È poesia irrefrenabile, impetuosa, pulsante e istintiva; poesia sovrabbondante, primitiva, vertiginosa e appassionata.
Una poesia che è una catarsi.
E smuove e commuove, stordisce e meraviglia.
[Di Foglie d’erba ho parlato qui]
Tutto quello che devi fare è sederti alla macchina da scrivere e sanguinare. (E. Hemingway)
Tutto quello che devi fare è sederti alla macchina da scrivere e sanguinare. (E. Hemingway)
È poesia irrefrenabile, impetuosa, pulsante e istintiva; poesia sovrabbondante, primitiva, vertiginosa e appassionata.
Una poesia che è una catarsi.
E smuove e commuove, stordisce e meraviglia.
[Di Foglie d’erba ho parlato qui]
“Ormai, sotto ogni cosa che io faccio e dico, c’è la presenza di questo quaderno. Non avrei mai creduto che tutto quanto m’accade nel corso della giornata valesse la pena di essere notato. La mia vita mi è sempre parsa piuttosto insignificante, senza avvenimenti notevoli fuorché il mio matrimonio e la nascita dei bambini. Invece da quando per caso ho cominciato a tenere un diario mi pare di scoprire che una parola, un accento, possono essere altrettanto importanti, o anche di più, dei fatti che siamo abituati a considerare tali. Imparare a comprendere le cose minime che accadono tutti i giorni è forse imparare a comprendere davvero il significato più riposto della vita. […]”
Nuova Guinea, territori lungo il fiume Sepik, primi anni Trenta. Tre antropologi, due dei quali marito e moglie, si trovano a condividere lo spazio di lavoro nello studio di alcune tribù, trovandosi coinvolti in un triangolo amoroso e professionale.
Due aspetti ho apprezzato particolarmente: il racconto della dinamica lavorativa-relazionale tra i tre protagonisti (affinità mentali e rivalità, supporto reciproco e antagonismo) e quello della ricerca sul campo (accattivanti gli accenti sulle differenze nel metodo, sulle difficoltà a cui i tre vanno incontro e sul processo che conduce alla nascita di idee e teorie).
Il modo in cui il libro è stato concepito e poi sviluppato – è dichiaratamente (ed evidentemente) ispirato alle vicende di Mead, Fortune e Bateson e alle peculiarità dei popoli da loro studiati, ma di tutto ciò King fa un vero e proprio rimpasto – e la sua parte di contenuto prettamente antropologica hanno il merito di stimolare più di una domanda e di spingere chi legge a ricerche e approfondimenti.
Ambientato tra la riviera ligure e Milano, questo romanzo intreccia le storie di quattro personaggi, tre femminili e uno maschile, che si muovono in modo diverso attorno al mondo dell’editoria.
Ci sono tutti gli immancabili elementi della scrittura di Convalle – il mistero sul passato e la necessità di affrontarlo, il potere dei rapporti umani, vicende dagli sviluppi enigmatici, vite che si incrociano in modi impensati, il ruolo del destino – e c’è, soprattutto, una riflessione schietta sui problemi dell’editoria contemporanea e sul conflitto tra ideale e compromesso.
“Ma tutto ciò che di noi si può immaginare è realmente possibile, ancorché non sia vero per noi. Che per noi non sia vero, gli altri se ne ridono. È vero per loro. Tanto vero, che può anche capitare che gli altri, se non vi tenete forte alla realtà che per vostro conto vi siete data, possono indurvi a riconoscere che più vera della vostra stessa realtà è quella che vi danno loro.”
“Viveva […] schiacciato dal sentimento della propria insignificanza, annientato dalla massiccia dominazione dei millenni addormentati. La grandiosità di tutte le cose lo atterriva. Tutto era solenne, tranne lui stesso: la perfetta cessazione del vento e del moto, l’immensità del wilderness coperto di neve, l’altezza sublime del cielo e le profondità sconfinate del silenzio.”
Tre “quasi fratelli”, un legame viscerale e complesso e l’amore in molte diverse declinazioni: con un ottimo lavoro sui personaggi (estremamente vividi), sui dialoghi e sulla struttura (i salti temporali sono gestiti benissimo), e dando voce a una prima persona piuttosto credibile, l’autrice racconta una storia in grado di coinvolgere fin da pagina uno, a prescindere da quanto possano piacerci i suoi protagonisti (per quanto mi riguarda, due sono tutt’altro che amabili).
È la prima volta che leggo Valentina D’Urbano, e Tre gocce d’acqua mi è piaciuto davvero tanto: la scrittura mi è arrivata, mi ha emozionata e mi ha commossa.
Io non lo so come faccia McCarthy. Non so come riesca a fare questo effetto su di me. A colpirmi così, ogni volta. Forse è quel suo modo essenziale e poetico di incastonare nelle parole la meraviglia e la disperazione della vita.
[Di Città della pianura ho parlato qui]
Ambientato tra gli anni Cinquanta e Settanta in un campo estivo sui monti Adirondack (stato di New York), questo romanzo prende le mosse dalla scomparsa di una ragazzina e sceglie di raccontare in parallelo le vicende investigative e un dramma familiare che si dipana tra passato e presente, tra segreti e menzogne.
Tutto si gioca sulla costruzione dell’intreccio e su un abile utilizzo di diversi piani temporali e punti di vista, ma mi sono piaciute in modo particolare le riflessioni sulla disuguaglianza di classe e sul(i) (vari tipi di) pregiudizio che emergono tra le righe.
Un ex poliziotto con la paura delle altezze, un incarico da parte di un vecchio amico e una donna misteriosa e disturbata sono gli ingredienti del noto lavoro di Boileau e Narcejac, una perfetta sintesi tra noir e thriller psicologico che con toni di angoscia crescente indaga l’ossessione e la paranoia, l’illusione e l’idealizzazione attraverso una brillante scomposizione di piani, dove realtà e allucinazione si confondono tanto per il protagonista quanto per il lettore, mentre l’ambientazione e le atmosfere – Parigi e dintorni e poi Marsiglia, negli anni della Seconda Guerra Mondiale e in quelli immediatamente successivi – completano la trama, così vivide e al contempo oniriche, col loro carico di grigiore e inquietudine.
L’ottima gestione del lavoro e il colpo di genio di un finale assolutamente imprevedibile – dopo averti trascinato tutto il tempo da una parte, la storia cambia direzione nelle ultimissime pagine – quasi mi costringono a chiudere un occhio sull’improbabilità della trama e sulla sua incapacità di coinvolgermi fino in fondo.