Pagine ingiallite dal tempo e odore che sa di storia e di emozione

The Grapes of Wrath, John Steinbeck. Prima edizione, prima stampa.
Che gioia averla!
The Grapes of Wrath, John Steinbeck. Prima edizione, prima stampa.
Che gioia averla!

Nell’aprile 1939 il libro che vedete nelle foto usciva dalla Viking Press di New York e consegnava al mondo per la prima volta una delle storie più universali che siano mai state scritte.

Le vicende dei Joad, famiglia di migranti; il ritratto vivissimo e terribile dell’America degli anni Trenta (e, purtroppo, di dinamiche umano-sociali costanti in ogni epoca e luogo); la natura onnipresente, incessante, implacabile raccontata con accostamenti di parole dal potere immaginifico mozzafiato: The grapes of wrathFurore in Italia – conquista, impressiona, emoziona, commuove, fa riflettere. È un romanzo di una potenza incredibile, uno di quei capolavori che non fai fatica a definire “il libro della vita”. Mentre lo leggevo, nel giugno dell’anno scorso, ero senza fiato a ogni pagina.

Potete dunque immaginare la mia emozione quando, al Salone del Libro, ho visto questa edizione nelle teche di Libraccio. Una prima edizione, prima stampa: quella che Steinbeck aveva tra le mani quando uscì il suo capolavoro.
Ottantatré anni sono passati, e da allora questa copia si è mossa nel tempo e nello spazio; nel raccontare una storia si è rivestita di una storia, e io mi chiedo dove, come, quanto, attraverso chi ha viaggiato prima di approdare tra le mie mani. Sono domande che mi affascinano e alle quali non avrò mai risposta, ma non importa, perché mi bastano due certezze: questa copia è uscita dalla Viking Press nell’aprile del 1939; questa copia è arrivata al Salone Internazionale del Libro 2022 a Torino. E a quel punto ha incontrato me.

È difficile descrivere a parole l’emozione che provo nel tenere tra le mani una prima edizione di The Grapes of Wrath. Le pagine sono ingiallite ma ancora ben salde, e l’odore è quello che solo i libri antichi possono portare con sé: un odore che sa di storia, di cose magiche e perenni, di sentimento. Un odore che ricorda quanto i mondi di parole riescano a creare e quanto riescano a durare nel tempo, più di qualunque altra cosa.

E allora cerco di condividere queste emozioni mostrandovi l’edizione con qualche scatto: il libro nella sua sovraccoperta con il notissimo disegno; le diciture “First Edition” nell’aletta interna della sovraccoperta e “First published in april 1939” alla pagina del copyright; la dedica; la prima pagina; un passo descrittivo del capitolo 6 che mi aveva coinvolto tanto; le celeberrime parole pronunciate da Tom nel capitolo 28; la pagina conclusiva; il libro senza sovraccoperta.

Non trovate anche voi che questa prima edizione sia bellissima?

La prima edizione di The Grapes of Wrath - Il libro nella sua sovraccoperta (fronte).
La prima edizione di The Grapes of Wrath - Il libro nella sua sovraccoperta e le pagine ingiallite dal tempo.
La prima edizione di The Grapes of Wrath - La dicitura “First Edition” nell’aletta interna della sovraccoperta.
La prima edizione di The Grapes of Wrath - A sinistra la dicitura “First published in april 1939” alla pagina del copyright; a destra la dedica.
La prima edizione di The Grapes of Wrath - L'incipit.
La prima edizione di The Grapes of Wrath - Un passo descrittivo del capitolo 6 che mi ha coinvolto tanto.
La prima edizione di The Grapes of Wrath - Le celeberrime parole pronunciate da Tom nel capitolo 28.
La prima edizione di The Grapes of Wrath - La pagina conclusiva.
La prima edizione di The Grapes of Wrath - Il libro nella sua sovraccoperta (retro).
La prima edizione di The Grapes of Wrath - Il libro senza sovraccoperta.
La prima edizione di The Grapes of Wrath insieme al certificato della libreria "Strand" di New York.

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Alla storia intramontabile raccontata in Furore e allo splendore della scrittura di John Steinbeck ho dedicato un articolo qui. 😉

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Furore di John Steinbeck ci lascia senza fiato

Io e la mia copia di Furore.

Dalle terre rosse e grigie dell’Oklahoma a quelle verdi e dorate della California: oggi è un viaggio suggestivo lungo l’Historic Route 66, ma per migliaia di persone di un tempo fu un’odissea pietosa e terribile in cerca di una vita migliore.
Ce lo racconta magistralmente John Steinbeck nel suo Furore, romanzo straordinario che attraverso le vicende di una famiglia di migranti delinea un ritratto sincero e terribile dell’America degli anni Trenta (e, purtroppo, di dinamiche umano-sociali costanti in ogni epoca e luogo).

Il drammatico viaggio dei Joad in un'immagine tratta dal film di Furore diretto da John Ford (1940).
Il drammatico viaggio dei Joad in un’immagine tratta dal film di Furore diretto da John Ford (1940).

La crisi agricola e poi economico-sociale che sconvolge gli Stati Uniti centrali – il grano rovinato da vento e aridità, i danni inflitti dalla polvere (la nota dust bowl), l’arrivo dei trattori, lo sfratto da parte delle banche – costringe i Joad, come tante altre famiglie, al tragico abbandono della propria casa in Oklahoma e al dramma di un viaggio difficilissimo, in condizioni terribili, attraverso il Texas, il New Mexico e l’Arizona, lungo il deserto e la Route 66, nella speranza di una vita migliore in California. Ma il procedere sempre più arduo, mentre parti della famiglia vengono dolorosamente a perdersi, assottiglia e a poco a poco sgretola queste speranze, che per molti iniziano a trasformarsi in rabbia proprio con l’arrivo nel Golden State. La terra promessa, infatti, si rivela un luogo impietoso, dove i migranti sono costretti a una vita raminga da lavoratori stagionali, sottopagati e privi di qualunque diritto – perché, come è sempre più chiaro, le logiche di mercato sovrastano i principi inderogabili della dignità umana.
Pagine tra le più maestose, dolorose e indimenticabili quelle del capitolo 19. I californiani, migranti a loro volta tanto tempo prima, sono ora proprietari, nativi a contatto con migranti nuovi che vedono come invasori, e che giudicano, e che rifiutano: e li rifiutano perché li temono, e li disprezzano perché li rifiutano. I migranti sono spaesati, interdetti, spaventati: in nome di una giustizia che non trovano, possono diventare violenti; per lo sconforto e la necessità possono compiere atti disperati. Magistralmente Steinbeck rappresenta e spiega queste situazioni e i meccanismi che le creano: è un pugno nello stomaco, e restiamo sconvolti per la dolorosa attualità del racconto, per la terribile verità universale che ci costringe a riconoscere.
Nei migranti resiste la dignità morale – una morale semplice ma salda, fondata sui principi di solidarietà e carità umana (che, come è sempre più chiaro, rappresentano l’unica e autentica origine della giustizia sociale, dalla quale invece le logiche economiche dominanti – e spesso anche la legge costituita si rivelano ben lontane). Ci sono poi quella speranza, quella volontà, quella rabbia che presto diventano furore. E non è importante se e quando e come questo furore esploderà: è importante, invece, il modo in cui esso si crea, il modo in cui sostiene l’uomo; il modo in cui, insomma, the grapes of wrath – “gli acini dell’ira” – sono pronti per la vendemmia.

Una foto di John Steinbeck.
John Steinbeck.

Cos’è, dunque, Furore? Cos’è il furore?
Il furore è volontà. È lotta sociale contro l’ingiustizia. È, prima ancora, lotta dell’uomo per affermarsi. È, prima di tutto e soprattutto, lotta dell’uomo per sopravvivere. Ed è lotta dell’uomo con e contro la natura.

Perché, sì, in Furore la natura c’è. Onnipresente, incessante, implacabile. Lirica, quasi magica.
Steinbeck ce la racconta in due modi.
Da una parte è la natura come forza inarrestabile, incontrollabile, che è vento ed è sole, sole e calore soprattutto, e poi è acqua – perché Furore si apre con la pioggia e si chiude con la pioggia. All’inizio è una pioggia sottile e lieve – le ultime piogge, presto sostituite da una siccità spietata e da un vento accanito, e da una polvere che tutto distrugge. Alla fine è una pioggia violenta, che inonda e travolge, che sconvolge campi e fiumi e alberi, che costringe l’uomo a combattere, a tirar fuori il furore perché anch’essa è furore, ma che poi, cessando, lascia il posto alla rinascita della vita.

Un'immagine della nota Route 66.
Un’immagine della nota Route 66.

In altri momenti, soprattutto nella prima parte del romanzo e durante il viaggio nel deserto, abbiamo di fronte un altro tipo di natura, placida ma totalizzante, allucinante, mozzafiato. È il potere immaginifico di poche, semplici parole incastrate nel modo giusto. Davanti ai nostri occhi c’è un pallido quarto di luna, esile e vago in un cielo che sbiadisce; c’è una lenta cascata di stelle che scende sull’orizzonte; c’è la lunga nube della Via Lattea; c’è la luce solitaria dell’alba. Ma, soprattutto, scorrono davanti a noi le descrizioni dei grandi tramonti: quando il sole rosso, ad esempio, tocca l’orizzonte e si allarga come una medusa, mentre il cielo sembra più luminoso e vibrante di prima; o, ancora, quando una grossa goccia di sole rosso indugia sull’orizzonte, prima di cadere e scomparire lasciando il posto a una nuvola lacera, simile a uno straccio insanguinato. Ci sono poi le descrizioni-narrazioni del grande caldo del deserto, aguzzo e battente di giorno, ma ampio e soffocante di notte, quando sembra venire dal basso, dalla terra stessa; vediamo avvampare il deserto quando l’orlo del sole tocca l’orizzonte frastagliato, e c’è un momento in cui il paesaggio è terribile nella luce paonazza del tramonto. Immagini potenti come questa sembrano accentuare la tragedia umana delle migrazioni: è simbolismo semplice e acuto, e pare legare in un rapporto imprescindibile uomo e natura – lei, la natura, crea e partecipa del dramma umano; lei sfida e al tempo stesso accompagna l’uomo.

E non è un caso che l’inserto conclusivo sulla natura sembri congiungersi all’epilogo delle vicende dei Joad: quell’erba che rinasce dopo le piogge distruttive, verde e tenera, pare legarsi al coraggio indissolubile di Ma’, personaggio cardine del romanzo, e al gesto di compassione e di rinascita compiuto da Rose of Sharon: è quella speranza che fin dall’inizio segue e accompagna, e che nonostante tutto splende coraggiosa – più che mai in questa nota finale.

L'agognato arrivo della famiglia Joad in California. Immagine tratta dal film di Furore diretto da John Ford (1940).
L’agognato arrivo della famiglia Joad in California. Immagine tratta dal film di Furore diretto da John Ford (1940).

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Il Conte di Montecristo: il fascino straordinario di un protagonista indimenticabile

Ripensavo stamattina a Il Conte di Montecristo di Alexandre Dumas, lettura che mi ha accompagnato nel trimestre maggio-luglio del 2019.

Il secondo volume della mia edizione de Il conte di Montecristo. 
Foto scattata nel Natale 2020.
Il secondo volume della mia edizione de Il conte di Montecristo.
Foto scattata nel Natale 2020.

È uno di quei grandi romanzi che ti restano dentro. Il respiro che ne anima le pagine, la forza della scrittura, la potenza della trama… C’è tutto, in questo capolavoro: riferimenti storici, un’idea di base solida e suggestiva, l’avvicendarsi di ambientazioni indimenticabili, intrecci, colpi di scena e, soprattutto, una preziosa, profonda rappresentazione della vasta gamma dei sentimenti umani.
Le magistrali abilità di narratore di Dumas rendono ancor più straordinaria la vicenda biografica del protagonista, ancor più emozionante la riflessione attorno al grande tema dell’opera: il rapporto tra vendetta e giustizia, tra vendetta e perdono.

Ma è proprio il protagonista, proprio lui, Edmond Dantès, a stregare profondamente il lettore: un umile marinaio che, vittima innocente dei soprusi dei potenti e di una giustizia corrotta, imprigionato per quattordici anni, si rialza trionfalmente, e assurgendo a Conte di Montecristo trasforma se stesso in giustiziere e vendicatore, incaricandosi di redistribuire al prossimo il male e il bene ricevuto. È un uomo dall’intelligenza fuori dal comune, eclettico e pieno di risorse, coltissimo e carismatico, e come un dio implacabile è proprio lui a muovere i fili della trama, a plasmare vite ed eventi, mentre il lettore sta lì, con il fiato sospeso, stordito dal suo genio, dal suo fascino esotico e dalla portata del piano che si svela via via lungo le pagine.

Eppure, sotto la superficie, il Conte conserva intatte dentro di sé l’intima natura di uomo di mare e la semplice purezza dei sentimenti. E infatti la vendetta, pur essendo obiettivo imprescindibile, è sofferta, continuamente messa in discussione, mentre l’amore congiungerà quest’uomo così singolare a quello che era un tempo, fino al commovente ritorno a Edmond Dantès.

Uno dei personaggi più affascinanti che io abbia mai incontrato in letteratura, all’interno di una storia tra le più appassionanti ed emozionanti mai scritte.

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