Il mistero profondo che pervade Cavalli selvaggi

La mia edizione di Cavalli selvaggi.
Foto scattata nell'inverno 2023.
La mia edizione di Cavalli selvaggi.
Foto scattata nell’inverno 2023.

La ricerca di un posto nel mondo da parte del giovane John Grady Cole, il suo viaggio a cavallo dal Texas al Messico, le esperienze con l’amicizia, la cattiveria, l’amore, l’ingiustizia, l’arroganza dei potenti, il dolore: Cavalli selvaggi è un vero e proprio romanzo di formazione, ma le atmosfere e le ambientazioni tutte western gli conferiscono un respiro raro, arcano, e il risultato è maestoso.
È un viaggio per le strade dello spazio e del tempo, è la ricerca di se stessi nella ricerca di un passato mitico, è il contatto con la propria identità nel contatto con la natura aspra e solitaria, sperduta e bellissima, onnipresente e selvaggia.
E selvaggio è anche il fascino di questo romanzo: una visione cupa, spesso desolata, del genere umano accordata a descrizioni di un lirismo intenso, a paesaggi che sembrano di mondi primordiali, a immagini di poesia pura.
C’è un mistero potente che sembra pervadere ogni pagina, un mistero che non riuscivo e non volevo sondare ma che ha coinvolto ogni fibra di me: è lo stesso mistero che mi è rimasto addosso nelle vesti di un’emozione confusa, stupefatta, di una commozione inafferrabile e profonda.

***

Credo che in casi come questi risulti utile e necessario lasciar parlare direttamente il libro. Ecco perché ho deciso di trascrivere una serie di passi che mi hanno colpito particolarmente e che credo risultino rappresentativi delle sensazioni che Cavalli selvaggi è in grado di trasmettere. Si tratta di passi che ho sottolineato, letto e riletto più volte, e mi piace l’idea di averli anche qui sul blog, di poterli ritrovare in qualsiasi momento.
Li raccolgo sotto alcune parole chiave; le pagine si riferiscono all’edizione Einaudi 2014.

Atmosfere

“Era l’ora che preferiva da sempre, l’ora delle ombre lunghe, quando nella luce rosata e obliqua l’antica strada prendeva forma davanti ai suoi occhi come un sogno del passato nel quale i cavalli dipinti e i cavalieri di quel popolo perduto, con le facce istoriate […] Quando soffiava il vento da nord si sentivano gli indiani, i cavalli, il fiato dei cavalli, gli zoccoli foderati di cuoio, il tintinnio delle lance e il perpetuo frusciare dei travois trascinati sulla sabbia […] I guerrieri, invece, fra rumori di asce e lance da età della pietra prive ormai d’ogni efficacia, avrebbero proseguito nell’oscurità destinata a inghiottirli, cantando sommessamente alla maniera degli avi e spingendosi speranzosi a sud nelle pianure che portavano al Messico.” (pp. 7-8)

“Nella notte fredda e chiara le rosse scintille del fuoco si perdevano fra le stelle.” (p. 12)

“Sdraiato sotto la coperta, John Grady contemplava il quarto di luna reclinato sulla cresta delle montagne. In quella falsa alba blu le Pleiadi sembravano levarsi nell’oscurità sopra il mondo trascinando con sé tutte le stelle, mentre il gran diamante di Orione, Cepella e il marchio di Cassiopea sembravano una rete da pesca gettata nel buio fosforescente. Rimase là a lungo ad ascoltare il respiro degli altri che dormivano e a contemplare la natura selvaggia fuori e dentro di sé.” (p. 59)

“John Grady rimase a guardare il firmamento srotolarsi dalle scure palizzate delle montagne che sorgevano a oriente. Il villaggio era buio pesto. Non un cane abbaiava. […] L’orsa maggiore al confine settentrionale del mondo ruotò e la notte parve non passare più.” (p. 80)

“Grandi pascoli verdi si estendevano a perdita d’occhio nella densa bruma violetta della sera e a occidente piccoli stormi di uccelli acquatici, come branchi di pesci in un mare infuocato, migravano a settentrione sullo sfondo delle gallerie rosse scavate nelle nuvole dalla luce del tramonto. Nella pianura più vicina videro alcuni vaqueros spingere avanti il bestiame attraverso un velo di polvere d’oro.” (p. 91)

“Di notte s’accampavano sulle alture dove il fuoco agitato dal vento saettava nel buio […]” (p. 110)

“Distesero le coperte e John Grady si tolse gli stivali, li mise accanto a sé e si sdraiò vicino alla brace. Guardò le stelle e l’ardente cintura di materia che correva lungo la nera volta celeste. Poi allungò le braccia lungo i fianchi e premendo le mani contro la terra si lasciò girare lentamente nelle tenebre di quella cupola gelida e ardente, sentendosi al centro del mondo teso e tremante che si muoveva enorme e vivo sotto le sue mani.” (pp. 118-119)

“[…] vero il cavallo, vera l’amazzone, vero il cielo e vera la terra, eppure tutto era un sogno.” (p. 131)

“Sulla mesa videro un temporale arrivare da nord e all’imbrunire la luce divenne spettrale. I verdi occhi scuri dei laghetti incastonati nella savana deserta sembravano squarci aperti su un altro universo. A ponente le nuvole gonfie di pioggia lasciavano filtrare lame di luce sanguigna che a un tratto avvolsero il paesaggio in un’aura violetta.
Sedettero sulla terra vibrante a causa dei tuoni e alimentarono il fuoco coi resti di un vecchio steccato. Stormi d’uccelli provenienti dalla campagna sbucavano dalla semioscurità sfiorando il bordo della mesa e i lampi saettavano all’orizzonte come infuocate radici di mandragola.” (pp. 136-137)

“Allora lei gli raccontava le storie della famiglia paterna e del Messico mentre le stelle cadevano a centinaia e le luci della valle sembravano muoversi come se il mondo girasse intorno a un altro centro. […] Era così bianca nell’oscurità che sembrava ardere. Come un fuoco fatuo in una foresta buia. Che ardeva freddo. Ardeva freddo come la luna.” (p. 140)

“Viaggiò tutta la notte e al primo chiarore dell’alba, in groppa al cavallo stremato, s’inerpicò su un’altura al di sotto della quale scorse il villaggio, il chiarore giallino della prime finestre illuminate, le case dai vecchi muri di fango e gli esili fili di fumo che si levavano verticalmente nell’alba senza vento perdendosi nell’oscurità. L’aria era così immobile che il villaggio sembrava appeso a quei fili.” (p. 257)

“Poi venne buio pesto e il deserto piombò nell’immobilità e nel silenzio. Si sentiva solo il respiro dei cavalli e il rumore degli zoccoli sulla terra. John Grady puntò il cavallo sulla stella polare e proseguì la marcia mentre la luna sorgeva a levante i coyote ululavano rispondendosi lungo tutta la piana.” (p. 284)

Luna

“E insieme s’erano avviati sulla strada della ciénaga alla luce della luna che brillava a ponente come un panno bianco steso ad asciugare fra gli ululati dei cani.” (pp. 139-140)

“La luna appena sorta danzava sui fili della luce come una nota musicale argentata accesa nell’oscurità senza fine.” (p. 220)

“La luna risplendeva a ponente mentre lunghe nuvole piatte le scorrevano davanti come una flotta fantasma.” (p. 296)

Sole, confini, orizzonti

“Buio, freddo, non un filo di vento e un sottile chiarore che cominciava a spuntare lungo il confine orientale del mondo.” (p. 5)

“L’ultima luce del giorno inondò la pianura alle spalle del cavaliere e si ritirò nuovamente lungo i confini del mondo nella fresca ombra azzurrina del crepuscolo sempre più freddo, fra gli ultimi cinguettii degli uccelli rintanati nell’oscuro groviglio dei rovi.” (p. 8)

“A ponente la campagna si estendeva a perdita d’occhio in un gioco di luci e di ombre e in lontananza, a più di cento miglia, le nubi nere dei temporali estivi incombevano sulle cordigliere che si levavano e sparivano nella foschia tremolando incerte all’estremo limite dell’orizzonte visivo.” (p. 225)

“A ovest il sole calante spuntò dalle nere nubi sui monti e arrossò una stretta striscia di cielo che sembrava un filo di sangue nell’acqua.” (p. 283)

Libertà

“Cavalcò con la faccia ramata dal sole nel vento rosso che soffiava da ovest.” (p. 8)

“Le luci scomparvero alle loro spalle. S’inoltrarono nella prateria mettendo le bestie al passo sotto il cielo nero trapunto di stelle. Da qualche parte nella notte vuota i rintocchi di una campana risuonarono e si spensero lontano dove campane non ce n’erano. Sulla superficie ricurva della terra buia e senza luce che sosteneva le loro figure e le innalzava contro il cielo stellato, i due giovani sembravano cavalcare non sotto ma in mezzo alle stelle, temerari e circospetti al contempo come ladri appena entrati in quel buio elettrico, come ladruncoli in un frutteto lucente, scarsamente protetti contro il freddo e i diecimila mondi da scegliere che avevano davanti a sé.” (p. 31)

Treno, automobile

“Fischiando e sbuffando in lontananza, il treno sbucò da est come un irriverente satellite del sole che stava per nascere. Il lungo fascio dell’unico faro esplorava l’intrico dei cespugli di mesquite, faceva emergere nella notte lo steccato diritto e senza fine che costeggiava i binari e di nuovo risucchiava nel buio miglia e miglia di fili e paletti lasciandosi dietro il frastuono insistente e il fumo della caldaia a vapore che si sfrangiava lento nell’incerto chiarore del nuovo giorno.” (p. 6)

“La polvere sollevata dall’auto aleggiava davanti a loro a perdita d’occhio, vorticando lentamente al chiarore delle stelle come le spire di una creatura enorme che emergeva dalla terra.” (p. 124)

“Il treno arrivò sbuffando e si fermò ansimante con i finestrini illuminati dei vagoni che si perdevano lungo il binario ricurvo come grandi tessere di domino accese nel buio.” (p. 254)

Cavalli

“Ciò che amava nei cavalli era la stessa cosa che amava negli uomini, il sangue e il calore del sangue che li animava. Tutta la sua stima, la sua simpatia, le sue propensioni andavano ai cuori ardenti. Così era e sempre sarebbe stato.” (p. 8)

“Il ragazzo, che cavalcava poco più avanti, stava in sella come ci fosse nato, e infatti era così, ma dava l’impressione che, se fosse nato in uno strano paese privo di cavalli, avrebbe saputo scovarli ugualmente. Perché il mondo fosse a posto o perché lui fosse a posto nel mondo, si sarebbe accorto che mancava qualcosa e sarebbe andato in giro continuamente e dovunque finché non si fosse imbattuto in un cavallo, e allora avrebbe capito subito che il cavallo era e sarebbe sempre stato quel che cercava.” (pp. 24-25)

“Nel sogno lui correva in mezzo ai cavalli inseguendo le giumente e le puledre che risplendevano al sole nei loro fulgidi manti bai e castani. I puledri correvano insieme alle madri e calpestavano i fiori sollevando una nebbia di polline che aleggiava nell’aria come polvere d’oro. Lui correva sugli altopiani insieme ai cavalli che facevano rimbombare il terreno sotto gli zoccoli, e fluivano liberi con la criniera al vento e la coda spumeggiante. Lassù non c’era nient’altro e i cavalli si muovevano in armonia come fossero guidati da una musica. I puledri e le giumente non avevano alcuna paura e correvano immersi nell’armonia universale che è il mondo stesso e che non si può descrivere, solo esaltare.” (pp. 161-162)

“Sentendo il respiro lento e regolare del cavallo di Blevins scaldargli la pancia e bagnargli la camicia, John Grady si accorse che stava respirando con lo stesso ritmo, come se una parte del cavallo respirasse dentro di lui, e pian piano entrò con la bestia in un’intimità ancor più profonda e priva di un nome.” (p. 265)

Finale

“Nelle raffiche di polvere sanguigna vomitata dal sole spronò il cavallo e riprese a marciare col viso ramato dagli ultimi raggi di luce, mentre il vento rosso dell’ovest spazzava il paesaggio crepuscolare e gli uccelli del deserto svolazzavano cinguettando fra le felci secche, e il cavallo, il cavaliere e il secondo cavallo passarono, e passarono le loro ombre affiancate come l’ombra di un unico essere. Passarono e impallidirono sulla terra sempre più buia, sul mondo a venire.” (p. 299)

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Di Cavalli selvaggi ho parlato anche qui. 😉

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Cos’è, dunque, Memorie di Adriano?

La mia edizione di Memorie di Adriano.
Foto scattata nell’autunno 2022.

Un’impresa eccezionale, frutto di lavoro appassionato e travagliato, è quella concepita e realizzata da Marguerite Yourcenar, che riporta in vita il pensiero di un uomo, la complessità e l’iridescenza dei moti del suo spirito e, insieme, un’epoca che riusciamo a sentire attraverso uno sguardo di singolare spessore.

Cos’è, dunque, Memorie di Adriano? È capolavoro raffinato e delicato; è prosa in cui sconfina incessante la poesia; è, soprattutto, testimonianza e celebrazione delle altezze che l’uomo può raggiungere in quanto essere e pensiero, spirito e passione; è, semplicemente, documento prezioso e prova purissima del valore immenso dell’arte e della letteratura.

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Pagine ingiallite dal tempo e odore che sa di storia e di emozione

The Grapes of Wrath, John Steinbeck. Prima edizione, prima stampa.
Che gioia averla!
The Grapes of Wrath, John Steinbeck. Prima edizione, prima stampa.
Che gioia averla!

Nell’aprile 1939 il libro che vedete nelle foto usciva dalla Viking Press di New York e consegnava al mondo per la prima volta una delle storie più universali che siano mai state scritte.

Le vicende dei Joad, famiglia di migranti; il ritratto vivissimo e terribile dell’America degli anni Trenta (e, purtroppo, di dinamiche umano-sociali costanti in ogni epoca e luogo); la natura onnipresente, incessante, implacabile raccontata con accostamenti di parole dal potere immaginifico mozzafiato: The grapes of wrathFurore in Italia – conquista, impressiona, emoziona, commuove, fa riflettere. È un romanzo di una potenza incredibile, uno di quei capolavori che non fai fatica a definire “il libro della vita”. Mentre lo leggevo, nel giugno dell’anno scorso, ero senza fiato a ogni pagina.

Potete dunque immaginare la mia emozione quando, al Salone del Libro, ho visto questa edizione nelle teche di Libraccio. Una prima edizione, prima stampa: quella che Steinbeck aveva tra le mani quando uscì il suo capolavoro.
Ottantatré anni sono passati, e da allora questa copia si è mossa nel tempo e nello spazio; nel raccontare una storia si è rivestita di una storia, e io mi chiedo dove, come, quanto, attraverso chi ha viaggiato prima di approdare tra le mie mani. Sono domande che mi affascinano e alle quali non avrò mai risposta, ma non importa, perché mi bastano due certezze: questa copia è uscita dalla Viking Press nell’aprile del 1939; questa copia è arrivata al Salone Internazionale del Libro 2022 a Torino. E a quel punto ha incontrato me.

È difficile descrivere a parole l’emozione che provo nel tenere tra le mani una prima edizione di The Grapes of Wrath. Le pagine sono ingiallite ma ancora ben salde, e l’odore è quello che solo i libri antichi possono portare con sé: un odore che sa di storia, di cose magiche e perenni, di sentimento. Un odore che ricorda quanto i mondi di parole riescano a creare e quanto riescano a durare nel tempo, più di qualunque altra cosa.

E allora cerco di condividere queste emozioni mostrandovi l’edizione con qualche scatto: il libro nella sua sovraccoperta con il notissimo disegno; le diciture “First Edition” nell’aletta interna della sovraccoperta e “First published in april 1939” alla pagina del copyright; la dedica; la prima pagina; un passo descrittivo del capitolo 6 che mi aveva coinvolto tanto; le celeberrime parole pronunciate da Tom nel capitolo 28; la pagina conclusiva; il libro senza sovraccoperta.

Non trovate anche voi che questa prima edizione sia bellissima?

La prima edizione di The Grapes of Wrath - Il libro nella sua sovraccoperta (fronte).
La prima edizione di The Grapes of Wrath - Il libro nella sua sovraccoperta e le pagine ingiallite dal tempo.
La prima edizione di The Grapes of Wrath - La dicitura “First Edition” nell’aletta interna della sovraccoperta.
La prima edizione di The Grapes of Wrath - A sinistra la dicitura “First published in april 1939” alla pagina del copyright; a destra la dedica.
La prima edizione di The Grapes of Wrath - L'incipit.
La prima edizione di The Grapes of Wrath - Un passo descrittivo del capitolo 6 che mi ha coinvolto tanto.
La prima edizione di The Grapes of Wrath - Le celeberrime parole pronunciate da Tom nel capitolo 28.
La prima edizione di The Grapes of Wrath - La pagina conclusiva.
La prima edizione di The Grapes of Wrath - Il libro nella sua sovraccoperta (retro).
La prima edizione di The Grapes of Wrath - Il libro senza sovraccoperta.
La prima edizione di The Grapes of Wrath insieme al certificato della libreria "Strand" di New York.

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Alla storia intramontabile raccontata in Furore e allo splendore della scrittura di John Steinbeck ho dedicato un articolo qui. 😉

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Furore di John Steinbeck ci lascia senza fiato

Io e la mia copia di Furore.

Dalle terre rosse e grigie dell’Oklahoma a quelle verdi e dorate della California: oggi è un viaggio suggestivo lungo l’Historic Route 66, ma per migliaia di persone di un tempo fu un’odissea pietosa e terribile in cerca di una vita migliore.
Ce lo racconta magistralmente John Steinbeck nel suo Furore, romanzo straordinario che attraverso le vicende di una famiglia di migranti delinea un ritratto sincero e terribile dell’America degli anni Trenta (e, purtroppo, di dinamiche umano-sociali costanti in ogni epoca e luogo).

Il drammatico viaggio dei Joad in un'immagine tratta dal film di Furore diretto da John Ford (1940).
Il drammatico viaggio dei Joad in un’immagine tratta dal film di Furore diretto da John Ford (1940).

La crisi agricola e poi economico-sociale che sconvolge gli Stati Uniti centrali – il grano rovinato da vento e aridità, i danni inflitti dalla polvere (la nota dust bowl), l’arrivo dei trattori, lo sfratto da parte delle banche – costringe i Joad, come tante altre famiglie, al tragico abbandono della propria casa in Oklahoma e al dramma di un viaggio difficilissimo, in condizioni terribili, attraverso il Texas, il New Mexico e l’Arizona, lungo il deserto e la Route 66, nella speranza di una vita migliore in California. Ma il procedere sempre più arduo, mentre parti della famiglia vengono dolorosamente a perdersi, assottiglia e a poco a poco sgretola queste speranze, che per molti iniziano a trasformarsi in rabbia proprio con l’arrivo nel Golden State. La terra promessa, infatti, si rivela un luogo impietoso, dove i migranti sono costretti a una vita raminga da lavoratori stagionali, sottopagati e privi di qualunque diritto – perché, come è sempre più chiaro, le logiche di mercato sovrastano i principi inderogabili della dignità umana.
Pagine tra le più maestose, dolorose e indimenticabili quelle del capitolo 19. I californiani, migranti a loro volta tanto tempo prima, sono ora proprietari, nativi a contatto con migranti nuovi che vedono come invasori, e che giudicano, e che rifiutano: e li rifiutano perché li temono, e li disprezzano perché li rifiutano. I migranti sono spaesati, interdetti, spaventati: in nome di una giustizia che non trovano, possono diventare violenti; per lo sconforto e la necessità possono compiere atti disperati. Magistralmente Steinbeck rappresenta e spiega queste situazioni e i meccanismi che le creano: è un pugno nello stomaco, e restiamo sconvolti per la dolorosa attualità del racconto, per la terribile verità universale che ci costringe a riconoscere.
Nei migranti resiste la dignità morale – una morale semplice ma salda, fondata sui principi di solidarietà e carità umana (che, come è sempre più chiaro, rappresentano l’unica e autentica origine della giustizia sociale, dalla quale invece le logiche economiche dominanti – e spesso anche la legge costituita si rivelano ben lontane). Ci sono poi quella speranza, quella volontà, quella rabbia che presto diventano furore. E non è importante se e quando e come questo furore esploderà: è importante, invece, il modo in cui esso si crea, il modo in cui sostiene l’uomo; il modo in cui, insomma, the grapes of wrath – “gli acini dell’ira” – sono pronti per la vendemmia.

Una foto di John Steinbeck.
John Steinbeck.

Cos’è, dunque, Furore? Cos’è il furore?
Il furore è volontà. È lotta sociale contro l’ingiustizia. È, prima ancora, lotta dell’uomo per affermarsi. È, prima di tutto e soprattutto, lotta dell’uomo per sopravvivere. Ed è lotta dell’uomo con e contro la natura.

Perché, sì, in Furore la natura c’è. Onnipresente, incessante, implacabile. Lirica, quasi magica.
Steinbeck ce la racconta in due modi.
Da una parte è la natura come forza inarrestabile, incontrollabile, che è vento ed è sole, sole e calore soprattutto, e poi è acqua – perché Furore si apre con la pioggia e si chiude con la pioggia. All’inizio è una pioggia sottile e lieve – le ultime piogge, presto sostituite da una siccità spietata e da un vento accanito, e da una polvere che tutto distrugge. Alla fine è una pioggia violenta, che inonda e travolge, che sconvolge campi e fiumi e alberi, che costringe l’uomo a combattere, a tirar fuori il furore perché anch’essa è furore, ma che poi, cessando, lascia il posto alla rinascita della vita.

Un'immagine della nota Route 66.
Un’immagine della nota Route 66.

In altri momenti, soprattutto nella prima parte del romanzo e durante il viaggio nel deserto, abbiamo di fronte un altro tipo di natura, placida ma totalizzante, allucinante, mozzafiato. È il potere immaginifico di poche, semplici parole incastrate nel modo giusto. Davanti ai nostri occhi c’è un pallido quarto di luna, esile e vago in un cielo che sbiadisce; c’è una lenta cascata di stelle che scende sull’orizzonte; c’è la lunga nube della Via Lattea; c’è la luce solitaria dell’alba. Ma, soprattutto, scorrono davanti a noi le descrizioni dei grandi tramonti: quando il sole rosso, ad esempio, tocca l’orizzonte e si allarga come una medusa, mentre il cielo sembra più luminoso e vibrante di prima; o, ancora, quando una grossa goccia di sole rosso indugia sull’orizzonte, prima di cadere e scomparire lasciando il posto a una nuvola lacera, simile a uno straccio insanguinato. Ci sono poi le descrizioni-narrazioni del grande caldo del deserto, aguzzo e battente di giorno, ma ampio e soffocante di notte, quando sembra venire dal basso, dalla terra stessa; vediamo avvampare il deserto quando l’orlo del sole tocca l’orizzonte frastagliato, e c’è un momento in cui il paesaggio è terribile nella luce paonazza del tramonto. Immagini potenti come questa sembrano accentuare la tragedia umana delle migrazioni: è simbolismo semplice e acuto, e pare legare in un rapporto imprescindibile uomo e natura – lei, la natura, crea e partecipa del dramma umano; lei sfida e al tempo stesso accompagna l’uomo.

E non è un caso che l’inserto conclusivo sulla natura sembri congiungersi all’epilogo delle vicende dei Joad: quell’erba che rinasce dopo le piogge distruttive, verde e tenera, pare legarsi al coraggio indissolubile di Ma’, personaggio cardine del romanzo, e al gesto di compassione e di rinascita compiuto da Rose of Sharon: è quella speranza che fin dall’inizio segue e accompagna, e che nonostante tutto splende coraggiosa – più che mai in questa nota finale.

L'agognato arrivo della famiglia Joad in California. Immagine tratta dal film di Furore diretto da John Ford (1940).
L’agognato arrivo della famiglia Joad in California. Immagine tratta dal film di Furore diretto da John Ford (1940).

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Il Conte di Montecristo: il fascino straordinario di un protagonista indimenticabile

Ripensavo stamattina a Il Conte di Montecristo di Alexandre Dumas, lettura che mi ha accompagnato nel trimestre maggio-luglio del 2019.

Il secondo volume della mia edizione de Il conte di Montecristo. 
Foto scattata nel Natale 2020.
Il secondo volume della mia edizione de Il conte di Montecristo.
Foto scattata nel Natale 2020.

È uno di quei grandi romanzi che ti restano dentro. Il respiro che ne anima le pagine, la forza della scrittura, la potenza della trama… C’è tutto, in questo capolavoro: riferimenti storici, un’idea di base solida e suggestiva, l’avvicendarsi di ambientazioni indimenticabili, intrecci, colpi di scena e, soprattutto, una preziosa, profonda rappresentazione della vasta gamma dei sentimenti umani.
Le magistrali abilità di narratore di Dumas rendono ancor più straordinaria la vicenda biografica del protagonista, ancor più emozionante la riflessione attorno al grande tema dell’opera: il rapporto tra vendetta e giustizia, tra vendetta e perdono.

Ma è proprio il protagonista, proprio lui, Edmond Dantès, a stregare profondamente il lettore: un umile marinaio che, vittima innocente dei soprusi dei potenti e di una giustizia corrotta, imprigionato per quattordici anni, si rialza trionfalmente, e assurgendo a Conte di Montecristo trasforma se stesso in giustiziere e vendicatore, incaricandosi di redistribuire al prossimo il male e il bene ricevuto. È un uomo dall’intelligenza fuori dal comune, eclettico e pieno di risorse, coltissimo e carismatico, e come un dio implacabile è proprio lui a muovere i fili della trama, a plasmare vite ed eventi, mentre il lettore sta lì, con il fiato sospeso, stordito dal suo genio, dal suo fascino esotico e dalla portata del piano che si svela via via lungo le pagine.

Eppure, sotto la superficie, il Conte conserva intatte dentro di sé l’intima natura di uomo di mare e la semplice purezza dei sentimenti. E infatti la vendetta, pur essendo obiettivo imprescindibile, è sofferta, continuamente messa in discussione, mentre l’amore congiungerà quest’uomo così singolare a quello che era un tempo, fino al commovente ritorno a Edmond Dantès.

Uno dei personaggi più affascinanti che io abbia mai incontrato in letteratura, all’interno di una storia tra le più appassionanti ed emozionanti mai scritte.

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