrogativo umano, non c’è passione o sentimento che la cultura greca antica non abbia affrontato o esplorato. L’ha fatto in modi e sedi diverse, l’ha fatto soprattutto con la grande letteratura – come non pensare ai poemi omerici o al teatro?! – ma l’ha fatto, ancor prima e ancor più, attraverso il mito, patrimonio antico e universale di un popolo intero, sostrato di qualsiasi manifestazione artistica.
Una mitologia, quella greca, che Cesare Pavese ha fatto propria al punto da poterne scrivere incrociando più livelli di intenti: esplorare l’uomo attraverso il mito ed esplorare il mito attraverso l’uomo, in ventisette dialoghi di uno splendore delicato, di una rara sensibilità e di una profondità sconvolgente.
Dialoghi, dunque. Voci di dèi, semidei e uomini. Voci di ninfe e titani. Ascoltiamo Circe, Tiresia, Eracle; ascoltiamo Saffo, Ariadne, Calipso. Ascoltiamo anche diverse entità: Eros conversa con Tànatos, Bia con Cratos. Frasi brevi, spesso lapidarie, che concentrano strati di significati in una manciata di parole – parole su cui hai bisogno di tornare, midolli di realtà che giri e rigiri dentro di te. E si parla di amore, di origine e di religione; di nostalgia, di vecchiaia, di morte, di passione. Della vita, dunque, semplicemente; e di noi, di noi tutti, perché la domanda, la grande domanda sottesa, è sempre chi siamo? E così, dando voce al mito per quello che è – esattamente per quello che è – Pavese svela del mito aspetti nascosti, regalandoci prospettive inattese di storie che appartengono al nostro immaginario, sfaccettature che abbiamo sempre avuto sotto gli occhi ma su cui non abbiamo mai riflettuto.
E parlano sempre di noi questi dialoghi. Non solo quando a parlare sono uomini o quando si parla propriamente degli uomini: nel parlare degli dèi si parla di noi; anche nel parlare della dimensione arcaica primigenia si parla di noi.

Sì, perché il mondo è vecchio. Il mondo è più vecchio degli dèi.
I primi dialoghi in particolare rivelano un mondo antico, che rimarrà poi lì, a galleggiare e riecheggiare, quasi sospeso, per tutto il resto del libro, in contrapposizione a quello degli Olimpi ma a quest’ultimo sotteso. È il mondo del Caos primigenio, un mondo prima del tempo, il mondo favoloso – le cose stesse, regnavano alloradelle belve e dei boschi, del mare e del cielo, di lotta e di sangue; è la dimensione dell’indistinto, dove la nuvola la rupe la grotta hanno lo stesso nome, dove ogni entità è titanica e con loro, i Titani, domina l’irrazionale, l’ambiguo, la natura libera e ferina, mentre tutto è istinto, mentre i riti selvaggi spargono sangue.
Cos’era, a quell’epoca, l’Olimpo? Soltanto un monte brullo.
Poi è arrivato il regno degli dèi, gli immortali che hanno vinto i Titani, gli Olimpi che, rappresentando l’intelletto e la razionalità, hanno dato un nome alle cose, hanno messo ordine e portato una legge di giustizianulla si fa che non ritorni. Hanno vinto la selva, la terra e i suoi mostri, dice Eracle a Litierse, non hanno bisogno di sangue.

Ma cosa, quanto possiamo davvero attribuire agli dèi? È questa un’altra grande domanda che risuona ed echeggia. Per dirla con Tànatos, io mi chiedo fin dove gli Olimpici faranno il destino. E la verità, lo spiega Tiresia a Edipo, la verità è che il loro potere è limitato: posson dare fastidio, accostare o scostare le cose. Non toccarle, non mutarle. Sono venuti troppo tardi. Di conseguenza, come precisa Ermete, devon trafiggere e distruggere e rifare ogni volta che il caos trabocca alla luce, alla loro luce.
Ed eccolo, è qui l’intoppo: il caos trabocca. Trabocca perché la dimensione arcaica persiste, perché molte entità portano i segni di quell’era mostruosa, il ricordo del pantano, dell’informe furore sanguigno
Forse è anche per questo che gli stessi dèi, pur forieri di un mondo ordinato, sono scossi da passioni distruttive; è anche per questo che possono agire per capriccio – o meglio, ancora con Tànatos, ogni loro capriccio è una legge fatale. Per esprimere un fiore distruggono un uomo. Possono essere ingiuriosi, loro che, come rimarca un cacciatore, non han rimorsi, tanto che i boschi sono pieni di uomini e donne da loro toccati – chi divenne cespuglio, chi uccello, chi lupo. La stessa Demetra lo ammette con Dioniso: io non so come, ma quel che ci esce dalle mani è sempre ambiguo.
Nulla si fa che non ritorni evoca la giustizia degli Olimpi, ma, allo stesso tempo, proprio perché nulla si fa che non ritorni, sangue porta sangue. Come rivela Prometeo a Eracle, il sangue dei mostri che l’eroe ha ucciso – quel sangue distruttivo rivivrà in lui e lo porterà a morire. Lo stesso concetto è espresso da Teseo: quel che si uccide si diventa, risponde l’uccisore del Minotauro al compagno che lo rimprovera di crudeltà. Non per niente, in un certo senso, non si uccidono, i mostri, e anche gli dèi Olimpi, ricordiamolo, li hanno soltanto vinti.

Arriviamo così al punto focale: i tre mondi – quello arcaico, quello olimpico e quello umano – in realtà convivono. E c’è una tale fluidità tra Titani e dèi e uomini che forse è tutta una questione di nomi, di idee, di paure. Le cose si mescolano, le cose si ripetono. D’altronde il caos umano-divino è, nell’idea di Pavese, la forma perenne della vita. Fluidità, mutabilità: identità. Che cos’era bestiale se la bestia era in noi come il dio?, si domanda Chirone. Quanto agli dèi, finiranno anche loro, decreta Prometeo, lapidario. E, per chiarire a Eracle, precisa: […] i mostri non muoiono. Quello che muore è la paura che t’incutono. Così è degli dèi. Quando i mortali non ne avranno più paura, gli dèi spariranno.
Torneranno i titani?, gli chiede Eracle.
E Prometeo: Non ritornano i sassi e le selve. Ci sono. Quel che è stato sarà. […] Siamo un nome, non altro. […] E il mondo ha stagioni come i campi e la terra. Ritorna l’inverno, ritorna l’estate. Chi può dire che la selva perisca? O che duri la stessa? Voi sarete i titani, fra poco.
Eracle: Noi mortali?
Prometeo: Voi mortali – o immortali, non conta.
Quello che conta, allora, è da dove arriva il divino. Arriva dai posti che abiti, che vivi; arriva da come cresci, dai valori che fai tuoi. E comunque, come rimarca Teseo, […] quel divino che hai nel sangue non si uccide.

Il sangue. Ecco un’altra costante imprescindibile, dall’epoca del Caos primigenio – quando era misto a fango – al presente sospeso del libro, nel quale è strumento dell’uomo per omaggiare gli dèi, fino al momento in cui, come pronostica Dioniso, gli uomini lo vedranno nel vino cristiano.
Il sangue, quel che vi gonfia le vene e accende gli occhi, dice Diana a Virbio, so che è per voi vita e destino.
Destino – è questa l’altra parola chiave, è questo il cardine della riflessione sull’uomo e sul suo rapporto con la vita: il destino, avversato e detestato da alcuni; il destino, ricercato da altri come imprescindibile parte di sé, del proprio essere umano. Ho bisogno di avere una voce e un destino, dichiara Virbio a Diana, lamentando la condizione di estraneità dal tempo nella quale lei lo ha bloccato – quella felicità adamantina e finta che lo fa sentire un’ombra tra le ombre degli alberi – ed esprimendo nella chiusa finale – chiedo di vivere, non di essere felice – la necessità di una vita normale, magari difficile, ma umana. E se questo riecheggia, in qualche modo, nelle parole di Patroclo – meglio soffrire che non essere esistito – e nel discorso di Saffo, la quale, dopo il suicidio, realizza di preferire sofferenze e inquietudini alla monotonia di una morte che l’ha resa perenne schiuma d’onda, è passando per la sofferenza che Edipo, in uno dei dialoghi più commoventi, esprime la sua particolare visione della vita vera, il suo bisogno disperato di autodeterminarsi, di smarcarsi da quel destino a cui Virbio invece anelava in quanto umano: vorrei essere l’uomo più sozzo e più vile, afferma Edipo, purché quello che ho fatto l’avessi voluto. Non subìto così. Non compiuto volendo far altro.
Vivere, soffrire; accettare un destino o resistergli. Del resto, non è forse il destino la cosa più umana tra tutte? Così lo intende Orfeo: il destino, proclama, è più profondo del sangue, […] nessun dio può toccarlo. È cosa tua. Nell’originale interpretazione di Pavese, Orfeo cerca se stesso – non Euridice, ed è per questo che si volta, scegliendo di lasciarla andare – quando scende nell’Ade, e nel cercare se stesso cerca un destino. E quanto risuona, qui, Virbio! E quanto risuona Saffo, quando alla domanda di Britomarti sul destino risponde non l’accetto. Lo sono.
D’altronde, quello che cerco l’ho nel cuore, dice Odisseo a Calipso.

Accettare un destino o resistergli; soffrire, vivere. Vivere, sì. Perché la vita, la vita umana nella sua fragilità, nel suo costante moto di ricerca di sé, di lotta o armonia col destino, nelle sue passioni e in tutte le sue incertezze, possiede un’unicità che la rende più affascinante – e più vera, soprattutto – rispetto all’esistenza immobile nel tempo caratteristica degli dèi.

Sarà per questo che le divinità sono attratte dagli uomini? Che Artemide si innamora di Endimione e Bacco di Ariadne? Ancora, sarà per questo che i dialoghi dove un dio approccia un essere umano regalano le immagini più delicate? Come quella di Artemide, che nel toccare Endimione sui capelli, quasi esitando, viene colta da un sorriso incredibile, mortale, o come quando Dioniso, un dio per cui sorridere è come il respiro, sul punto di venire in soccorso di Ariadne è accostato da Leucotea a un paesaggio, un vigneto in costa a un colle lungo il mare, nell’ora lenta che la terra dà il suo odore, e poi a un profumo rasposo e tenace, tra di fico e di pino, e all’aria che pesa di mosto, e al frutto e fiore del melograno, e al fresco dell’edera, e ai pineti, e alle aie.
Ancora, c’è l’effetto che Odisseo fa a Circe, effetto che la maga stessa ci racconta in uno dei dialoghi più belli in assoluto, uno di quelli in cui guardiamo all’uomo con gli occhi di chi uomo non è, e in cui, per questo, emergono prospettive straordinarie di quella caducità che lo rende unico e inimitabile: la loro vita è così breve che non possono accettare di far cose già fatte o sapute, riflette Circe prima di mettere in luce quella facoltà – e insieme valore – che appartiene all’uomo e all’uomo soltanto, la memoria. E in questo dialogo, che sublima il potere del ricordo esaltandone la connessione con la dimensione affettiva, l’uomo risplende di possibilità estranee agli dèi – perché per lui il ricordo ha un significato, e perché è questo e solo questo a renderlo immortale, il ricordo che porta e il ricordo che lascia. Una volta – racconta Circe a Leucotea, parlando di Odisseo – credetti di avergli spiegato perché la bestia è più vicina a noialtri immortali che non l’uomo intelligente e coraggioso. La bestia che mangia, che monta, e non ha memoria. Lui mi rispose che in patria lo attendeva un cane, un povero cane che forse era morto, e mi disse il suo nome. Sì, l’uomo dà un nome agli animali. L’uomo ama, e ricorda i suoi affetti. E quest’uomo amava un cane, una donna, suo figlio, e una nave per correre il mare. E con quella sua nave arricchiva la terra di parole e di fatti, incurante del destino che per questo, in qualche modo, riusciva a raggirare.
Sì, perché se è vero che agli uomini accadono cose inesorabili, è anche vero che queste cose sono fatte di assurdo, di attimi inattesi, irripetibili, sorprendenti, come – racconta ancora Circe – quel gioco degli scacchi che Odisseo m’insegnò, tutto regole e norme ma così bello e imprevisto, coi suoi pezzi d’avorio. Lui mi diceva sempre che quel gioco è la vita.

E così gli uomini vivono davvero, a dispetto del destino, e chi soccombe sono in realtà gli dèi, chiusi in un eterno presente – gli dèi che non esistono, ma semplicemente, come precisa Tànatos, sono, in un mondo che passa.

Senza di loro – senza gli uomini – mi chiedo che cosa sarebbero i giorni, riflette Dioniso con Demetra; tutto quello che toccano diventa tempo […] azione […] attesa e speranza, risponde lei poco dopo: ci troviamo nell’ultima parte del libro, pagine meravigliose che condensano e illuminano quanto di più buono ci sia nell’uomo – l’uomo, un essere creativo, coraggioso, fantasioso, capace di adattarsi e industriarsi, di nutrirsi di speranze e promesse e progetti – in una prospettiva di fiducia sul mondo, ma soprattutto in una celebrazione commovente della vita di noi tutti.
È quello che traspira, ad esempio, dalle parole di Cratos e Bia, di Dioniso e Demetra, di Satiro e Amadriade.
Perché Zeus e tutti gli altri dèi sono così attratti dall’uomo? La risposta è che il mondo, se pure non è più divino, proprio per questo è sempre nuovo e sempre ricco. Che questi umani sono poveri vermi, ma tutto fra loro è imprevisto e scoperta. Che sulle colline han saputo piantare vigneti, facendo dolci paesi di brutti pendii sassosi, e così hanno fatto del grano, così dei giardini, spendendo fatiche e parole e creando un ritmo, un senso, un riposo. Sono preziosi nelle labilità, straordinari nelle debolezze – preziosi e straordinari, soprattutto, per quegli istanti imprevisti, unici, che danno un senso vero alla vita. Per questo nella loro miseria hanno tanta ricchezza. Per questo, soltanto vivendo con loro e per loro si gusta il sapore del mondo.
Senza di loro mi chiedo […] che cosa saremmo noi Olimpici, dice ancora Dioniso. Ci chiamano con le loro vocette, e ci dànno dei nomi. E proprio la riflessione sul valore del nome torna più volte in queste ultime pagine: hanno un modo di nominare se stessi e le cose e noialtri che arricchisce la vita […] sanno darci dei nomi che ci rivelano a noi stessi […] e ci strappano alla greve eternità del destino per colorirci nei giorni e nei paesi dove siamo. È una capacità che afferisce, più in generale, a quella della parola – e la parola dell’uomo, che sa di patire e si affanna e possiede la terra, rivela a chi l’ascolta meraviglie.


E che dire delle storie che sanno raccontare?

Proprio su questo si chiude l’opera. Nel penultimo dialogo, non a caso quello tra Mnemosine e il poeta Esiodo, si riprende il tema della memoria, declinata stavolta nel suo potere di filtrare le immagini e addolcire le asperità e accostata, appunto, alla capacità dell’uomo di comunicare, di esprimersi, di portare la parola al mondo: è così che nasce la dimensione artistica, potere supremo dell’essere umano. Non per niente Esiodo incontra Mnemòsine – la memoria, madre delle Muse e quindi della conoscenza (mi par di sapere qualcosa soltanto con te, le dice) e di tutte le arti – su un monte: è il monte Elicona, sede delle Muse per i Greci, che situavano nei luoghi elevati le feste della fantasia e della memoria, assegnando al pensiero e all’arte una posizione di preminenza sul mondo.

E su un monte è ambientato anche l’ultimo dialogo – su un monte brullo percorso, stavolta nella nostra epoca, da due interlocutori che discutono di mitologia. Perché, sì, quelle alture brulle sono così pregnanti di un passato mitico che basta un nonnulla, e la campagna ritorna la stessa di quando queste cose accadevano. Sono le alture dove i Greci hanno cercato, veduto, narrato quel patrimonio immenso di storie sull’umanità, lo spettacolo del mondo e dei moti del nostro animo – i Greci che sapevano troppe cose, che con un semplice nome raccontavano la nuvola, il bosco, i destini. È, ancora una volta, il potere di un nome che si carica di sostanze di significati: è il semplice, splendente potere della parola, che rivelando un midollo di realtà sorprende e scuote e fa tremare. E la parola è capace, lei e solo lei, di eternare questi luoghi donando loro nomi per sempre, laddove non rimane che l’erba sotto il cielo, eppure l’alito del vento dà nel ricordo più fragore di una bufera dentro il bosco. Per chi ci crede. Per chi crede in ciò che ogni uomo ha sperato e patito.
Non smetterò mai di leggere questi Dialoghi.

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Che libro immenso L’isola di Arturo

La mia edizione de L'isola di Arturo. 
Foto scattata nella primavera 2023.
La mia edizione de L’isola di Arturo.
Foto scattata nella primavera 2023.

L’infanzia e l’adolescenza di un ragazzo nato e cresciuto a Procida: i sogni, la solitudine, la scoperta dei sentimenti, le illusioni e le disillusioni.
E poi la forza e la magia del linguaggio che racconta tutto questo.
E poi l’immaginazione, perché per me L’isola di Arturo è stato prima di tutto e soprattutto un romanzo sul potere immenso dell’immaginazione umana.

Potere immenso. Romanzo immenso. Lettura immensa.


“Certe sere, dopo cena, attirato dalla frescura di fuori, mi stendevo sullo scalino della soglia, o sul terreno dello spiazzo. La notte, che un’ora prima, giù in piano, m’era apparsa così proterva, qua, a un passo dalla porta-finestra illuminata, mi ridiventava familiare. Adesso il firmamento, a guardarlo, mi diventava un grande oceano, sparso d’innumerevoli isole, e, fra le stelle, ricercavo aguzzando lo sguardo quelle di cui conoscevo i nomi: Arturo, prima di tutte le altre, e poi le Orse, Marte, le Pleiadi, Castore e Polluce, Cassiopea… Avevo sempre rimpianto che, ai tempi moderni, non ci fosse più sulla terra qualche limite vietato, come per gli antichi le Colonne d’Ercole, perché mi sarebbe piaciuto di oltrepassarlo io per primo, sfidando il divieto con la mia audacia; e allo stesso modo, adesso, guardando lo stellato, invidiavo i futuri pionieri che potranno arrivare fino agli astri. Era umiliante vedere il cielo e pensare: là ci sono tanti altri paesaggi, altre iridi di colori, forse tanti altri mari di chi sa quali colori, altre foreste più grandi che ai Tropici, altre forme di animali ferocissime e allegre, più amorose ancora di queste che vediamo… altri esseri femminili stupendi che dormono… altri eroi bellissimi… altri fedeli… e io non posso arrivare là! Allora, i miei occhi e i miei pensieri lasciavano il cielo con dispetto, riandando a posarsi sul mare, il quale, appena io lo riguardavo, palpitava verso di me, come un innamorato. Là disteso, nero e pieno di lusinghe, esso mi ripeteva che anche lui, non meno dello stellato, era grande e fantastico, e possedeva territori che non si potevano contare, diversi uno dall’altro, come centomila pianeti! Presto, ormai, per me, incomincerebbe finalmente l’età desiderata in cui non sarei più un ragazzino, ma un uomo; e lui, il mare, simile a un compagno che finora aveva sempre giocato assieme a me e s’era fatto grande assieme a me, mi porterebbe via con lui a conoscere gli oceani, e tutte le altre terre, e tutta la vita!”  (p. 180 Ed. Einaudi)

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Canne al vento e il palpito del sentimento umano in una scrittura dalla forza ancestrale

La mia edizione di Canne al vento.
Foto scattata nella primavera 2023.
La mia edizione di Canne al vento.
Foto scattata nella primavera 2023.

Misteri di silenzi lunari, di folletti e fantasmi notturni che soffiano nel vento, di canne che mormorano, di erba che pare ondulare seguendo il motivo di una fisarmonica.
Misteri che in un mondo caldo e disfatto – in un mondo laconico, pieno di solitudine e d’oblio – sembrano incorniciare gli occhi nostalgici di personaggi vividi, intensi e desolati, inseriti in una calma morsa di miseria e rimpianto, di colpe e pentimenti, di orgoglio, di vergogna e di pietà.
È un mondo dove profumi evocano ricordi, come succede a Noemi in primavera, quando una “malattia di languore”, “il male del ricordo”, sembra riportare i suoi occhi “liquidi e freddi come un’acqua profonda” su un remoto belvedere, davanti a quella “festa della vita” a cui non riesce a unirsi e di cui tuttavia rimane in lei un sogno latente, insieme a una sete d’amore che le fa sentire dentro “tutto il grigio e tutto il rosso” e al contempo un “violento bisogno di solitudine”.
È un mondo dove un poderetto può essere un rifugio ma anche una prova di espiazione, come nel caso di Efix, che guarda alla sua collina con “tenerezza d’amante” – Efix, che ha sempre vissuto “sull’orlo d’una strada metà percorsa metà da percorrere”; Efix, che si porta dietro segreti che pesano come macigni.
È un mondo in cui nella ritualità e nel sentimento religioso è spesso labile il confine tra un personaggio e un popolo intero, anche attraverso suggestioni misteriose in mano al potere della natura. Succede, ad esempio, durante i canti in chiesa, quando l’estasi dolorosa di Efix è accostata alla luce rossa del tramonto che come un velo di sangue copre la folla, mentre migliaia di voci salgono in una sola, fondendosi come il profumo dei cespugli; succede, ancora, quando nel riso e nel pianto di singoli personaggi “il riso e il pianto di tutto il mondo” sembra unificarsi tremando e vibrando nelle note di un usignolo; e succede, ancora, quando le preghiere di dolore e speranza si perdono nel lamento remoto della natura o vibrano “lontano, al di là del tempo”.
E la speranza non manca mai, come l’attesa di “un essere misterioso, salvatore e vendicatore assieme”, attesa che riecheggia in quella figura del Redentore che ferma il suo volo sulla roccia più alta e che con la sua croce sembra unire il cielo azzurro alla terra grigia. Non manca mai, neanche, la fiducia nella “forza sovrannaturale” che spinge la mano dell’uomo, fiducia tangibile, ad esempio, nel significato che Efix attribuisce all’improvviso deviare di un raggio di sole sul suo volto. Eriguarda proprio Efix, peraltro, una delle immagini più belle di speranza, la potente e toccante similitudine per la quale “le sue stesse lagrime lo illuminavano, gli splendevano intorno come stelle”.
Alla speranza, infine, partecipa spesso anche la natura, facendosi soave laddove prima era stata cupa, e colpendoci ed emozionandoci per la sua plurivalenza, per la sua capacità di riflettere l’ampio ventaglio di stati d’animo dei personaggi. E allora il mondo può essere agitato “da una convulsione di tristezza e di terrore” oppure, mentre “una grande luna di rame sorge dal mare”, può sembrare “d’oro e di perla”, o ancora ammucchiare “a cataste sull’orizzonte tutto l’argento delle miniere del mondo”. E allora i monti possono assomigliare a vulcani e incombere “con forme fantastiche di muraglie, di castelli, di tombe ciclopiche”, oppure possono apparire come “i petali di un immenso fiore aperto al mattino”, sembrare “fatti di marmo e d’aria”. E, ancora, le nuvole possono somigliare a “torrenti di lava, colonne di fumo”, ma essere anche “bianche e tenere come veli di donna”, mentre la luna può “splendere azzurrognola sul rudero della torre come una fiamma su un candelabro nero”, ma può anche “sbocciare come una grande rosa fra i cespugli della collina”. E, infine, il fiume può avere un mormorio “monotono come quello di un bambino che s’addormenta”, oppure “palpitare come il sangue della valle addormentata”, facendosi portavoce di quel palpito del sentimento umano che risuona così bene in questa scrittura dalla forza ancestrale, in questo pathos che ci fa tremare e immaginare e che riecheggia in noi come il suono di quelle canne che sembrano sospirare, parlare e lottare spinte dal vento. 

***

Ho trascritto qui sotto una serie di passi che mi hanno colpito particolarmente e che credo risultino rappresentativi della bellezza, della forza e del pathos della scrittura di Grazia Deledda.
Ho raccolto i passi sotto alcune parole chiave; le pagine si riferiscono all’edizione di Canne al vento BUR Rizzoli 2008.

Natura, paesaggi, atmosfere

“E Dio prometteva una buona annata, o per lo meno faceva ricoprir di fiori tutti i mandorli e i peschi della valle; e questa, fra due file di colline bianche, con lontananze cerule di monti ad occidente e di mare ad oriente, coperta di vegetazione primaverile, d’acque, di macchie, di fiori, dava l’idea di una culla gonfia di veli verdi, di nastri azzurri, col mormorio del fiume monotono come quello di un bambino che s’addormenta.” (p. 27)

“A quell’ora, mentre la luna sbocciava come una grande rosa fra i cespugli della collina e le euforbie odoravano lungo il fiume, anche le padrone di Efix pregavano […]” (p. 28)

“[…] giunchi argentei lucenti alla luna come fili d’acqua.” (p. 28)

“Fra una canna e l’altra sopra la collina le nuvole di maggio passavano bianche e tenere come veli di donna; egli guardava il cielo d’un azzurro struggente e gli pareva d’esser coricato su un bel letto dalle coltri di seta.” (p. 73)

“Di là vedeva l’erba alta ondulare quasi seguendo il motivo monotono della fisarmonica, e i cavalli immobili al sole come dipinti sullo smalto azzurro dell’orizzonte.” (p. 86)

“Qualche figura di pescatore si disegnava immobile come dipinta in doppio sul verde della riva e sul verde dell’acqua stagnante fra i ciottoli bianchi.” (p. 101)

“[…] l’aurora pareva sorgere dalla valle come un fumo rosso inondando le cime fantastiche dell’orizzonte. Monti Corrasi, monte Uddé, Bella Vista, Sa Bardia, Santo Juanne, monte Nou sorgevano dalla conca luminosa come i petali di un immenso fiore aperto al mattino; e il cielo stesso pareva curvarsi pallido e commosso su tanta bellezza.” (pp. 128-129)

“Il villaggio bianco sotto i monti azzurri e chiari come fatti di marmo e d’aria, ardeva come una cava di calce […]” (p. 130)

“[…] e le rondini passavano incessantemente in giro, sopra le loro teste, come una ghirlanda mobile di fiori neri, di piccole croci nere.” (p. 152)

“[…] il vento infuriava sempre più e le nuvole salivano e scendevano dall’Orthobene, giù e su come torrenti di lava, come colonne di fumo, spandendosi su tutta la valle: ma sopra le alture di Nuoro una striscia di cielo rimaneva di un azzurro triste di lapislazzuli e la luna nuova tramontava rosea fra due rupi.” (p. 167)

“[…] nella sera nuvolosa, i monti del Gennargentu incombevano con forme fantastiche di muraglie, di castelli, di tombe ciclopiche, di città argentee, di boschi azzurri coperti di nebbia […]” (p. 176)

“Il vento passava impetuoso, ma sul tardi il sole apparve fra le nubi squarciandole e respingendole fino all’orizzonte, e tutto brillò attorno ai monti e alle valli ove la nebbia si raccolse in laghi argentei luminosi.” (p 182).

“[…] le montagne davanti e in fondo alla valle parevano vulcani; nuvole di fumo solcate da pallide fiamme e poi getti di lava azzurrognola e colonne di fuoco salivano laggiù.
Verso sera il cielo si schiariva, tutto l’argento delle miniere del mondo s’ammucchiava a blocchi, a cataste sull’orizzonte […]” (p. 203)

“Nel silenzio il torrente palpitava come il sangue della valle addormentata.” (p. 204)

Suggestioni

“La luna saliva davanti a lui, e le voci della sera avvertivano l’uomo che la sua giornata era finita. Era il grido cadenzato del cuculo, il zirlio dei grilli precoci, qualche gemito d’uccello; era il sospiro delle canne e la voce sempre più chiara del fiume: ma era soprattutto un soffio, un ansito misterioso che pareva uscire dalla terra stessa: si, la giornata dell’uomo lavoratore era finita, ma cominciava la vita fantastica dei folletti, delle fate, degli spiriti erranti. I fantasmi degli antichi Baroni scendevano dalle rovine del castello sopra il paese di Galte, su, all’orizzonte a sinistra di Efix, e percorrevano le sponde del fiume alla caccia dei cinghiali e delle volpi: le loro armi scintillavano in mezzo ai bassi ontani della riva, e l’abbaiar fioco dei cani in lontananza indicava il loro passaggio.” (pp. 28-29)

“[…] e tutto il paesaggio che pochi momenti prima pareva si fosse addormentato fra il mormorio di preghiera delle voci notturne, fu pieno di echi e di fremiti quasi si svegliasse di soprassalto.” (p. 30)

“L’euforbia odorava intorno, la luna azzurrognola splendeva sul rudero della torre come una fiamma su un candelabro nero, e pareva che in quell’angolo di mondo morto non dovesse più spuntare il giorno.” (p. 113)

“Sulla lucerna nera la fiammella azzurrognola immobile pareva la luna sul rudero della torre.” (p. 115)

“Dal buco del tetto pioveva come da un imbuto capovolto un raggio dorato […] Efix guardava come dal fondo di un pozzo quel punto alto lontano; ma d’improvviso gli parve che il raggio deviasse, piovesse su di lui, illuminandolo.” (p. 157)

“[…] e il Redentore ferma il volo sulla roccia più alta, con la croce che sbatte le sue braccia nere sul pallore dorato del cielo.
Ed Efix s’inginocchia ma non prega, non può pregare, ha dimenticato le parole; ma i suoi occhi, le mani tremanti, tutto il suo corpo agitato dalla febbre è una preghiera.” (p. 158)

“E l’ombra si addensava rapida; ogni nuvola passando sul vicino orizzonte lasciava un velo, il vento urlava dietro la chiesa, tutte le macchie tremavano protendendosi in là verso la valle, e pareva volessero fuggire, luminose d’un verde metallico, agitate da una convulsione di tristezza e di terrore.” (p. 166)

“[…] il riso e il pianto di Grixenda, il riso e il pianto di Noemi, il riso e il pianto di lui, Efix, il riso e il pianto di tutto il mondo, tremavano e vibravano nelle note dell’usignuolo sopra l’albero solitario che pareva più alto dei monti, con la cima rasente al cielo e la punta dell’ultima foglia ficcata dentro una stella.” (p. 174)

Odori e ricordi

“Quel giorno Noemi aveva come il male del ricordo: la lontananza delle sorelle e un’istintiva paura della solitudine la riconducevano al passato. Lo stesso chiarore aranciato del crepuscolo, il Monte coperto di veli violetti, l’odore della sera, tutto le ridestava l’anima di vent’anni prima.” (p. 58)

“Si sentiva l’odore degli ontani e del puleggio; tutto era caduto in un silenzio tremulo come dentro un’acqua corrente. Ed Efix ricordava le sere lontane, il ballo, i canti notturni, donna Lia seduta sulla pietra all’angolo del cortile, piegata su se stessa come una giovine prigioniera che rode i lacci e piano piano si prepara alla fuga.” (p. 76)

Noemi

“Tutti gli anni la primavera le dava questo senso di inquietudine: i sogni della vita rifiorivano in lei […] Le par d’essere ancora fanciulla, arrampicata sul belvedere del prete, in una sera di maggio. Una grande luna di rame sorge dal mare, e tutto il mondo pare d’oro e di perla. […] No, ella non ballava, non rideva, ma le bastava veder la gente a divertirsi perché sperava di poter anche lei prender parte alla festa della vita. […] (pp. 54-55)

“Allora Noemi si mise a ridere, ma sentì le ginocchia tremarle e sentì nel cuore la bellezza luminosa del tramonto: era un mare di luce sparso d’isole d’oro, con un miraggio in fondo. Ella non aveva mai provato un attimo di ebbrezza simile.” (p. 119)

“E come i bambini ed i vecchi si mise a piangere senza sapere il perché – di dolore ch’era gioia, di gioia ch’era dolore.” (p. 121)

“[…] e Noemi sentiva anche lei, fin là dentro, fin contro la grata che esalava un odor di ruggine e di alito umano, un tremito di vita, un desiderio di morte, un’angoscia di passione, uno struggimento di umiliazione, tutti gli affanni, i rimpianti, il rancore e l’ansito della peccatrice d’amore.” (p. 146)

Canne al vento

“[…] star vigili come le canne sopra il ciglione che ad ogni soffio di vento si battono l’una contro l’altra le foglie come per avvertirsi del pericolo.” (p. 28)

“Fuori le canne del ciglione frusciavano con tale violenza che pareva combattessero una battaglia.
All’alba, uscendo dalla capanna Efix infatti ne vide centinaia pendere spezzate, con le lunghe foglie sparse per terra come spade rotte. E le superstiti, un poco sfrondate anch’esse, pareva si curvassero a guardare le compagne morte, accarezzandole con le loro foglie ferite.” (pp. 189-190)

“Perché la sorte ci stronca così, come canne?”
“Sì, egli disse allora, siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne, e la sorte è il vento.” (p. 199)

Espiazione

“Sentiva ancora le monete dei giovani nuoresi percuotergli il petto e trasaliva tutto come lo lapidassero; ma era un brivido di gioia, era la voluttà del martirio.” (p. 174)

Sentimento religioso, colpa, preghiera, speranza

“Anche la preghiera aveva una risonanza lenta e monotona che pareva vibrasse lontano, al di là del tempo […]” (p. 45)

“[…] migliaia di voci salirono in una sola, fondendosi come fuori si fondevano i profumi dei cespugli; Efix inginocchiato in un angolo, provava la solita estasi dolorosa […] La luce rossa del crepuscolo, vinta verso l’altare dal chiaror dei ceri, copriva la folla come di un velo di sangue […]” (pp. 86-87)

“[…] e anche adesso gli pareva che tutto il sangue gli uscisse dagli occhi; tutto il sangue cattivo, il sangue del peccato. Il suo corpo ne rimaneva esausto, e l’anima vi si sbatteva dentro, in uno spazio vuoto e nero come la notte; ma le parole d’amore di Giacinto balenavano lucenti sullo sfondo tenebroso, e le sue stesse lagrime lo illuminavano, gli spendevano intorno come stelle.” (pp. 163-164)

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Niente di nuovo sul fronte occidentale è un libro innocente e terribile

La mia edizione di Niente di nuovo sul fronte occidentale. 
Foto scattata nell'inverno 2023.
La mia edizione di Niente di nuovo sul fronte occidentale.
Foto scattata nell’inverno 2023.

Innocente e terribile.
Le prime parole che mi sono venute in mente, dopo solo poche pagine, sono proprio queste, e sono le stesse che continuano a girarmi in testa a lettura conclusa ormai da diversi giorni.
La verità è che io di un libro così, di un libro, cioè, che racconta la guerra di trincea attraverso lo sguardo di ragazzi giovanissimi, di un libro che racconta il sacrificio di una generazione spezzata, ecco, io di un libro così non so nemmeno cosa dire.
Vorrei riportare qui sotto citazioni su citazioni, ma non avrebbe alcun senso: Niente di nuovo sul fronte occidentale deve essere letto. Bisogna lasciarsi travolgere dalle pugnalate inferte dalle parole di Remarque; bisogna girarsi e rigirarsi in testa quelle scene così vivide, così devastanti; bisogna aprire gli occhi, subire l’impatto e lasciarsi riempire dall’orrore.

Questo libro è fango, dolore, disperazione, innocenza, urla, cameratismo, lacrime, rabbia, terrore, tenerezza, impotenza, rassegnazione, ingiustizia, speranza, attesa spasmodica, amicizia, sangue, nostalgia, commozione.  
È un libro innocente e terribile.
È un libro innocente.
È un libro terribile.
È un libro imprescindibile.

“Avevamo diciott’anni, e cominciavamo ad amare il mondo e l’esistenza: ci hanno costretti a spararle contro.”

“Le nostre mani sono terra, i nostri corpi fango, i nostri occhi pozzanghere di pioggia. Non sappiamo quasi se siamo ancora vivi.”

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Il mistero profondo che pervade Cavalli selvaggi

La mia edizione di Cavalli selvaggi.
Foto scattata nell'inverno 2023.
La mia edizione di Cavalli selvaggi.
Foto scattata nell’inverno 2023.

La ricerca di un posto nel mondo da parte del giovane John Grady Cole, il suo viaggio a cavallo dal Texas al Messico, le esperienze con l’amicizia, la cattiveria, l’amore, l’ingiustizia, l’arroganza dei potenti, il dolore: Cavalli selvaggi è un vero e proprio romanzo di formazione, ma le atmosfere e le ambientazioni tutte western gli conferiscono un respiro raro, arcano, e il risultato è maestoso.
È un viaggio per le strade dello spazio e del tempo, è la ricerca di se stessi nella ricerca di un passato mitico, è il contatto con la propria identità nel contatto con la natura aspra e solitaria, sperduta e bellissima, onnipresente e selvaggia.
E selvaggio è anche il fascino di questo romanzo: una visione cupa, spesso desolata, del genere umano accordata a descrizioni di un lirismo intenso, a paesaggi che sembrano di mondi primordiali, a immagini di poesia pura.
C’è un mistero potente che sembra pervadere ogni pagina, un mistero che non riuscivo e non volevo sondare ma che ha coinvolto ogni fibra di me: è lo stesso mistero che mi è rimasto addosso nelle vesti di un’emozione confusa, stupefatta, di una commozione inafferrabile e profonda.

***

Credo che in casi come questi risulti utile e necessario lasciar parlare direttamente il libro. Ecco perché ho deciso di trascrivere una serie di passi che mi hanno colpito particolarmente e che credo risultino rappresentativi delle sensazioni che Cavalli selvaggi è in grado di trasmettere. Si tratta di passi che ho sottolineato, letto e riletto più volte, e mi piace l’idea di averli anche qui sul blog, di poterli ritrovare in qualsiasi momento.
Li raccolgo sotto alcune parole chiave; le pagine si riferiscono all’edizione Einaudi 2014.

Atmosfere

“Era l’ora che preferiva da sempre, l’ora delle ombre lunghe, quando nella luce rosata e obliqua l’antica strada prendeva forma davanti ai suoi occhi come un sogno del passato nel quale i cavalli dipinti e i cavalieri di quel popolo perduto, con le facce istoriate […] Quando soffiava il vento da nord si sentivano gli indiani, i cavalli, il fiato dei cavalli, gli zoccoli foderati di cuoio, il tintinnio delle lance e il perpetuo frusciare dei travois trascinati sulla sabbia […] I guerrieri, invece, fra rumori di asce e lance da età della pietra prive ormai d’ogni efficacia, avrebbero proseguito nell’oscurità destinata a inghiottirli, cantando sommessamente alla maniera degli avi e spingendosi speranzosi a sud nelle pianure che portavano al Messico.” (pp. 7-8)

“Nella notte fredda e chiara le rosse scintille del fuoco si perdevano fra le stelle.” (p. 12)

“Sdraiato sotto la coperta, John Grady contemplava il quarto di luna reclinato sulla cresta delle montagne. In quella falsa alba blu le Pleiadi sembravano levarsi nell’oscurità sopra il mondo trascinando con sé tutte le stelle, mentre il gran diamante di Orione, Cepella e il marchio di Cassiopea sembravano una rete da pesca gettata nel buio fosforescente. Rimase là a lungo ad ascoltare il respiro degli altri che dormivano e a contemplare la natura selvaggia fuori e dentro di sé.” (p. 59)

“John Grady rimase a guardare il firmamento srotolarsi dalle scure palizzate delle montagne che sorgevano a oriente. Il villaggio era buio pesto. Non un cane abbaiava. […] L’orsa maggiore al confine settentrionale del mondo ruotò e la notte parve non passare più.” (p. 80)

“Grandi pascoli verdi si estendevano a perdita d’occhio nella densa bruma violetta della sera e a occidente piccoli stormi di uccelli acquatici, come branchi di pesci in un mare infuocato, migravano a settentrione sullo sfondo delle gallerie rosse scavate nelle nuvole dalla luce del tramonto. Nella pianura più vicina videro alcuni vaqueros spingere avanti il bestiame attraverso un velo di polvere d’oro.” (p. 91)

“Di notte s’accampavano sulle alture dove il fuoco agitato dal vento saettava nel buio […]” (p. 110)

“Distesero le coperte e John Grady si tolse gli stivali, li mise accanto a sé e si sdraiò vicino alla brace. Guardò le stelle e l’ardente cintura di materia che correva lungo la nera volta celeste. Poi allungò le braccia lungo i fianchi e premendo le mani contro la terra si lasciò girare lentamente nelle tenebre di quella cupola gelida e ardente, sentendosi al centro del mondo teso e tremante che si muoveva enorme e vivo sotto le sue mani.” (pp. 118-119)

“[…] vero il cavallo, vera l’amazzone, vero il cielo e vera la terra, eppure tutto era un sogno.” (p. 131)

“Sulla mesa videro un temporale arrivare da nord e all’imbrunire la luce divenne spettrale. I verdi occhi scuri dei laghetti incastonati nella savana deserta sembravano squarci aperti su un altro universo. A ponente le nuvole gonfie di pioggia lasciavano filtrare lame di luce sanguigna che a un tratto avvolsero il paesaggio in un’aura violetta.
Sedettero sulla terra vibrante a causa dei tuoni e alimentarono il fuoco coi resti di un vecchio steccato. Stormi d’uccelli provenienti dalla campagna sbucavano dalla semioscurità sfiorando il bordo della mesa e i lampi saettavano all’orizzonte come infuocate radici di mandragola.” (pp. 136-137)

“Allora lei gli raccontava le storie della famiglia paterna e del Messico mentre le stelle cadevano a centinaia e le luci della valle sembravano muoversi come se il mondo girasse intorno a un altro centro. […] Era così bianca nell’oscurità che sembrava ardere. Come un fuoco fatuo in una foresta buia. Che ardeva freddo. Ardeva freddo come la luna.” (p. 140)

“Viaggiò tutta la notte e al primo chiarore dell’alba, in groppa al cavallo stremato, s’inerpicò su un’altura al di sotto della quale scorse il villaggio, il chiarore giallino della prime finestre illuminate, le case dai vecchi muri di fango e gli esili fili di fumo che si levavano verticalmente nell’alba senza vento perdendosi nell’oscurità. L’aria era così immobile che il villaggio sembrava appeso a quei fili.” (p. 257)

“Poi venne buio pesto e il deserto piombò nell’immobilità e nel silenzio. Si sentiva solo il respiro dei cavalli e il rumore degli zoccoli sulla terra. John Grady puntò il cavallo sulla stella polare e proseguì la marcia mentre la luna sorgeva a levante i coyote ululavano rispondendosi lungo tutta la piana.” (p. 284)

Luna

“E insieme s’erano avviati sulla strada della ciénaga alla luce della luna che brillava a ponente come un panno bianco steso ad asciugare fra gli ululati dei cani.” (pp. 139-140)

“La luna appena sorta danzava sui fili della luce come una nota musicale argentata accesa nell’oscurità senza fine.” (p. 220)

“La luna risplendeva a ponente mentre lunghe nuvole piatte le scorrevano davanti come una flotta fantasma.” (p. 296)

Sole, confini, orizzonti

“Buio, freddo, non un filo di vento e un sottile chiarore che cominciava a spuntare lungo il confine orientale del mondo.” (p. 5)

“L’ultima luce del giorno inondò la pianura alle spalle del cavaliere e si ritirò nuovamente lungo i confini del mondo nella fresca ombra azzurrina del crepuscolo sempre più freddo, fra gli ultimi cinguettii degli uccelli rintanati nell’oscuro groviglio dei rovi.” (p. 8)

“A ponente la campagna si estendeva a perdita d’occhio in un gioco di luci e di ombre e in lontananza, a più di cento miglia, le nubi nere dei temporali estivi incombevano sulle cordigliere che si levavano e sparivano nella foschia tremolando incerte all’estremo limite dell’orizzonte visivo.” (p. 225)

“A ovest il sole calante spuntò dalle nere nubi sui monti e arrossò una stretta striscia di cielo che sembrava un filo di sangue nell’acqua.” (p. 283)

Libertà

“Cavalcò con la faccia ramata dal sole nel vento rosso che soffiava da ovest.” (p. 8)

“Le luci scomparvero alle loro spalle. S’inoltrarono nella prateria mettendo le bestie al passo sotto il cielo nero trapunto di stelle. Da qualche parte nella notte vuota i rintocchi di una campana risuonarono e si spensero lontano dove campane non ce n’erano. Sulla superficie ricurva della terra buia e senza luce che sosteneva le loro figure e le innalzava contro il cielo stellato, i due giovani sembravano cavalcare non sotto ma in mezzo alle stelle, temerari e circospetti al contempo come ladri appena entrati in quel buio elettrico, come ladruncoli in un frutteto lucente, scarsamente protetti contro il freddo e i diecimila mondi da scegliere che avevano davanti a sé.” (p. 31)

Treno, automobile

“Fischiando e sbuffando in lontananza, il treno sbucò da est come un irriverente satellite del sole che stava per nascere. Il lungo fascio dell’unico faro esplorava l’intrico dei cespugli di mesquite, faceva emergere nella notte lo steccato diritto e senza fine che costeggiava i binari e di nuovo risucchiava nel buio miglia e miglia di fili e paletti lasciandosi dietro il frastuono insistente e il fumo della caldaia a vapore che si sfrangiava lento nell’incerto chiarore del nuovo giorno.” (p. 6)

“La polvere sollevata dall’auto aleggiava davanti a loro a perdita d’occhio, vorticando lentamente al chiarore delle stelle come le spire di una creatura enorme che emergeva dalla terra.” (p. 124)

“Il treno arrivò sbuffando e si fermò ansimante con i finestrini illuminati dei vagoni che si perdevano lungo il binario ricurvo come grandi tessere di domino accese nel buio.” (p. 254)

Cavalli

“Ciò che amava nei cavalli era la stessa cosa che amava negli uomini, il sangue e il calore del sangue che li animava. Tutta la sua stima, la sua simpatia, le sue propensioni andavano ai cuori ardenti. Così era e sempre sarebbe stato.” (p. 8)

“Il ragazzo, che cavalcava poco più avanti, stava in sella come ci fosse nato, e infatti era così, ma dava l’impressione che, se fosse nato in uno strano paese privo di cavalli, avrebbe saputo scovarli ugualmente. Perché il mondo fosse a posto o perché lui fosse a posto nel mondo, si sarebbe accorto che mancava qualcosa e sarebbe andato in giro continuamente e dovunque finché non si fosse imbattuto in un cavallo, e allora avrebbe capito subito che il cavallo era e sarebbe sempre stato quel che cercava.” (pp. 24-25)

“Nel sogno lui correva in mezzo ai cavalli inseguendo le giumente e le puledre che risplendevano al sole nei loro fulgidi manti bai e castani. I puledri correvano insieme alle madri e calpestavano i fiori sollevando una nebbia di polline che aleggiava nell’aria come polvere d’oro. Lui correva sugli altopiani insieme ai cavalli che facevano rimbombare il terreno sotto gli zoccoli, e fluivano liberi con la criniera al vento e la coda spumeggiante. Lassù non c’era nient’altro e i cavalli si muovevano in armonia come fossero guidati da una musica. I puledri e le giumente non avevano alcuna paura e correvano immersi nell’armonia universale che è il mondo stesso e che non si può descrivere, solo esaltare.” (pp. 161-162)

“Sentendo il respiro lento e regolare del cavallo di Blevins scaldargli la pancia e bagnargli la camicia, John Grady si accorse che stava respirando con lo stesso ritmo, come se una parte del cavallo respirasse dentro di lui, e pian piano entrò con la bestia in un’intimità ancor più profonda e priva di un nome.” (p. 265)

Finale

“Nelle raffiche di polvere sanguigna vomitata dal sole spronò il cavallo e riprese a marciare col viso ramato dagli ultimi raggi di luce, mentre il vento rosso dell’ovest spazzava il paesaggio crepuscolare e gli uccelli del deserto svolazzavano cinguettando fra le felci secche, e il cavallo, il cavaliere e il secondo cavallo passarono, e passarono le loro ombre affiancate come l’ombra di un unico essere. Passarono e impallidirono sulla terra sempre più buia, sul mondo a venire.” (p. 299)

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Cos’è, dunque, Memorie di Adriano?

La mia edizione di Memorie di Adriano.
Foto scattata nell’autunno 2022.

Un’impresa eccezionale, frutto di lavoro appassionato e travagliato, è quella concepita e realizzata da Marguerite Yourcenar, che riporta in vita il pensiero di un uomo, la complessità e l’iridescenza dei moti del suo spirito e, insieme, un’epoca che riusciamo a sentire attraverso uno sguardo di singolare spessore.

Cos’è, dunque, Memorie di Adriano? È capolavoro raffinato e delicato; è prosa in cui sconfina incessante la poesia; è, soprattutto, testimonianza e celebrazione delle altezze che l’uomo può raggiungere in quanto essere e pensiero, spirito e passione; è, semplicemente, documento prezioso e prova purissima del valore immenso dell’arte e della letteratura.

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Furore di John Steinbeck ci lascia senza fiato

Io e la mia copia di Furore.

Dalle terre rosse e grigie dell’Oklahoma a quelle verdi e dorate della California: oggi è un viaggio suggestivo lungo l’Historic Route 66, ma per migliaia di persone di un tempo fu un’odissea pietosa e terribile in cerca di una vita migliore.
Ce lo racconta magistralmente John Steinbeck nel suo Furore, romanzo straordinario che attraverso le vicende di una famiglia di migranti delinea un ritratto sincero e terribile dell’America degli anni Trenta (e, purtroppo, di dinamiche umano-sociali costanti in ogni epoca e luogo).

Il drammatico viaggio dei Joad in un'immagine tratta dal film di Furore diretto da John Ford (1940).
Il drammatico viaggio dei Joad in un’immagine tratta dal film di Furore diretto da John Ford (1940).

La crisi agricola e poi economico-sociale che sconvolge gli Stati Uniti centrali – il grano rovinato da vento e aridità, i danni inflitti dalla polvere (la nota dust bowl), l’arrivo dei trattori, lo sfratto da parte delle banche – costringe i Joad, come tante altre famiglie, al tragico abbandono della propria casa in Oklahoma e al dramma di un viaggio difficilissimo, in condizioni terribili, attraverso il Texas, il New Mexico e l’Arizona, lungo il deserto e la Route 66, nella speranza di una vita migliore in California. Ma il procedere sempre più arduo, mentre parti della famiglia vengono dolorosamente a perdersi, assottiglia e a poco a poco sgretola queste speranze, che per molti iniziano a trasformarsi in rabbia proprio con l’arrivo nel Golden State. La terra promessa, infatti, si rivela un luogo impietoso, dove i migranti sono costretti a una vita raminga da lavoratori stagionali, sottopagati e privi di qualunque diritto – perché, come è sempre più chiaro, le logiche di mercato sovrastano i principi inderogabili della dignità umana.
Pagine tra le più maestose, dolorose e indimenticabili quelle del capitolo 19. I californiani, migranti a loro volta tanto tempo prima, sono ora proprietari, nativi a contatto con migranti nuovi che vedono come invasori, e che giudicano, e che rifiutano: e li rifiutano perché li temono, e li disprezzano perché li rifiutano. I migranti sono spaesati, interdetti, spaventati: in nome di una giustizia che non trovano, possono diventare violenti; per lo sconforto e la necessità possono compiere atti disperati. Magistralmente Steinbeck rappresenta e spiega queste situazioni e i meccanismi che le creano: è un pugno nello stomaco, e restiamo sconvolti per la dolorosa attualità del racconto, per la terribile verità universale che ci costringe a riconoscere.
Nei migranti resiste la dignità morale – una morale semplice ma salda, fondata sui principi di solidarietà e carità umana (che, come è sempre più chiaro, rappresentano l’unica e autentica origine della giustizia sociale, dalla quale invece le logiche economiche dominanti – e spesso anche la legge costituita si rivelano ben lontane). Ci sono poi quella speranza, quella volontà, quella rabbia che presto diventano furore. E non è importante se e quando e come questo furore esploderà: è importante, invece, il modo in cui esso si crea, il modo in cui sostiene l’uomo; il modo in cui, insomma, the grapes of wrath – “gli acini dell’ira” – sono pronti per la vendemmia.

Una foto di John Steinbeck.
John Steinbeck.

Cos’è, dunque, Furore? Cos’è il furore?
Il furore è volontà. È lotta sociale contro l’ingiustizia. È, prima ancora, lotta dell’uomo per affermarsi. È, prima di tutto e soprattutto, lotta dell’uomo per sopravvivere. Ed è lotta dell’uomo con e contro la natura.

Perché, sì, in Furore la natura c’è. Onnipresente, incessante, implacabile. Lirica, quasi magica.
Steinbeck ce la racconta in due modi.
Da una parte è la natura come forza inarrestabile, incontrollabile, che è vento ed è sole, sole e calore soprattutto, e poi è acqua – perché Furore si apre con la pioggia e si chiude con la pioggia. All’inizio è una pioggia sottile e lieve – le ultime piogge, presto sostituite da una siccità spietata e da un vento accanito, e da una polvere che tutto distrugge. Alla fine è una pioggia violenta, che inonda e travolge, che sconvolge campi e fiumi e alberi, che costringe l’uomo a combattere, a tirar fuori il furore perché anch’essa è furore, ma che poi, cessando, lascia il posto alla rinascita della vita.

Un'immagine della nota Route 66.
Un’immagine della nota Route 66.

In altri momenti, soprattutto nella prima parte del romanzo e durante il viaggio nel deserto, abbiamo di fronte un altro tipo di natura, placida ma totalizzante, allucinante, mozzafiato. È il potere immaginifico di poche, semplici parole incastrate nel modo giusto. Davanti ai nostri occhi c’è un pallido quarto di luna, esile e vago in un cielo che sbiadisce; c’è una lenta cascata di stelle che scende sull’orizzonte; c’è la lunga nube della Via Lattea; c’è la luce solitaria dell’alba. Ma, soprattutto, scorrono davanti a noi le descrizioni dei grandi tramonti: quando il sole rosso, ad esempio, tocca l’orizzonte e si allarga come una medusa, mentre il cielo sembra più luminoso e vibrante di prima; o, ancora, quando una grossa goccia di sole rosso indugia sull’orizzonte, prima di cadere e scomparire lasciando il posto a una nuvola lacera, simile a uno straccio insanguinato. Ci sono poi le descrizioni-narrazioni del grande caldo del deserto, aguzzo e battente di giorno, ma ampio e soffocante di notte, quando sembra venire dal basso, dalla terra stessa; vediamo avvampare il deserto quando l’orlo del sole tocca l’orizzonte frastagliato, e c’è un momento in cui il paesaggio è terribile nella luce paonazza del tramonto. Immagini potenti come questa sembrano accentuare la tragedia umana delle migrazioni: è simbolismo semplice e acuto, e pare legare in un rapporto imprescindibile uomo e natura – lei, la natura, crea e partecipa del dramma umano; lei sfida e al tempo stesso accompagna l’uomo.

E non è un caso che l’inserto conclusivo sulla natura sembri congiungersi all’epilogo delle vicende dei Joad: quell’erba che rinasce dopo le piogge distruttive, verde e tenera, pare legarsi al coraggio indissolubile di Ma’, personaggio cardine del romanzo, e al gesto di compassione e di rinascita compiuto da Rose of Sharon: è quella speranza che fin dall’inizio segue e accompagna, e che nonostante tutto splende coraggiosa – più che mai in questa nota finale.

L'agognato arrivo della famiglia Joad in California. Immagine tratta dal film di Furore diretto da John Ford (1940).
L’agognato arrivo della famiglia Joad in California. Immagine tratta dal film di Furore diretto da John Ford (1940).

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Il Conte di Montecristo: il fascino straordinario di un protagonista indimenticabile

Ripensavo stamattina a Il Conte di Montecristo di Alexandre Dumas, lettura che mi ha accompagnato nel trimestre maggio-luglio del 2019.

Il secondo volume della mia edizione de Il conte di Montecristo. 
Foto scattata nel Natale 2020.
Il secondo volume della mia edizione de Il conte di Montecristo.
Foto scattata nel Natale 2020.

È uno di quei grandi romanzi che ti restano dentro. Il respiro che ne anima le pagine, la forza della scrittura, la potenza della trama… C’è tutto, in questo capolavoro: riferimenti storici, un’idea di base solida e suggestiva, l’avvicendarsi di ambientazioni indimenticabili, intrecci, colpi di scena e, soprattutto, una preziosa, profonda rappresentazione della vasta gamma dei sentimenti umani.
Le magistrali abilità di narratore di Dumas rendono ancor più straordinaria la vicenda biografica del protagonista, ancor più emozionante la riflessione attorno al grande tema dell’opera: il rapporto tra vendetta e giustizia, tra vendetta e perdono.

Ma è proprio il protagonista, proprio lui, Edmond Dantès, a stregare profondamente il lettore: un umile marinaio che, vittima innocente dei soprusi dei potenti e di una giustizia corrotta, imprigionato per quattordici anni, si rialza trionfalmente, e assurgendo a Conte di Montecristo trasforma se stesso in giustiziere e vendicatore, incaricandosi di redistribuire al prossimo il male e il bene ricevuto. È un uomo dall’intelligenza fuori dal comune, eclettico e pieno di risorse, coltissimo e carismatico, e come un dio implacabile è proprio lui a muovere i fili della trama, a plasmare vite ed eventi, mentre il lettore sta lì, con il fiato sospeso, stordito dal suo genio, dal suo fascino esotico e dalla portata del piano che si svela via via lungo le pagine.

Eppure, sotto la superficie, il Conte conserva intatte dentro di sé l’intima natura di uomo di mare e la semplice purezza dei sentimenti. E infatti la vendetta, pur essendo obiettivo imprescindibile, è sofferta, continuamente messa in discussione, mentre l’amore congiungerà quest’uomo così singolare a quello che era un tempo, fino al commovente ritorno a Edmond Dantès.

Uno dei personaggi più affascinanti che io abbia mai incontrato in letteratura, all’interno di una storia tra le più appassionanti ed emozionanti mai scritte.

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