Non smetterò mai di leggere Dialoghi con Leucò

Credo in ciò che ogni uomo ha sperato e patito. Non penso esistano parole più efficaci di queste – queste, pronunciate dal primo interlocutore nel pezzo intitolato Gli dèi – nel condensare il senso ultimo del mito e, insieme, il senso ultimo di questi Dialoghi con Leucò, impresa maestosa compiuta da Pavese, trionfo commovente di grecità e umanità.
Grecità e umanità. Perché insieme?, vi potreste chiedere.
Perché non c’è interrogativo umano, non c’è passione o sentimento che la cultura greca antica non abbia affrontato o esplorato. L’ha fatto in modi e sedi diverse, l’ha fatto soprattutto con la grande letteratura – come non pensare ai poemi omerici o al teatro?! – ma l’ha fatto, ancor prima e ancor più, attraverso il mito, patrimonio antico e universale di un popolo intero, sostrato di qualsiasi manifestazione artistica.
Una mitologia, quella greca, che Cesare Pavese ha fatto propria al punto da poterne scrivere incrociando più livelli di intenti: esplorare l’uomo attraverso il mito ed esplorare il mito attraverso l’uomo, in ventisette dialoghi di uno splendore delicato, di una rara sensibilità e di una profondità sconvolgente.
Dialoghi, dunque. Voci di dèi, semidei e uomini. Voci di ninfe e titani. Ascoltiamo Circe, Tiresia, Eracle; ascoltiamo Saffo, Ariadne, Calipso. Ascoltiamo anche diverse entità: Eros conversa con Tànatos, Bia con Cratos. Frasi brevi, spesso lapidarie, che concentrano strati di significati in una manciata di parole – parole su cui hai bisogno di tornare, midolli di realtà che giri e rigiri dentro di te. E si parla di amore, di origine e di religione; di nostalgia, di vecchiaia, di morte, di passione. Della vita, dunque, semplicemente; e di noi, di noi tutti, perché la domanda, la grande domanda sottesa, è sempre chi siamo? E così, dando voce al mito per quello che è – esattamente per quello che è – Pavese svela del mito aspetti nascosti, regalandoci prospettive inattese di storie che appartengono al nostro immaginario, sfaccettature che abbiamo sempre avuto sotto gli occhi ma su cui non abbiamo mai riflettuto.
E parlano sempre di noi questi dialoghi. Non solo quando a parlare sono uomini o quando si parla propriamente degli uomini: nel parlare degli dèi si parla di noi; anche nel parlare della dimensione arcaica primigenia si parla di noi.

Sì, perché il mondo è vecchio. Il mondo è più vecchio degli dèi.
I primi dialoghi in particolare rivelano un mondo antico, che rimarrà poi lì, a galleggiare e riecheggiare, quasi sospeso, per tutto il resto del libro, in contrapposizione a quello degli Olimpi ma a quest’ultimo sotteso. È il mondo del Caos primigenio, un mondo prima del tempo, il mondo favoloso – le cose stesse, regnavano alloradelle belve e dei boschi, del mare e del cielo, di lotta e di sangue; è la dimensione dell’indistinto, dove la nuvola la rupe la grotta hanno lo stesso nome, dove ogni entità è titanica e con loro, i Titani, domina l’irrazionale, l’ambiguo, la natura libera e ferina, mentre tutto è istinto, mentre i riti selvaggi spargono sangue.
Cos’era, a quell’epoca, l’Olimpo? Soltanto un monte brullo.
Poi è arrivato il regno degli dèi, gli immortali che hanno vinto i Titani, gli Olimpi che, rappresentando l’intelletto e la razionalità, hanno dato un nome alle cose, hanno messo ordine e portato una legge di giustizianulla si fa che non ritorni. Hanno vinto la selva, la terra e i suoi mostri, dice Eracle a Litierse, non hanno bisogno di sangue.

Ma cosa, quanto possiamo davvero attribuire agli dèi? È questa un’altra grande domanda che risuona ed echeggia. Per dirla con Tànatos, io mi chiedo fin dove gli Olimpici faranno il destino. E la verità, lo spiega Tiresia a Edipo, la verità è che il loro potere è limitato: posson dare fastidio, accostare o scostare le cose. Non toccarle, non mutarle. Sono venuti troppo tardi. Di conseguenza, come precisa Ermete, devon trafiggere e distruggere e rifare ogni volta che il caos trabocca alla luce, alla loro luce.
Ed eccolo, è qui l’intoppo: il caos trabocca. Trabocca perché la dimensione arcaica persiste, perché molte entità portano i segni di quell’era mostruosa, il ricordo del pantano, dell’informe furore sanguigno
Forse è anche per questo che gli stessi dèi, pur forieri di un mondo ordinato, sono scossi da passioni distruttive; è anche per questo che possono agire per capriccio – o meglio, ancora con Tànatos, ogni loro capriccio è una legge fatale. Per esprimere un fiore distruggono un uomo. Possono essere ingiuriosi, loro che, come rimarca un cacciatore, non han rimorsi, tanto che i boschi sono pieni di uomini e donne da loro toccati – chi divenne cespuglio, chi uccello, chi lupo. La stessa Demetra lo ammette con Dioniso: io non so come, ma quel che ci esce dalle mani è sempre ambiguo.
Nulla si fa che non ritorni evoca la giustizia degli Olimpi, ma, allo stesso tempo, proprio perché nulla si fa che non ritorni, sangue porta sangue. Come rivela Prometeo a Eracle, il sangue dei mostri che l’eroe ha ucciso – quel sangue distruttivo rivivrà in lui e lo porterà a morire. Lo stesso concetto è espresso da Teseo: quel che si uccide si diventa, risponde l’uccisore del Minotauro al compagno che lo rimprovera di crudeltà. Non per niente, in un certo senso, non si uccidono, i mostri, e anche gli dèi Olimpi, ricordiamolo, li hanno soltanto vinti.

Arriviamo così al punto focale: i tre mondi – quello arcaico, quello olimpico e quello umano – in realtà convivono. E c’è una tale fluidità tra Titani e dèi e uomini che forse è tutta una questione di nomi, di idee, di paure. Le cose si mescolano, le cose si ripetono. D’altronde il caos umano-divino è, nell’idea di Pavese, la forma perenne della vita. Fluidità, mutabilità: identità. Che cos’era bestiale se la bestia era in noi come il dio?, si domanda Chirone. Quanto agli dèi, finiranno anche loro, decreta Prometeo, lapidario. E, per chiarire a Eracle, precisa: […] i mostri non muoiono. Quello che muore è la paura che t’incutono. Così è degli dèi. Quando i mortali non ne avranno più paura, gli dèi spariranno.
Torneranno i titani?, gli chiede Eracle.
E Prometeo: Non ritornano i sassi e le selve. Ci sono. Quel che è stato sarà. […] Siamo un nome, non altro. […] E il mondo ha stagioni come i campi e la terra. Ritorna l’inverno, ritorna l’estate. Chi può dire che la selva perisca? O che duri la stessa? Voi sarete i titani, fra poco.
Eracle: Noi mortali?
Prometeo: Voi mortali – o immortali, non conta.
Quello che conta, allora, è da dove arriva il divino. Arriva dai posti che abiti, che vivi; arriva da come cresci, dai valori che fai tuoi. E comunque, come rimarca Teseo, […] quel divino che hai nel sangue non si uccide.

Il sangue. Ecco un’altra costante imprescindibile, dall’epoca del Caos primigenio – quando era misto a fango – al presente sospeso del libro, nel quale è strumento dell’uomo per omaggiare gli dèi, fino al momento in cui, come pronostica Dioniso, gli uomini lo vedranno nel vino cristiano.
Il sangue, quel che vi gonfia le vene e accende gli occhi, dice Diana a Virbio, so che è per voi vita e destino.
Destino – è questa l’altra parola chiave, è questo il cardine della riflessione sull’uomo e sul suo rapporto con la vita: il destino, avversato e detestato da alcuni; il destino, ricercato da altri come imprescindibile parte di sé, del proprio essere umano. Ho bisogno di avere una voce e un destino, dichiara Virbio a Diana, lamentando la condizione di estraneità dal tempo nella quale lei lo ha bloccato – quella felicità adamantina e finta che lo fa sentire un’ombra tra le ombre degli alberi – ed esprimendo nella chiusa finale – chiedo di vivere, non di essere felice – la necessità di una vita normale, magari difficile, ma umana. E se questo riecheggia, in qualche modo, nelle parole di Patroclo – meglio soffrire che non essere esistito – e nel discorso di Saffo, la quale, dopo il suicidio, realizza di preferire sofferenze e inquietudini alla monotonia di una morte che l’ha resa perenne schiuma d’onda, è passando per la sofferenza che Edipo, in uno dei dialoghi più commoventi, esprime la sua particolare visione della vita vera, il suo bisogno disperato di autodeterminarsi, di smarcarsi da quel destino a cui Virbio invece anelava in quanto umano: vorrei essere l’uomo più sozzo e più vile, afferma Edipo, purché quello che ho fatto l’avessi voluto. Non subìto così. Non compiuto volendo far altro.
Vivere, soffrire; accettare un destino o resistergli. Del resto, non è forse il destino la cosa più umana tra tutte? Così lo intende Orfeo: il destino, proclama, è più profondo del sangue, […] nessun dio può toccarlo. È cosa tua. Nell’originale interpretazione di Pavese, Orfeo cerca se stesso – non Euridice, ed è per questo che si volta, scegliendo di lasciarla andare – quando scende nell’Ade, e nel cercare se stesso cerca un destino. E quanto risuona, qui, Virbio! E quanto risuona Saffo, quando alla domanda di Britomarti sul destino risponde non l’accetto. Lo sono.
D’altronde, quello che cerco l’ho nel cuore, dice Odisseo a Calipso.

Accettare un destino o resistergli; soffrire, vivere. Vivere, sì. Perché la vita, la vita umana nella sua fragilità, nel suo costante moto di ricerca di sé, di lotta o armonia col destino, nelle sue passioni e in tutte le sue incertezze, possiede un’unicità che la rende più affascinante – e più vera, soprattutto – rispetto all’esistenza immobile nel tempo caratteristica degli dèi.

Sarà per questo che le divinità sono attratte dagli uomini? Che Artemide si innamora di Endimione e Bacco di Ariadne? Ancora, sarà per questo che i dialoghi dove un dio approccia un essere umano regalano le immagini più delicate? Come quella di Artemide, che nel toccare Endimione sui capelli, quasi esitando, viene colta da un sorriso incredibile, mortale, o come quando Dioniso, un dio per cui sorridere è come il respiro, sul punto di venire in soccorso di Ariadne è accostato da Leucotea a un paesaggio, un vigneto in costa a un colle lungo il mare, nell’ora lenta che la terra dà il suo odore, e poi a un profumo rasposo e tenace, tra di fico e di pino, e all’aria che pesa di mosto, e al frutto e fiore del melograno, e al fresco dell’edera, e ai pineti, e alle aie.
Ancora, c’è l’effetto che Odisseo fa a Circe, effetto che la maga stessa ci racconta in uno dei dialoghi più belli in assoluto, uno di quelli in cui guardiamo all’uomo con gli occhi di chi uomo non è, e in cui, per questo, emergono prospettive straordinarie di quella caducità che lo rende unico e inimitabile: la loro vita è così breve che non possono accettare di far cose già fatte o sapute, riflette Circe prima di mettere in luce quella facoltà – e insieme valore – che appartiene all’uomo e all’uomo soltanto, la memoria. E in questo dialogo, che sublima il potere del ricordo esaltandone la connessione con la dimensione affettiva, l’uomo risplende di possibilità estranee agli dèi – perché per lui il ricordo ha un significato, e perché è questo e solo questo a renderlo immortale, il ricordo che porta e il ricordo che lascia. Una volta – racconta Circe a Leucotea, parlando di Odisseo – credetti di avergli spiegato perché la bestia è più vicina a noialtri immortali che non l’uomo intelligente e coraggioso. La bestia che mangia, che monta, e non ha memoria. Lui mi rispose che in patria lo attendeva un cane, un povero cane che forse era morto, e mi disse il suo nome. Sì, l’uomo dà un nome agli animali. L’uomo ama, e ricorda i suoi affetti. E quest’uomo amava un cane, una donna, suo figlio, e una nave per correre il mare. E con quella sua nave arricchiva la terra di parole e di fatti, incurante del destino che per questo, in qualche modo, riusciva a raggirare.
Sì, perché se è vero che agli uomini accadono cose inesorabili, è anche vero che queste cose sono fatte di assurdo, di attimi inattesi, irripetibili, sorprendenti, come – racconta ancora Circe – quel gioco degli scacchi che Odisseo m’insegnò, tutto regole e norme ma così bello e imprevisto, coi suoi pezzi d’avorio. Lui mi diceva sempre che quel gioco è la vita.

E così gli uomini vivono davvero, a dispetto del destino, e chi soccombe sono in realtà gli dèi, chiusi in un eterno presente – gli dèi che non esistono, ma semplicemente, come precisa Tànatos, sono, in un mondo che passa.

Senza di loro – senza gli uomini – mi chiedo che cosa sarebbero i giorni, riflette Dioniso con Demetra; tutto quello che toccano diventa tempo […] azione […] attesa e speranza, risponde lei poco dopo: ci troviamo nell’ultima parte del libro, pagine meravigliose che condensano e illuminano quanto di più buono ci sia nell’uomo – l’uomo, un essere creativo, coraggioso, fantasioso, capace di adattarsi e industriarsi, di nutrirsi di speranze e promesse e progetti – in una prospettiva di fiducia sul mondo, ma soprattutto in una celebrazione commovente della vita di noi tutti.
È quello che traspira, ad esempio, dalle parole di Cratos e Bia, di Dioniso e Demetra, di Satiro e Amadriade.
Perché Zeus e tutti gli altri dèi sono così attratti dall’uomo? La risposta è che il mondo, se pure non è più divino, proprio per questo è sempre nuovo e sempre ricco. Che questi umani sono poveri vermi, ma tutto fra loro è imprevisto e scoperta. Che sulle colline han saputo piantare vigneti, facendo dolci paesi di brutti pendii sassosi, e così hanno fatto del grano, così dei giardini, spendendo fatiche e parole e creando un ritmo, un senso, un riposo. Sono preziosi nelle labilità, straordinari nelle debolezze – preziosi e straordinari, soprattutto, per quegli istanti imprevisti, unici, che danno un senso vero alla vita. Per questo nella loro miseria hanno tanta ricchezza. Per questo, soltanto vivendo con loro e per loro si gusta il sapore del mondo.
Senza di loro mi chiedo […] che cosa saremmo noi Olimpici, dice ancora Dioniso. Ci chiamano con le loro vocette, e ci dànno dei nomi. E proprio la riflessione sul valore del nome torna più volte in queste ultime pagine: hanno un modo di nominare se stessi e le cose e noialtri che arricchisce la vita […] sanno darci dei nomi che ci rivelano a noi stessi […] e ci strappano alla greve eternità del destino per colorirci nei giorni e nei paesi dove siamo. È una capacità che afferisce, più in generale, a quella della parola – e la parola dell’uomo, che sa di patire e si affanna e possiede la terra, rivela a chi l’ascolta meraviglie.


E che dire delle storie che sanno raccontare?

Proprio su questo si chiude l’opera. Nel penultimo dialogo, non a caso quello tra Mnemosine e il poeta Esiodo, si riprende il tema della memoria, declinata stavolta nel suo potere di filtrare le immagini e addolcire le asperità e accostata, appunto, alla capacità dell’uomo di comunicare, di esprimersi, di portare la parola al mondo: è così che nasce la dimensione artistica, potere supremo dell’essere umano. Non per niente Esiodo incontra Mnemòsine – la memoria, madre delle Muse e quindi della conoscenza (mi par di sapere qualcosa soltanto con te, le dice) e di tutte le arti – su un monte: è il monte Elicona, sede delle Muse per i Greci, che situavano nei luoghi elevati le feste della fantasia e della memoria, assegnando al pensiero e all’arte una posizione di preminenza sul mondo.

E su un monte è ambientato anche l’ultimo dialogo – su un monte brullo percorso, stavolta nella nostra epoca, da due interlocutori che discutono di mitologia. Perché, sì, quelle alture brulle sono così pregnanti di un passato mitico che basta un nonnulla, e la campagna ritorna la stessa di quando queste cose accadevano. Sono le alture dove i Greci hanno cercato, veduto, narrato quel patrimonio immenso di storie sull’umanità, lo spettacolo del mondo e dei moti del nostro animo – i Greci che sapevano troppe cose, che con un semplice nome raccontavano la nuvola, il bosco, i destini. È, ancora una volta, il potere di un nome che si carica di sostanze di significati: è il semplice, splendente potere della parola, che rivelando un midollo di realtà sorprende e scuote e fa tremare. E la parola è capace, lei e solo lei, di eternare questi luoghi donando loro nomi per sempre, laddove non rimane che l’erba sotto il cielo, eppure l’alito del vento dà nel ricordo più fragore di una bufera dentro il bosco. Per chi ci crede. Per chi crede in ciò che ogni uomo ha sperato e patito.
Non smetterò mai di leggere questi Dialoghi.

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Mari Ermi: vi racconto il titolo

Era il 1° agosto 2015, ma lo ricordo come fosse ieri. Una giornata nuvolosa e calda, col cielo in gran parte coperto. Io, però, al mare volevo andare lo stesso – avevamo già deciso, e non avrei rinunciato: non era il giorno ideale, sì, e forse non avrei fatto il bagno, ma mi piaceva la prospettiva di trovare quiete in spiaggia in piena estate. Perché era chiaro che quel pomeriggio non ci sarebbe stato nessuno.
Non sapevo, però, e mai avrei potuto immaginarlo, che quel giorno avrei scoperto un luogo – un luogo per nulla lontano da casa mia, ma che fino a quel momento non frequentavo – e che questa scoperta avrebbe avuto su di me un impatto così forte da condizionare il mio intero percorso da allora in avanti.
Quel giorno, la distesa silenziosa di quarzo bianco di Mari Ermi mi ha travolta, nelle sensazioni che ha evocato in me, al punto che attorno alla sua immagine avrei visto raccogliersi e intrecciarsi le idee che rimuginavo da tempo – quell’insieme allora sconnesso di suggestioni, riflessioni, eventi e personaggi per il romanzo che volevo scrivere. Mari Ermi ha cambiato tutto, ed è diventata il nucleo della mia storia. Perché, dopo aver interiorizzato quel pomeriggio, ho capito che proprio a Mari Ermi avrei ambientato l’evento più significativo per il percorso interiore dei miei protagonisti, la scena cardine, peraltro, di uno dei messaggi che intendo lanciare, il nostro bisogno di un rapporto intimo con la natura.
A questo punto, quale altro titolo avrebbe potuto avere il mio romanzo? Nessuno, e nemmeno mi sono mai posta la domanda: il titolo Mari Ermi mette ogni cosa al suo posto.

Come sono arrivata a Mari Ermi non ve lo racconto qui, né vi racconto com’era la spiaggia quel 1° agosto 2015, perché l’ho già fatto nel romanzo: la descrizione nel cap. 24 è la descrizione di Mari Ermi quel giorno, e le sensazioni sono quelle che la spiaggia ha trasmesso a me. Le ho affidate ad Ambra, il personaggio sul quale ho riflesso il mio sentimento nei confronti della natura, ma la verità è che quella descrizione esiste da ben prima del romanzo, perché io l’avevo scritta per me stessa, nella necessità di raccontare e fissare per sempre l’impatto profondo di quel luogo, di quella spiaggia selvaggia di quarzo bianco.

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Sulla necessità di staccare

Sembra scontato, ma di recente mi sono accorta che non lo è affatto: ci sono momenti in cui staccare dalla scrittura è necessario. Staccare completamente, intendo. Non staccare per un giorno o due (poi, certo, anche questo serve), ma per periodi interi, periodi prolungati.
Mi è capitato da poco, e voglio raccontarvelo.

Quaderni, penna, candela: che bello scrivere!
Quaderni, penna, candela: che bello scrivere!

Da settembre 2022 a maggio 2023 ho lavorato molto, davvero molto: impegnandomi a trovare una continuità che prima non avevo mai avuto, ho scritto poesie, articoli e racconti; ho editato, soprattutto, materiale in arretrato da tanto tempo. Poi, però, sono arrivata a giugno stanca. Stanca stanca. Me ne accorgevo quando mi dedicavo all’editing, soprattutto: tempo spropositato per risolvere cose semplici, parti di brani e di poesie che non riuscivo proprio a districare, senso di frustrazione ricorrente.
Quando ho iniziato a staccare, non l’ho fatto consapevolmente. Non mi sono detta: “Basta, stacco!”. Anzi, per un periodo mi sono pure intestardita. Poi, complici le due settimane in Normandia e Bretagna e il mese trascorso a casa, in Sardegna, è successo che ho staccato e basta. Così, semplicemente. Come dicevo, non l’ho deciso, ma da un giorno all’altro mi sono accorta che avevo smesso di lavorare: continuavo a dedicarmi solo alla scrittura libera, annotando pensieri e parole per lo più davanti al mare, ma senza andare oltre.

Ho smesso di lavorare per più di un mese e, quando ho ricominciato a settembre, quello che è successo mi ha sbalordita. Al momento, infatti, questo è stato il periodo più prolifico dell’anno, e non tanto per le ore dedicate alla scrittura (comunque molte: tre al giorno tutti i giorni), quanto per i risultati: le parole che vanno a posto quasi da sole, i pensieri che scorrono, gli incastri giusti in poco tempo e quelle giornate, sì, quelle giornate in cui ho chiuso la sessione con un rarissimo senso di soddisfazione (è incredibile, ma è successo davvero!). Non so quanto ancora durerà questa tendenza, ma ve l’ho raccontato per dirvi questo: quando siete stanchi, prendetevi una pausa. Quando ne avete bisogno, fermatevi. Staccate, senza sensi di colpa, anche per lunghi periodi. Perché serve. Eccome se serve!

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De viris et mulieribus consecratis Ilium di Elisabetta Buonavolontà

De viris et mulieribus consecratis IliumUomini e donne da Troia: è così che Elisabetta Buonavolontà ha intitolato il suo libro, e non riuscirei a immaginare titolo più azzeccato per questo splendido mosaico di personaggi ed episodi con cui l’autrice riscrive e rievoca l’èpos greco-latina classica.
Elisabetta Buonavolontà riscrive e rievoca, rievoca e riscrive, e lo fa con intelligenza e passione, con tutto l’impegno di ricerche approfondite, consapevoli, meticolose – impossibile non accorgersi dell’enorme lavoro dietro a ogni pagina – e con uno stile fluido, in cui l’epica risuona in continuazione e in cui il linguaggio, dall’uso di epiteti e patronimici alle similitudini che coinvolgono le divinità, sembra davvero un tuffo nella grande letteratura classica.

De viris et mulieribus consecratis Ilium di Elisabetta Buonavolontà.
De viris et mulieribus consecratis Ilium di Elisabetta Buonavolontà.

Il libro di Buonavolontà unisce e raggiunge due grandi obbiettivi: una riscrittura originale dell’Iliade e dell’Eneide che segua il filo conduttore dell’amore tra Enea e Creusa – amore che si rivela anche chiave di lettura dell’intero romanzo – e al tempo stesso la fedeltà a episodi e storie che chi conosce i poemi ha piacere di ritrovare (anche con una certa linearità), percependo questo romanzo al tempo stesso nuovo e familiare.
Romanzo che comunque può funzionare bene anche come primo approccio per chi di epica classica è digiuno, e ciò non solo grazie agli eventi e ai personaggi che lo popolano, ma anche per la presenza di diversi tópoi che l’autrice ripropone con consapevolezza: le scene di caccia, la ritualità (vedi il taglio dei capelli prima del matrimonio), il peculiare trattamento delle divinità e tanti altri elementi imprescindibili a dare credibilità a un racconto epico di questo genere, senza contare poi le storie nella storia, i miti che vengono rievocati da alcuni personaggi, dalla voce narrante o attraverso i dialoghi.

Ma la grande forza di questo libro è proprio la rilettura che l’autrice dà all’intera storia. I personaggi di Enea e di Creusa, la loro ferma morale, le loro insicurezze personali, le loro difficoltà in famiglia e soprattutto quella grande storia d’amore che si sviluppa e si evolve sullo sfondo di un disegno divino, di un fato che è difficile ignorare e rispetto al quale li vediamo agire, evolversi, scegliere, soffrire e ancora amare.
E qui torno a Creusa: Creusa, Creusa soprattutto, generosa e forte, ribelle e passionale, alla ricerca della giustizia e mai della vendetta, narratrice di storie, inquieta e indomita, capace come nessun altro di accettare un fato ingiusto, capace come nessun altro di amare e di sacrificare se stessa per il futuro di un marito e di un figlio e nel nome di una prospettiva più ampia, di una prospettiva più alta.
Per questo, più di tutto il resto, vorrei ringraziare Elisabetta Buonavolontà: per aver reso giustizia a un personaggio trascurato e poco noto come quello di Creusa, per averle dato vita e per averle dato luce, perché Creusa davvero splende nelle sue pagine e dopo aver letto di lei in questo modo, veramente, mi sarà difficile smettere di pensarci.

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Che libro immenso L’isola di Arturo

La mia edizione de L'isola di Arturo. 
Foto scattata nella primavera 2023.
La mia edizione de L’isola di Arturo.
Foto scattata nella primavera 2023.

L’infanzia e l’adolescenza di un ragazzo nato e cresciuto a Procida: i sogni, la solitudine, la scoperta dei sentimenti, le illusioni e le disillusioni.
E poi la forza e la magia del linguaggio che racconta tutto questo.
E poi l’immaginazione, perché per me L’isola di Arturo è stato prima di tutto e soprattutto un romanzo sul potere immenso dell’immaginazione umana.

Potere immenso. Romanzo immenso. Lettura immensa.


“Certe sere, dopo cena, attirato dalla frescura di fuori, mi stendevo sullo scalino della soglia, o sul terreno dello spiazzo. La notte, che un’ora prima, giù in piano, m’era apparsa così proterva, qua, a un passo dalla porta-finestra illuminata, mi ridiventava familiare. Adesso il firmamento, a guardarlo, mi diventava un grande oceano, sparso d’innumerevoli isole, e, fra le stelle, ricercavo aguzzando lo sguardo quelle di cui conoscevo i nomi: Arturo, prima di tutte le altre, e poi le Orse, Marte, le Pleiadi, Castore e Polluce, Cassiopea… Avevo sempre rimpianto che, ai tempi moderni, non ci fosse più sulla terra qualche limite vietato, come per gli antichi le Colonne d’Ercole, perché mi sarebbe piaciuto di oltrepassarlo io per primo, sfidando il divieto con la mia audacia; e allo stesso modo, adesso, guardando lo stellato, invidiavo i futuri pionieri che potranno arrivare fino agli astri. Era umiliante vedere il cielo e pensare: là ci sono tanti altri paesaggi, altre iridi di colori, forse tanti altri mari di chi sa quali colori, altre foreste più grandi che ai Tropici, altre forme di animali ferocissime e allegre, più amorose ancora di queste che vediamo… altri esseri femminili stupendi che dormono… altri eroi bellissimi… altri fedeli… e io non posso arrivare là! Allora, i miei occhi e i miei pensieri lasciavano il cielo con dispetto, riandando a posarsi sul mare, il quale, appena io lo riguardavo, palpitava verso di me, come un innamorato. Là disteso, nero e pieno di lusinghe, esso mi ripeteva che anche lui, non meno dello stellato, era grande e fantastico, e possedeva territori che non si potevano contare, diversi uno dall’altro, come centomila pianeti! Presto, ormai, per me, incomincerebbe finalmente l’età desiderata in cui non sarei più un ragazzino, ma un uomo; e lui, il mare, simile a un compagno che finora aveva sempre giocato assieme a me e s’era fatto grande assieme a me, mi porterebbe via con lui a conoscere gli oceani, e tutte le altre terre, e tutta la vita!”  (p. 180 Ed. Einaudi)

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De L’isola di Arturo ho parlato anche qui. 😉

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La natura di Mari Ermi, la natura in Mari Ermi

Sta proprio bene Mari Ermi vicino alle anemoni stellate!
Sta proprio bene Mari Ermi vicino alle anemoni stellate!

La natura. È lei la vera, grande protagonista di Mari Ermi. Lei, la natura sarda.
Lei con i suoi campi colti e incolti, con agrumeti, zagare e colori accesi, con ruscelli e animali, con spiagge selvagge di quarzo bianco, cieli stellati senza confini, notti silenziose piene di mistero.

Ci credo molto, e ho voluto trasmetterlo in questo libro: abbiamo profonda necessità di un contatto intimo con la natura. Perché a lei, alla natura, ho sempre attribuito un potere benefico immenso: osservarla e viverla ci consente di distaccarci dalle situazioni di stress, ci fa riscoprire la nostra predisposizione a meravigliarci, ci ricorda quanto siano belle le piccole cose e, soprattutto, in un mondo in cui spesso ci troviamo a correre da una parte all’altra, ci insegna a stare con noi stessi, offrendoci lo spazio per riflettere e per ascoltarci e aiutandoci a incontrare la nostra parte più intima.

È proprio questo che succede ai miei personaggi. Antonio e Ambra, infatti, riscoprono le loro coscienze proprio grazie al contatto con la natura. Le riscoprono attraverso corse sconfinate, i piedi nudi dentro un ruscello, l’incanto pacato dei colori e dei profumi di un agrumeto, il vento respirato a pieni polmoni, l’incontro vibrante con una spiaggia di quarzo bianco, l’emozione di un cielo notturno che palpita di stelle e misteri.

Mi è impossibile spiegare quanto abbia lavorato sulle parti in cui la natura è in primo piano. Le ore, i pomeriggi, le giornate passate a riflettere su singole parole, a scegliere quell’aggettivo, quel nome, quel verbo più adatto, a soppesare virgole e punti. E quasi mi commuovo a ripensare adesso al tempo che ci ho dedicato. Chi ha letto Mari Ermi sa che le mie sono “descrizioni emotive”, sa che ho raccontato i luoghi attraverso i sentimenti, attraverso le emozioni che trasmettono, le suggestioni che suscitano nei miei personaggi.
E volevo sapeste anche questo: ogni volta che qualcuno apprezza queste parti, ogni volta che qualcuno si emoziona nel leggerle, per me è la cosa più bella del mondo.

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Resina

Un pino, i suoi rami e il suo verde.

Il lavoro di Elena Cangiamila nel suo Chi ha paura della pagina bianca mi è sempre piaciuto. Lo seguivo già da un bel po’ quando, nel maggio dell’anno scorso, Elena ha lanciato l’idea di un gruppo di scrittura estivo: due esercizi e due incontri online al mese, con lo scopo primario di non adagiarsi nella stagione calda.
Il lancio di questa iniziativa ha coinciso col momento in cui, complice la pubblicazione di Mari Ermi e l’inizio di una nuova fase nel mio percorso con la scrittura, sentivo il bisogno di lavorare sul serio sulla disciplina. Insomma, Resina è arrivato al momento giusto e mi sono buttata!

Vi chiederete perché ve ne sto parlando. Beh, perché Resina alla fine non è stato solo un gruppo di scrittura estivo. Resina è stata un’esperienza talmente bella che molti di noi hanno chiesto a Elena di continuare in autunno e in inverno, e poi ancora, di nuovo, in primavera.
Tre giorni fa ho realizzato che dalla mia iscrizione a Resina è passato un anno e che non avevo mai parlato qui di questa esperienza. Che dire, non ci ho pensato due volte a mettere da parte l’argomento a cui all’inizio intendevo dedicare la rubrica di maggio: un anno è un anno, e quale migliore occasione per ringraziare Elena e tutte le persone che hanno reso e continuano a rendere questa avventura così bella?! Così formativa, divertente, piacevole.

E allora grazie a Elena, per gli esercizi così stimolanti – spesso vere e proprie sfide che mi hanno costretta a mettermi in gioco, a cimentarmi coi miei limiti – e naturalmente per la pazienza e per le analisi ricche di consigli utili.
E grazie a tutti voi che avete reso e continuate a rendere questa un’esperienza unica, perché la cifra di Resina è proprio la condivisione e il confronto con gli altri. È rendersi conto di quante cose diverse possano venir fuori dalla stessa consegna. Imparare a conoscere, piano piano, lo stile di ognuno e osservarne l’evoluzione. Veder nascere storie e personaggi. Apprendere dai propri errori e dagli errori dei compagni. Scambiarsi pareri e consigli sul gruppo. Accorgersi, soprattutto, della nascita di rapporti veri, vere e proprie amicizie.
Grazie, ragazzi. Vi voglio bene!

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Il Buk Festival di Modena e tante emozioni indimenticabili

Io e Mari Ermi allo stand Edizioni Convalle al Buk Festival 2023. 
Che emozione!
Io e Mari Ermi allo stand Edizioni Convalle al Buk Festival 2023. Che emozione!

Gratitudine e felicità. Comincio così, con queste due parole, perché per raccontare il Buk Festival di Modena ho bisogno di mettere ordine tra le mie emozioni, e il primo passo, senza dubbio, è dare un nome a quelle che porterò sempre con me dopo un fine settimana del genere.

Intenso, vivace, travolgente.
Bellissimo. È stato bellissimo, questo fine settimana del 6 e 7 maggio. È stato, semplicemente, tante cose che l’hanno reso indimenticabile.

Il contesto, prima di tutto. La cornice deliziosa di un chiostro, uno splendido leccio al centro con la sua ombra ampia sotto il cielo azzurro, l’aria fresca e la brezza piacevole; la serenità e il gioco di squadra che respiravo ogni momento al nostro stand, tra sorrisi, chiacchiere, battute e risate; il mio quarto incontro con le due anime di Edizioni Convalle, Stefania e Giuseppe, entrambi – ognuno a proprio modo – un concentrato di forza e dolcezza; Matteo, naturalmente, perché mi ha accompagnato in questa avventura e per il modo in cui mi illuminava ogni volta che lo vedevo tornare allo stand.

E poi le persone e quindi il dialogo, la possibilità di condividere, il motivo per cui da un anno a questa parte ho scoperto di amare così tanto le fiere: adoro i nuovi incontri e le chiacchierate, adoro raccontare della mia scrittura e del mio romanzo a chi è curioso di ascoltarmi. E le persone, dicevo, le persone, a cui le dimensioni contenute del Buk Festival hanno permesso, peraltro, di esplorare gli stand con tranquillità, erano aperte, sorridenti, interessate. Sono davvero grata alle tante di loro che hanno avuto il piacere di ascoltarmi, alle tante che poi hanno deciso di dare fiducia a Mari Ermi.

Quanto amo scrivere le dediche!
Quanto amo scrivere le dediche!

E poi c’è lei, la mia passione per la scrittura. È stata lei la grande protagonista, perché a questi eventi mi rendo conto di quanto io sia disposta a dare, per lei e solo per lei. Me l’hanno fatto capire tante cose, anche stavolta. La gola sempre secca, i capelli spettinati, le piante dei piedi doloranti, i pranzi in quei venti minuti rubati, la felicità di sentire quel vortice di entusiasmo e fatica, quel vortice che mi trascina ingovernabile, che non posso fare a meno di animare e assecondare con tutta me stessa e dal quale mi è difficile uscire. Ed è quando arrivi a sera disfatta, con la testa che ti gira e stavolta – sì, questo ancora non mi era successo – anche le labbra gonfie e screpolate perché è tutto il giorno che parli del romanzo e in realtà non ce la fai più, ma al tempo stesso non puoi fare a meno di continuare, perché potrebbe esserci ancora un’altra persona disponibile ad ascoltarti, curiosa di scoprire la tua storia, e tu sei decisa ancora una volta a impegnarti con tutta te stessa per raccontare ancora un’altra volta del tuo libro… Ecco, è in giornate così che capisci quanto sei disposta a dare per questa cosa bellissima che si chiama scrittura.
E l’incredulità e la gioia di domenica pomeriggio, quando l’ultimo libro rimasto ha lasciato lo stand, sono emozioni immense che porterò sempre con me, come la passeggiata spensierata che ho fatto a Modena quella sera con Matteo.

Questo mese Mari Ermi compie un anno, e permetterci di vivere questa fiera è stato il regalo più bello che la mia casa editrice potesse farci.

Se hai piacere di vedere altri scatti di queste giornate, visita la galleria fotografica dedicata a Mari Ermi cliccando qui. 😉

La mia editrice ha commentato l’esperienza a questa fiera nella primissima parte di una diretta sulla pagina Facebook di Edizioni Convalle (minuti 0.00-14-00): se ti interessa sentire le sue parole, puoi cliccare qui. 😉

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Canne al vento e il palpito del sentimento umano in una scrittura dalla forza ancestrale

La mia edizione di Canne al vento.
Foto scattata nella primavera 2023.
La mia edizione di Canne al vento.
Foto scattata nella primavera 2023.

Misteri di silenzi lunari, di folletti e fantasmi notturni che soffiano nel vento, di canne che mormorano, di erba che pare ondulare seguendo il motivo di una fisarmonica.
Misteri che in un mondo caldo e disfatto – in un mondo laconico, pieno di solitudine e d’oblio – sembrano incorniciare gli occhi nostalgici di personaggi vividi, intensi e desolati, inseriti in una calma morsa di miseria e rimpianto, di colpe e pentimenti, di orgoglio, di vergogna e di pietà.
È un mondo dove profumi evocano ricordi, come succede a Noemi in primavera, quando una “malattia di languore”, “il male del ricordo”, sembra riportare i suoi occhi “liquidi e freddi come un’acqua profonda” su un remoto belvedere, davanti a quella “festa della vita” a cui non riesce a unirsi e di cui tuttavia rimane in lei un sogno latente, insieme a una sete d’amore che le fa sentire dentro “tutto il grigio e tutto il rosso” e al contempo un “violento bisogno di solitudine”.
È un mondo dove un poderetto può essere un rifugio ma anche una prova di espiazione, come nel caso di Efix, che guarda alla sua collina con “tenerezza d’amante” – Efix, che ha sempre vissuto “sull’orlo d’una strada metà percorsa metà da percorrere”; Efix, che si porta dietro segreti che pesano come macigni.
È un mondo in cui nella ritualità e nel sentimento religioso è spesso labile il confine tra un personaggio e un popolo intero, anche attraverso suggestioni misteriose in mano al potere della natura. Succede, ad esempio, durante i canti in chiesa, quando l’estasi dolorosa di Efix è accostata alla luce rossa del tramonto che come un velo di sangue copre la folla, mentre migliaia di voci salgono in una sola, fondendosi come il profumo dei cespugli; succede, ancora, quando nel riso e nel pianto di singoli personaggi “il riso e il pianto di tutto il mondo” sembra unificarsi tremando e vibrando nelle note di un usignolo; e succede, ancora, quando le preghiere di dolore e speranza si perdono nel lamento remoto della natura o vibrano “lontano, al di là del tempo”.
E la speranza non manca mai, come l’attesa di “un essere misterioso, salvatore e vendicatore assieme”, attesa che riecheggia in quella figura del Redentore che ferma il suo volo sulla roccia più alta e che con la sua croce sembra unire il cielo azzurro alla terra grigia. Non manca mai, neanche, la fiducia nella “forza sovrannaturale” che spinge la mano dell’uomo, fiducia tangibile, ad esempio, nel significato che Efix attribuisce all’improvviso deviare di un raggio di sole sul suo volto. Eriguarda proprio Efix, peraltro, una delle immagini più belle di speranza, la potente e toccante similitudine per la quale “le sue stesse lagrime lo illuminavano, gli splendevano intorno come stelle”.
Alla speranza, infine, partecipa spesso anche la natura, facendosi soave laddove prima era stata cupa, e colpendoci ed emozionandoci per la sua plurivalenza, per la sua capacità di riflettere l’ampio ventaglio di stati d’animo dei personaggi. E allora il mondo può essere agitato “da una convulsione di tristezza e di terrore” oppure, mentre “una grande luna di rame sorge dal mare”, può sembrare “d’oro e di perla”, o ancora ammucchiare “a cataste sull’orizzonte tutto l’argento delle miniere del mondo”. E allora i monti possono assomigliare a vulcani e incombere “con forme fantastiche di muraglie, di castelli, di tombe ciclopiche”, oppure possono apparire come “i petali di un immenso fiore aperto al mattino”, sembrare “fatti di marmo e d’aria”. E, ancora, le nuvole possono somigliare a “torrenti di lava, colonne di fumo”, ma essere anche “bianche e tenere come veli di donna”, mentre la luna può “splendere azzurrognola sul rudero della torre come una fiamma su un candelabro nero”, ma può anche “sbocciare come una grande rosa fra i cespugli della collina”. E, infine, il fiume può avere un mormorio “monotono come quello di un bambino che s’addormenta”, oppure “palpitare come il sangue della valle addormentata”, facendosi portavoce di quel palpito del sentimento umano che risuona così bene in questa scrittura dalla forza ancestrale, in questo pathos che ci fa tremare e immaginare e che riecheggia in noi come il suono di quelle canne che sembrano sospirare, parlare e lottare spinte dal vento. 

***

Ho trascritto qui sotto una serie di passi che mi hanno colpito particolarmente e che credo risultino rappresentativi della bellezza, della forza e del pathos della scrittura di Grazia Deledda.
Ho raccolto i passi sotto alcune parole chiave; le pagine si riferiscono all’edizione di Canne al vento BUR Rizzoli 2008.

Natura, paesaggi, atmosfere

“E Dio prometteva una buona annata, o per lo meno faceva ricoprir di fiori tutti i mandorli e i peschi della valle; e questa, fra due file di colline bianche, con lontananze cerule di monti ad occidente e di mare ad oriente, coperta di vegetazione primaverile, d’acque, di macchie, di fiori, dava l’idea di una culla gonfia di veli verdi, di nastri azzurri, col mormorio del fiume monotono come quello di un bambino che s’addormenta.” (p. 27)

“A quell’ora, mentre la luna sbocciava come una grande rosa fra i cespugli della collina e le euforbie odoravano lungo il fiume, anche le padrone di Efix pregavano […]” (p. 28)

“[…] giunchi argentei lucenti alla luna come fili d’acqua.” (p. 28)

“Fra una canna e l’altra sopra la collina le nuvole di maggio passavano bianche e tenere come veli di donna; egli guardava il cielo d’un azzurro struggente e gli pareva d’esser coricato su un bel letto dalle coltri di seta.” (p. 73)

“Di là vedeva l’erba alta ondulare quasi seguendo il motivo monotono della fisarmonica, e i cavalli immobili al sole come dipinti sullo smalto azzurro dell’orizzonte.” (p. 86)

“Qualche figura di pescatore si disegnava immobile come dipinta in doppio sul verde della riva e sul verde dell’acqua stagnante fra i ciottoli bianchi.” (p. 101)

“[…] l’aurora pareva sorgere dalla valle come un fumo rosso inondando le cime fantastiche dell’orizzonte. Monti Corrasi, monte Uddé, Bella Vista, Sa Bardia, Santo Juanne, monte Nou sorgevano dalla conca luminosa come i petali di un immenso fiore aperto al mattino; e il cielo stesso pareva curvarsi pallido e commosso su tanta bellezza.” (pp. 128-129)

“Il villaggio bianco sotto i monti azzurri e chiari come fatti di marmo e d’aria, ardeva come una cava di calce […]” (p. 130)

“[…] e le rondini passavano incessantemente in giro, sopra le loro teste, come una ghirlanda mobile di fiori neri, di piccole croci nere.” (p. 152)

“[…] il vento infuriava sempre più e le nuvole salivano e scendevano dall’Orthobene, giù e su come torrenti di lava, come colonne di fumo, spandendosi su tutta la valle: ma sopra le alture di Nuoro una striscia di cielo rimaneva di un azzurro triste di lapislazzuli e la luna nuova tramontava rosea fra due rupi.” (p. 167)

“[…] nella sera nuvolosa, i monti del Gennargentu incombevano con forme fantastiche di muraglie, di castelli, di tombe ciclopiche, di città argentee, di boschi azzurri coperti di nebbia […]” (p. 176)

“Il vento passava impetuoso, ma sul tardi il sole apparve fra le nubi squarciandole e respingendole fino all’orizzonte, e tutto brillò attorno ai monti e alle valli ove la nebbia si raccolse in laghi argentei luminosi.” (p 182).

“[…] le montagne davanti e in fondo alla valle parevano vulcani; nuvole di fumo solcate da pallide fiamme e poi getti di lava azzurrognola e colonne di fuoco salivano laggiù.
Verso sera il cielo si schiariva, tutto l’argento delle miniere del mondo s’ammucchiava a blocchi, a cataste sull’orizzonte […]” (p. 203)

“Nel silenzio il torrente palpitava come il sangue della valle addormentata.” (p. 204)

Suggestioni

“La luna saliva davanti a lui, e le voci della sera avvertivano l’uomo che la sua giornata era finita. Era il grido cadenzato del cuculo, il zirlio dei grilli precoci, qualche gemito d’uccello; era il sospiro delle canne e la voce sempre più chiara del fiume: ma era soprattutto un soffio, un ansito misterioso che pareva uscire dalla terra stessa: si, la giornata dell’uomo lavoratore era finita, ma cominciava la vita fantastica dei folletti, delle fate, degli spiriti erranti. I fantasmi degli antichi Baroni scendevano dalle rovine del castello sopra il paese di Galte, su, all’orizzonte a sinistra di Efix, e percorrevano le sponde del fiume alla caccia dei cinghiali e delle volpi: le loro armi scintillavano in mezzo ai bassi ontani della riva, e l’abbaiar fioco dei cani in lontananza indicava il loro passaggio.” (pp. 28-29)

“[…] e tutto il paesaggio che pochi momenti prima pareva si fosse addormentato fra il mormorio di preghiera delle voci notturne, fu pieno di echi e di fremiti quasi si svegliasse di soprassalto.” (p. 30)

“L’euforbia odorava intorno, la luna azzurrognola splendeva sul rudero della torre come una fiamma su un candelabro nero, e pareva che in quell’angolo di mondo morto non dovesse più spuntare il giorno.” (p. 113)

“Sulla lucerna nera la fiammella azzurrognola immobile pareva la luna sul rudero della torre.” (p. 115)

“Dal buco del tetto pioveva come da un imbuto capovolto un raggio dorato […] Efix guardava come dal fondo di un pozzo quel punto alto lontano; ma d’improvviso gli parve che il raggio deviasse, piovesse su di lui, illuminandolo.” (p. 157)

“[…] e il Redentore ferma il volo sulla roccia più alta, con la croce che sbatte le sue braccia nere sul pallore dorato del cielo.
Ed Efix s’inginocchia ma non prega, non può pregare, ha dimenticato le parole; ma i suoi occhi, le mani tremanti, tutto il suo corpo agitato dalla febbre è una preghiera.” (p. 158)

“E l’ombra si addensava rapida; ogni nuvola passando sul vicino orizzonte lasciava un velo, il vento urlava dietro la chiesa, tutte le macchie tremavano protendendosi in là verso la valle, e pareva volessero fuggire, luminose d’un verde metallico, agitate da una convulsione di tristezza e di terrore.” (p. 166)

“[…] il riso e il pianto di Grixenda, il riso e il pianto di Noemi, il riso e il pianto di lui, Efix, il riso e il pianto di tutto il mondo, tremavano e vibravano nelle note dell’usignuolo sopra l’albero solitario che pareva più alto dei monti, con la cima rasente al cielo e la punta dell’ultima foglia ficcata dentro una stella.” (p. 174)

Odori e ricordi

“Quel giorno Noemi aveva come il male del ricordo: la lontananza delle sorelle e un’istintiva paura della solitudine la riconducevano al passato. Lo stesso chiarore aranciato del crepuscolo, il Monte coperto di veli violetti, l’odore della sera, tutto le ridestava l’anima di vent’anni prima.” (p. 58)

“Si sentiva l’odore degli ontani e del puleggio; tutto era caduto in un silenzio tremulo come dentro un’acqua corrente. Ed Efix ricordava le sere lontane, il ballo, i canti notturni, donna Lia seduta sulla pietra all’angolo del cortile, piegata su se stessa come una giovine prigioniera che rode i lacci e piano piano si prepara alla fuga.” (p. 76)

Noemi

“Tutti gli anni la primavera le dava questo senso di inquietudine: i sogni della vita rifiorivano in lei […] Le par d’essere ancora fanciulla, arrampicata sul belvedere del prete, in una sera di maggio. Una grande luna di rame sorge dal mare, e tutto il mondo pare d’oro e di perla. […] No, ella non ballava, non rideva, ma le bastava veder la gente a divertirsi perché sperava di poter anche lei prender parte alla festa della vita. […] (pp. 54-55)

“Allora Noemi si mise a ridere, ma sentì le ginocchia tremarle e sentì nel cuore la bellezza luminosa del tramonto: era un mare di luce sparso d’isole d’oro, con un miraggio in fondo. Ella non aveva mai provato un attimo di ebbrezza simile.” (p. 119)

“E come i bambini ed i vecchi si mise a piangere senza sapere il perché – di dolore ch’era gioia, di gioia ch’era dolore.” (p. 121)

“[…] e Noemi sentiva anche lei, fin là dentro, fin contro la grata che esalava un odor di ruggine e di alito umano, un tremito di vita, un desiderio di morte, un’angoscia di passione, uno struggimento di umiliazione, tutti gli affanni, i rimpianti, il rancore e l’ansito della peccatrice d’amore.” (p. 146)

Canne al vento

“[…] star vigili come le canne sopra il ciglione che ad ogni soffio di vento si battono l’una contro l’altra le foglie come per avvertirsi del pericolo.” (p. 28)

“Fuori le canne del ciglione frusciavano con tale violenza che pareva combattessero una battaglia.
All’alba, uscendo dalla capanna Efix infatti ne vide centinaia pendere spezzate, con le lunghe foglie sparse per terra come spade rotte. E le superstiti, un poco sfrondate anch’esse, pareva si curvassero a guardare le compagne morte, accarezzandole con le loro foglie ferite.” (pp. 189-190)

“Perché la sorte ci stronca così, come canne?”
“Sì, egli disse allora, siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne, e la sorte è il vento.” (p. 199)

Espiazione

“Sentiva ancora le monete dei giovani nuoresi percuotergli il petto e trasaliva tutto come lo lapidassero; ma era un brivido di gioia, era la voluttà del martirio.” (p. 174)

Sentimento religioso, colpa, preghiera, speranza

“Anche la preghiera aveva una risonanza lenta e monotona che pareva vibrasse lontano, al di là del tempo […]” (p. 45)

“[…] migliaia di voci salirono in una sola, fondendosi come fuori si fondevano i profumi dei cespugli; Efix inginocchiato in un angolo, provava la solita estasi dolorosa […] La luce rossa del crepuscolo, vinta verso l’altare dal chiaror dei ceri, copriva la folla come di un velo di sangue […]” (pp. 86-87)

“[…] e anche adesso gli pareva che tutto il sangue gli uscisse dagli occhi; tutto il sangue cattivo, il sangue del peccato. Il suo corpo ne rimaneva esausto, e l’anima vi si sbatteva dentro, in uno spazio vuoto e nero come la notte; ma le parole d’amore di Giacinto balenavano lucenti sullo sfondo tenebroso, e le sue stesse lagrime lo illuminavano, gli spendevano intorno come stelle.” (pp. 163-164)

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Di luci e ombre, stagioni e petricore

Uno scorcio della mia scrivania e del mio ambiente ideale di scrittura.
Uno scorcio della mia scrivania e del mio ambiente ideale di scrittura.

C’è un tipo di intimità che riguarda me, la mia scrittura e il mondo attorno. Che mette in relazione me e la mia scrittura con luci e ombre, ambienti, umori, stagioni. È un tipo di intimità che sento di vivere profondamente e che ho costante bisogno di esplorare, indagare, capire.

Ne fanno parte, anzitutto, due verità valide sempre, in qualsiasi periodo e momento dell’anno.
Non mi piace scrivere con la luce forte, con il sole in faccia, col chiasso, nella confusione.
Sono amica del buio, delle penombre, delle candele accese, del silenzio.

Ne fa parte, poi, il modo personalissimo che ogni stagione ha di conciliare la mia scrittura.
In autunno e in inverno è il pomeriggio, ammorbidito del calore di un plaid e di un tè, a custodire una tranquillità pregnante di carta e penna.
In primavera l’ispirazione sembra in mano alle mattine, così colme di spontanea energia, così vivaci a far guizzare le parole insieme alla nuova carica, placida e radiosa, della natura.
In estate mi piace attendere la sera, quando il sole è calato e la finestra aperta sulla brezza, e amo soprattutto quelle notti, lente e un po’ misteriose, piene di pace, di stelle e di canti di cicale.

Su tutto, però, vince sempre la pioggia.
La pioggia è in grado di evocare in me l’ispirazione come nient’altro al mondo. Con lei io posso scrivere in qualunque momento, a qualsiasi ora del giorno e della notte. Con lei prendere penna e quaderno è necessità vitale.
Amo le finestre aperte su piogge silenziose e costanti, adoro le gocce di rovesci che picchiano sui vetri chiusi, vado matta per i temporali estivi – il cielo che si riempie di nuvole grigie, la carica emozionale dei tuoni e dell’acqua in arrivo – quanto per i risvegli in cui il mattino mi pervade di brioso petricore. È una cosa straordinaria, il petricore, un semplice odore che riesce a infondermi un senso di rinascita e di pace col mondo, di freschezza e di quieta vitalità: per questo, credo, desta in me una necessità di scrivere preziosa, pura, impagabile.

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