De viris et mulieribus consecratis Ilium di Elisabetta Buonavolontà

De viris et mulieribus consecratis IliumUomini e donne da Troia: è così che Elisabetta Buonavolontà ha intitolato il suo libro, e non riuscirei a immaginare titolo più azzeccato per questo splendido mosaico di personaggi ed episodi con cui l’autrice riscrive e rievoca l’èpos greco-latina classica.
Elisabetta Buonavolontà riscrive e rievoca, rievoca e riscrive, e lo fa con intelligenza e passione, con tutto l’impegno di ricerche approfondite, consapevoli, meticolose – impossibile non accorgersi dell’enorme lavoro dietro a ogni pagina – e con uno stile fluido, in cui l’epica risuona in continuazione e in cui il linguaggio, dall’uso di epiteti e patronimici alle similitudini che coinvolgono le divinità, sembra davvero un tuffo nella grande letteratura classica.

De viris et mulieribus consecratis Ilium di Elisabetta Buonavolontà.
De viris et mulieribus consecratis Ilium di Elisabetta Buonavolontà.

Il libro di Buonavolontà unisce e raggiunge due grandi obbiettivi: una riscrittura originale dell’Iliade e dell’Eneide che segua il filo conduttore dell’amore tra Enea e Creusa – amore che si rivela anche chiave di lettura dell’intero romanzo – e al tempo stesso la fedeltà a episodi e storie che chi conosce i poemi ha piacere di ritrovare (anche con una certa linearità), percependo questo romanzo al tempo stesso nuovo e familiare.
Romanzo che comunque può funzionare bene anche come primo approccio per chi di epica classica è digiuno, e ciò non solo grazie agli eventi e ai personaggi che lo popolano, ma anche per la presenza di diversi tópoi che l’autrice ripropone con consapevolezza: le scene di caccia, la ritualità (vedi il taglio dei capelli prima del matrimonio), il peculiare trattamento delle divinità e tanti altri elementi imprescindibili a dare credibilità a un racconto epico di questo genere, senza contare poi le storie nella storia, i miti che vengono rievocati da alcuni personaggi, dalla voce narrante o attraverso i dialoghi.

Ma la grande forza di questo libro è proprio la rilettura che l’autrice dà all’intera storia. I personaggi di Enea e di Creusa, la loro ferma morale, le loro insicurezze personali, le loro difficoltà in famiglia e soprattutto quella grande storia d’amore che si sviluppa e si evolve sullo sfondo di un disegno divino, di un fato che è difficile ignorare e rispetto al quale li vediamo agire, evolversi, scegliere, soffrire e ancora amare.
E qui torno a Creusa: Creusa, Creusa soprattutto, generosa e forte, ribelle e passionale, alla ricerca della giustizia e mai della vendetta, narratrice di storie, inquieta e indomita, capace come nessun altro di accettare un fato ingiusto, capace come nessun altro di amare e di sacrificare se stessa per il futuro di un marito e di un figlio e nel nome di una prospettiva più ampia, di una prospettiva più alta.
Per questo, più di tutto il resto, vorrei ringraziare Elisabetta Buonavolontà: per aver reso giustizia a un personaggio trascurato e poco noto come quello di Creusa, per averle dato vita e per averle dato luce, perché Creusa davvero splende nelle sue pagine e dopo aver letto di lei in questo modo, veramente, mi sarà difficile smettere di pensarci.

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Indomabili onde di Paola Kovalsky

Cuba per me era una canzone pompata a mille nelle casse di uno stereo, tanto da non riuscire a restare ferma […], racconta Claudia nel capitolo 5 di Indomabili onde, usando un’immagine che rimane impressa, come molte altre che l’autrice, Paola Kovalsky, costruisce via via tra le pagine del suo romanzo d’esordio. 
Cuba assolata, del mare ruggente e ipnotico del Malecón, dei cieli auriferi e dei gabbiani garruli, delle macchine in corsa e delle feste di rum e sigari, vestita di colori e di musica, esotica e conturbante di stimoli, che riempie di vitalità e spinta emotiva, intensifica le emozioni, rende ebbri ed esausti.
Cuba che è anche e soprattutto terra ferita ma orgogliosa, resistente e coriacea oltre ogni misura. Cuba con il suo popolo dalla tempra indomabile.

La copertina del romanzo "Indomabili onde" di Paola Kovalsky.
Indomabili onde di Paola Kovalsky.

Perché è di questo che parla Indomabili onde. Di un popolo rivoluzionario, di una Rivoluzione che l’autrice decide di trasportare ai giorni nostri, rappresentandola e narrandola attraverso gli occhi di Claudia, giovane italiana che vedrà la sua vita cambiare dopo l’incontro con questi ideali, con questi grandi personaggi storici.

E del romanzo sono protagonisti, questi personaggi. La Kovalsky ce li racconta con attenzione, con sensibilità ma anche con naturalezza, come solo chi li ha studiati bene potrebbe fare.
Camilo Cienfuegos ed Ernesto Guevara, in particolare, sembra davvero di averli davanti.
Camilo, perennemente allegro e apparentemente felice, incantatore ed esperto ballerino, dalle espressioni complici e dallo sguardo fiero, e il cui sorriso, il cui buonumore rendono impossibile non volergli bene. Camilo che sa essere tenero, che sa innamorarsi e darsi all’amore, Camilo che vuole vivere a pieno le emozioni, spingersi verso la costa e tornare indietro, urlare di rabbia, inghiottire la vita e berla a pieni sorsi.
E poi Ernesto con quegli occhi scuri e magnetici, attenti ai dettagli come pochi o nessuno; occhi che poi diventano un pozzo di dolore, […] tristi, come sconsolati, pur condividendo il viso con la piega ferina della bocca, in grado di trasformare la sua espressione da afflitta a bellicosa. Ernesto con il suo carisma, la sua virile sessualità nei modi di fare, di parlare. Ernesto del quale la Kovalsky mette in luce non solo le spinte ideali, ma anche quel lato romantico, letterario, e quello più profondamente umano.

A Claudia, piena di entusiasmo innocente, questi personaggi incutono fascino e timore, mentre le loro ideologie e il loro carisma penetrano in lei e la stravolgono. Sì, perché questo è un libro che parla di ideologie, moralità, giustizia, consumismo, coscienza politica, diritti e libertà, ed è al tempo stesso un libro che trascina in un vortice di emozioni. Perché il fuoco della Rivoluzione si mischia ai tumulti interni dell’anima di Claudia, e perché la natura umana è imperfetta, carnale, contradditoria ed irrazionale. E allora c’è l’infatuazione, c’è l’amore, ci sono i sentimenti soffocati, le illusioni e le disillusioni, la nostalgia, il rimpianto, la rabbia e il dolore.
L’ultima sezione del romanzo è la più forte, la più dolorosa. Impossibile restare indifferenti, impossibile non farsi coinvolgere, impossibile non commuoversi. Si soffre e si piange insieme a quella scrittura che per tutto il romanzo sembra averci spinto per portarci fin lì, dove scorre ancora più forte, dove ci trascina come un fiume in piena verso indomabili onde di dolore, che si infrangono, nell’ultima pagina, sulle due meravigliose e pregnanti citazioni finali – Brecht e Pavese – messe lì come a suggello della storia e di quel dolore che sembrano imprimere e al tempo stesso accarezzare, rendendolo intimo e universale.

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Nel grande regno di Thulas di Paola Maria Liotta

Immergersi tra le pagine di Paola Maria Liotta significa riscoprire una purezza che solo una storia fatta di animali e di natura incontaminata può dare.

La copertina del romanzo "Nel grande regno di Thulas" di Paola Maria Liotta.
Nel grande regno di Thulas di Paola Maria Liotta.

Nell’antico regno di Thulas, tra fronde e acque, rocce e cascate, mangrovie e ninfee, entriamo a far parte di una simpatica famigliola di macachi in libertà, una specie tra le più vivaci che popolano questi luoghi. Nonna Hera, mamma Emma e le sue figlie – tra le quali la neonata Elsa, protagonista assoluta della storia – sono una combinazione di forza, orgoglio e senso pratico, e portano con sé bontà e tenerezza. Ce ne rendiamo conto fin dai primi capitoli, nei quali, con una formula dolce e potente, le scene di maternità che coinvolgono Emma ed Elsa sembrano completare la descrizione del territorio, quelle immagini limpide del Grande Fiume e della foresta tracciate con sapienza e cura.

Attraverso lo sguardo ingenuo e intelligente della piccola Elsa, piena di curiosità e di voglia di vivere, la Liotta ci conduce nella trama come dentro a una foresta, e intricandoci e districandoci con il suo stile sempre chiaro, equilibrato e preciso, ci fa scoprire che quello della macachina è un mondo in pericolo, e che purtroppo il rapporto di simbiosi tra queste specie e il loro ambiente naturale, di cui partecipano anche le popolazioni locali che con gli animali dividono i frutti della terra, è sul filo del rasoio.
Attraverso marce ed esplorazioni, infatti, i nostri macachi scoprono che luoghi rigogliosi di acque e di fronde hanno lasciato il posto a una natura desolata, e sempre più spesso si trovano a fare i conti con gli incendi, l’odore della combustione, la caligine, il fumo, il grigiore, l’aria irrespirabile.
Ed è qui che noi lettori capiamo quali sono i problemi, purtroppo comunissimi, che stanno affrontando questi territori: il taglio indiscriminato delle foreste, con tutti i pericoli annessi, e il traffico illecito di cuccioli di specie protette. Tutto questo all’inizio non è chiaro ai nostri macachi, che di fronte al triste spettacolo del torrente inaridito, degli incendi periodici e degli esodi sempre più frequenti di animali si trovano inquieti e privi di risposte. A prendere in mano la situazione sono i più giovani, guidati proprio da Elsa, che per prima decide di abbandonare le cacce agli smeraldi e tutti gli altri giochi di fronte a quello che percepisce come il vero mistero su cui darsi da fare.

Ma tutti gli abitanti di Thulas fanno squadra per abbattere le minacce che mettono a rischio il loro territorio, e il romanzo si popola così di tanti animali, tutti con un’identità ben definita: l’ibis Arabella, il lombrico Pahem, il gamberetto Alpheus, la farfalla Eulalia, la tigre Kaya. E poi pesci, rinoceronti, elefanti. E non ci stupiamo di sapere che tra queste specie vige un’amicizia pura e disinteressata, fondata sulla solidarietà.
Anche alcuni umani sono così. È il caso del pescatore Bagus, che offre aiuto ai nostri protagonisti, o di Isabel e Mino, impegnati a diffondere, con parole e immagini, l’importanza della difesa dell’ambiente. Sono quegli umani, insomma, che rendono il bene la loro missione, perché hanno fatto tesoro di un insegnamento essenziale.
È quell’insegnamento che ascoltiamo soprattutto da nonna Hera, più volte e in modi diversi – fuggire chiunque offenda la nostra Madre Terra; non infrangere le leggi del cosmo; essere in sintonia con la Grande Madre Natura, assecondarne il ritmo, il respiro: e questa non è solo la legge di quei luoghi, ma anche un principio al quale occorre adeguarsi se ci si vuole sentire in pace con sé stessi e con gli altri.
È uno degli insegnamenti più importanti che la Liotta ci chiede di ricordare, mettendolo con semplicità nella bocca di giovani macachi che parlano per tutte le specie di piante e animali che popolano la nostra Terra e che ne costituiscono la più grande ricchezza. La nostra ricchezza. Non dimentichiamolo mai.

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Mandorla amara di Maria Rita Sanna

Una foto del romanzo "Mandorla amara" di Maria Rita Sanna.
Mandorla amara di Maria Rita Sanna.

Sono sufficienti poche pagine per capire perché Mandorla amara di Maria Rita Sanna, edito Edizioni Convalle, si sia aggiudicato il marchio Microeditoria di Qualità.
Nel suo romanzo d’esordio, infatti, l’autrice di Quartu Sant’Elena tratteggia due figure femminili e con esse due storie e due vite diverse che intreccia con grande abilità.

La pregevole caratterizzazione dei personaggi, unita al racconto in prima persona, ci fa incontrare subito l’animo delicato ma forte di Lucia e quello burbero e tenero di Marisa, permettendoci di immedesimarci in breve tempo in una delle due (o, perché no, in entrambe); a questo, d’altronde, si affianca l’ottima scelta dell’autrice di introdurci ai loro conflitti interiori a velocità diverse: cogliamo dalle prime pagine la dolorosa situazione che Lucia sta vivendo, ma ci occorre leggere di più per capire fino in fondo Marisa e le sue sofferenze, anche se ci affezioniamo da subito a questo personaggio così scorbutico e così buono. 
La storia personale e interiore delle due donne procede in parallelo alla storia della loro amicizia: dall’approccio di cauta curiosità a quel reciproco interesse inesplicabile – frutto di un sesto senso che le attrae una verso l’altra – fino all’apertura a conversazioni, spesso brevi e pregnanti, e a confidenze che vengono fuori spontanee; si sviluppa così un rapporto di comprensione e solidarietà che sarà una vera e propria molla, perché spingerà le due ad affrontare sé stesse e il proprio conflitto interiore.
La città di Cagliari, teatro della storia, è dipinta in queste pagine con pennellate brevi ma accurate; spesso è descritta nei suoi spazi ampi, sa di azzurro e di giallo e sembra comunicare la positività e la libertà che le due protagoniste vanno cercando. Il bello, poi, è che in Mandorla amara il lettore davvero li vive, i luoghi rappresentati, e non solo quando si tratta del lungomare o dei noti portici, ma anche quando abbiamo davanti una semplice panetteria.

Per questo e per tanto altro è fluida e sapiente, la scrittura di Maria Rita Sanna, che già nel suo primo romanzo mostra di conoscere e di saper gestire alcuni imprescindibili punti fermi della buona narrativa: mi riferisco, ad esempio, ai due conflitti interiori corrispondenti alle due co-protagoniste, come anche alla funzione precisa attribuita a ogni personaggio e a ogni elemento presente nella storia, il che fa sì che alla fine ogni cosa torni al suo posto, lasciando al lettore un senso di soddisfazione.

Ma, soprattutto, non può mancare in questa recensione uno degli aspetti più interessanti del lavoro (e uno di quelli che personalmente ho apprezzato di più), vale a dire le magnifiche similitudini che coinvolgono elementi o fenomeni naturali, come quando Lucia paragona sé stessa a un albero potato, con un unico tronco spoglio di fronde e sterile, o come quando la stessa Lucia, per continuare con l’immagine in questione, sente crescere il germoglio nell’unico tronco spoglio, il fiore del mandorlo che sopravviveva alla tempesta invernale.
Concludo a questo punto con la splendida metafora della mandorla, da cui anche il titolo dell’opera, e a proposito della quale mi piace citare queste righe:
Vedi, Lucia, la mandorla diversa, amara, è necessaria per farci apprezzare meglio la dolcezza di quelle buone; il gusto dell’amaretto è particolare e la sua crosticina croccante, che racchiude la pasta morbida, ci ricorda la vita con le sue difficoltà che nascondono le gioie. Il fiore stesso di questo frutto nasce e sboccia durante l’inverno; nonostante il freddo, lui si mostra in tutto il suo splendore.”

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Il manoscritto di Stefania Convalle

Una foto del romanzo "Il manoscritto" di Stefania Convalle.
Il manoscritto di Stefania Convalle.

Da quando ho iniziato a seguire su Facebook la pagina di Edizioni Convalle – fondata e guidata dalla scrittrice Stefania Convalle – ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte a una realtà giovane ed estremamente vivace, piena di autori motivati dall’amore per la scrittura e dalla voglia di creare un gruppo. Quando poi è uscito il nuovo romanzo di Stefania, Il manoscritto, ho deciso di acquistarlo, incuriosita dalla trama ma spinta anche dal desiderio di avvicinarmi al mondo interiore di questa donna così energica e propositiva.

Adesso, a lettura conclusa, voglio parlare un pochino di ciò che ho trovato tra le pagine di questo romanzo.

Il manoscritto, tanto per cominciare, è una storia di rinascita e di redenzione. Al plurale, in realtà, perché sono ben tre i personaggi che, incrociando i propri cammini in un momento di difficoltà, trovano uno nell’altro l’occasione di un percorso interiore essenziale per voltare pagina e ricominciare a vivere.

Il manoscritto è una storia che si legge – si fa leggere, si lascia leggere. A questo concorrono la scrittura di Stefania Convalle – concisa ma sempre pregnante di sentimenti (insomma, poche parole, ma quelle giuste) – e diverse scelte felici: la narrazione in prima persona, che consente di immedesimarsi nei protagonisti fin dall’inizio; l’alternanza dei punti di vista, che coinvolge il lettore nelle storie, soprattutto interiori, di più personaggi; la presenza di piccoli misteri sapientemente gestiti, che spingono avanti le pagine rendendoci sempre più curiosi di sapere.

Sullo sfondo una città, Trieste, dalle tante sfaccettature: romantica e malinconica, fresca e antica, capace di scombinare gli animi ma anchedi rimettervi ordine. In questo senso, nella vicenda personale di Emilia – la protagonista femminile – giocherà un ruolo di primo piano un’anziana signora: è la vecchina della porta accanto, amica sincera, dolce confidente e, soprattutto, prezioso tesoro di saggezza. Una scelta interessante, quella di Stefania Convalle, che in un romanzo dove i protagonisti hanno perso la strada propone come punto fermo – come unico punto fermo! – proprio questa cara vecchietta, mostrando così di attribuire all’esperienza dei nostri anziani un valore essenziale, imprescindibile (cosa che le rende decisamente onore).

E ci tengo a dirlo, perché sì, sono convinta che un libro ci riveli sempre molto del suo autore. E allora mi viene spontaneo concludere con un ritratto della stessa scrittrice, tracciato sulla base dei messaggi che lei ha voluto consegnare a questo bel romanzo: Stefania Convalle è una persona generosa, piena di sentimento, amante degli animali; Stefania Convalle sostiene – come pochi fanno oggi – l’importanza del vero talento nell’arte e nella letteratura; e, ancora, Stefania Convalle è convinta che ogni persona nella propria vita meriti una seconda possibilità – e che, soprattutto, siamo noi stessi a dovercela concedere per primi.

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