“Ma io […] sentivo che in me lo spavento non riusciva a mettere radici, e perfino la lava, tutta la materia in fusione che immaginavo nel suo ruscellare igneo dentro il globo terrestre, tutta la paura che mi metteva, si sistemavano nella mente in frasi ordinate, in immagini armoniche, diventava un lastricato di pietre nere come per le strade di Napoli, un lastricato di cui io ero sempre e comunque il centro. Mi davo peso, insomma, sapevo darmelo, qualsiasi cosa accadesse. Tutto ciò che mi investiva […] sarebbe passato e io – qualsiasi io tra quelli che ero andata sommando –, io sarei rimasta ferma, ero la punta del compasso che è sempre fissa mentre la mina corre intorno tracciando cerchi”.
“Lei possedeva intelligenza e non la metteva a frutto, ma anzi, la sperperava […] Questo era il dato di fatto che doveva aver ammaliato Nino: la gratuità dell’intelligenza di Lila. Essa si distingueva tra tante perché con naturalezza non si piegava a nessun addestramento, a nessun uso e a nessun fine. Tutti noi c’eravamo piegati, e quel piegarci ci aveva – attraverso prove, fallimenti, successi – ridimensionati. Solo Lila, niente e nessuno pareva ridimensionarla.”