Libri del cuore
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In lettura
“Lei era così, rompeva equilibri solo per vedere in quale altro modo poteva ricomporli.”
Il dubbio di un amore non corrisposto e il bisogno disperato di una verità conduce Milton, il giovane protagonista di questo libro, a una ricerca tutta personale che si incastra tra le manovre e le azioni della sua vita di partigiano: è così che una questione privata, una cosa di nessuna rilevanza rispetto alla situazione sconvolgente che le fa da contesto, acquista un’importanza vitale – ed è impossibile, allora, non riflettere sul rapporto tra individuale e collettivo, come è impossibile non apprezzare la struttura geniale del romanzo, in cui ricerca produce altra ricerca e altra ricerca ancora, sullo sfondo di un’ambientazione – quella delle Langhe – che sembra parlare, con la nebbia e il fango come grandi protagonisti, grazie anche al linguaggio puntuale, perfetto, in grado di colpire nel profondo.
Il mistery di Joan Lindsay, che ruota attorno alla scomparsa di tre studentesse e di un’insegnante di un prestigioso collegio vittoriano sul gruppo roccioso Hanging Rock (Australia) nel 1900, mi ha lasciato perplessa quanto sorpresa: mentre la trama non è riuscita a coinvolgermi sul serio (mi è sembrata perdere un po’ il focus dopo la metà, dilungandosi sulle vicende dei personaggi secondari che hanno, alla fin fine, poco a che fare con l’accaduto), ho trovato piuttosto intrigante la compresenza di idilliaco e perturbante in molti elementi (naturali e non) e soprattutto ho apprezzato lo stile, che con continue punte di humor smorza il carattere sinistro, inquietante e mistico della vicenda, creando effetti di contrasto molto originali.
La Parigi di Hemingway è intima, avvolgente e intensa come queste pagine sono vivide, nostalgiche, autentiche, fluttuanti. Festa mobile è un libro pieno di vita e di malinconia insieme. Tracimante di amore per l’arte, per la scrittura, per un luogo che è un pezzo di giovinezza. Tracimante di voglia di vivere, e di amare, e di scrivere. È un’auto-incursione intima, dolce, in qualche modo sconvolgente. Un documento imperfetto ma ineguagliabile di un pezzo di vita. Un tributo puro e autentico all’importanza della memoria, che all’ultima pagina mi ha travolto in tutta la sua portata, e mi ha commossa nel profondo.
[Di Festa mobile ho parlato qui]
Ambientato nell’Abruzzo degli anni Settanta, L’Arminuta è una storia che parla di adattamento, di solitudine, di rapporto(i) madre-figlia e di appartenenza.
Ho apprezzato molto il modo in cui la sensibilità di Donatella Di Pietrantonio emerge anche attraverso uno stile asciutto, a tratti aspro; in merito alla trama, invece, è il legame che si crea tra la protagonista e la sorella minore Adriana – quest’ultimo il personaggio meglio scritto, il più vivido, il più in grado di fare breccia – l’aspetto che mi ha coinvolto maggiormente.
Un romanzo di formazione – ma anche, in misura minore, un giallo – ambientato nel secondo Novecento nelle paludi costiere della Carolina del Nord, dove la giovanissima Kya, abbandonata dai suoi cari, diventa protagonista di una storia che parla di solitudine, di sopravvivenza e del concetto di famiglia.
Rispetto alla trama e alla caratterizzazione dei personaggi è un libro non privo di difetti – in certi momenti ho pensato che Owens non avesse chiari i suoi stessi intenti – ma le descrizioni della palude, della relativa vegetazione e della vita animale al suo interno, come anche quelle del mare e della fauna marina, sono magnifiche, vivide, piene di colore e di atmosfera, e ho trovato magnifico, soprattutto, il modo in cui l’autrice tratta il rapporto di comunione tra la protagonista e la natura.
Breve e assai intenso questo romanzo che Grazia Deledda costruisce sullo sfondo di un duplice decadimento – della nobiltà sarda e della società del paese di Barunèi all’inizio del XX secolo – rendendo la tragica vicenda di Annesa punto di partenza per una riflessione su devozione e attaccamento e per un’indagine sulle idee di colpa e di peccato, misurando la distanza tra pentimento ed espiazione ed esplorando il rapporto tra religione e fede, mentre il paesaggio sembra parlare e il suo sentimento compenetrarsi con gli stati interiori dei personaggi, in un gioco di simbologie continuo e potente e in una fusione quasi mistica tra scrittura e natura.
[De L'edera ho condiviso diversi estratti qui]
“Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto.”
Le riflessioni e le emozioni di una donna che si mette a nudo, un viaggio dall’Italia agli Stati Uniti, personaggi intensi e un finale potente sono gli ingredienti principali di questo lavoro sperimentale, semplice e profondo al contempo, che inizia come un diario per poi farsi romanzo breve, riuscendo a mettere in scena in poche pagine molti dei sentimenti, dei timori e delle gioie che toccano la vita di un essere umano, e conquistandoci anche e soprattutto per il ruolo suggestivo dell’elemento spirituale. Che bello leggere Stefania Convalle!
Un romanzo intenso, sincero, a tratti davvero duro, in cui una ragazzina si racconta – e ci racconta – la sua infanzia e la sua solitudine, in un tentativo consapevole di guarire da ferite recenti e profonde.
Semplice, diretto e coinvolgente, Ho contato fino a cento riesce a commuovere e a strappare sorrisi, arrivando dritto al cuore grazie alla voce della sua protagonista, alla quale è impossibile non voler bene fin dalla prima pagina.
Tre storie femminili si intrecciano e si incastrano attorno a un omicidio a Giverny – il comune francese noto grazie ai dipinti di Monet – in un racconto giallo che ha suscitato in me sensazioni contrastanti: l’ambientazione affascinante e suggestiva mi ha conquistata completamente, ma i personaggi mi hanno coinvolto poco, ho trovato molti eventi improbabili e diversi dialoghi tutt’altro che credibili. La storia, comunque, mi ha intrattenuta bene, e a tratti mi ha decisamente incuriosita.
Il problema vero, però, è il colpo di scena che precede il finale – colpo di scena che in un primo tempo mi ha sorpreso, salvo poi lasciarmi addosso un senso di irritazione: l’impressione che l’autore abbia giocato sporco facendo di tutto per depistare e fregare il lettore ha rovinato l’ammirazione che avrei provato in circostanze diverse per l’obiettiva originalità dell’idea di fondo.
Il miglior libro sull’infanzia che abbia mai letto.
E il libro che mi ha ricordato, anche, perché abbiamo bisogno delle grandi storie – perché abbiamo bisogno delle storie – e cosa è in grado di fare questo mondo meraviglioso che si chiama scrittura.
Grazie, Stephen King.
Una raccolta di storie, aneddoti, riflessioni e curiosità sugli Stati Uniti raggruppati in cinque sezioni, ognuna delle quali con un titolo-guida che ne rappresenta il macro-argomento: abbondanza, ingenuità, identità, violenza e frontiera.
Una lettura scorrevole che informa, coinvolge e intrattiene, e che forse ho apprezzato maggiormente nelle parti più lunghe, dove emergono le grandi capacità di Costa di raccontare e di argomentare.
Agendo attraverso canali segreti e indecifrabili, il destino lega le vicende delle giovani Anna e Maria in una storia di commovente salvezza reciproca – una storia che affronta il tema della violenza sulle donne in modo mai scontato e in cui assumono un ruolo di primo piano il sentimento religioso e l’elemento paranormale, mentre non mancano spunti che vanno dal rapporto madre-figlia a quello uomini-animali.
Un patto di sangue, i wandervogel, passeggiate in montagna, Kallmunz, i coniugi Bauer, l’amore per un nonno, falò rituali, neve, la solennità dei cimiteri, valichi, Hauptmann, statue di santi, il desiderio di una vita semplice, una porticina nascosta, confessioni in un hotel di Praga in un giorno di pioggia, la ricerca di una spiritualità, una luce che si accende… Nel secondo volume della sua saga ucronica, Paola Kovalsky alza il livello della scrittura, aumenta la posta in gioco per i personaggi, introduce nuove (magnifiche) ambientazioni e sceglie di portare in secondo piano la denuncia diretta all’ignoranza rassicurante (preponderante nel primo volume) per concentrarsi sull’approfondimento psicologico e sugli stati d’animo: Plateale appartenenza al genere umano è un romanzo introspettivo, di coscienza e di tormento, più che riuscito anche grazie al singolare accostamento, in molte parti, dell’angoscia interiore alle atmosfere pacate e, naturalmente, grazie alla scrittura sempre trascinante, sempre sincera.
“[…] che la terra, il paese, l’aria, che a ogni passo e a ogni respiro erano colmi di un odore diverso e quindi animati da un’identità diversa, potessero essere definiti soltanto da quelle tre grossolane parole, tutte queste disparità grottesche tra la ricchezza del mondo percepito con l’olfatto e la povertà del linguaggio facevano sì che il ragazzo Granouille dubitasse del senso del linguaggio in genere […]”
Una storia di genio e di solitudine, di ossessione e di ambizione tra le più originali e disturbanti che io conosca, e al contempo un viaggio tra gli odori della Francia del Settecento, da Parigi alla Provenza.
È perfetto per essere ascoltato, e Tommaso Ragno si conferma un interprete magistrale.
“Una vita sconosciuta si mostrava improvvisamente ai nostri occhi. Quelle trincee […] avevano poi finito con l'apparirci inanimate, come cose lugubri, inabitate da viventi, rifugio di fantasmi misteriosi e terribili. Ora si mostravano a noi, nella loro vera vita. Il nemico, il nemico, gli austriaci, gli austriaci!... Ecco il nemico ed ecco gli austriaci. Uomini e soldati come noi, fatti come noi, in uniforme come noi, che ora si muovevano, parlavano e prendevano il caffè, proprio come stavano facendo, dietro di noi, in quell'ora stessa, i nostri stessi compagni. Strana cosa. Un'idea simile non mi era mai venuta alla mente. Ora prendevano il caffè. Curioso! E perché non avrebbero dovuto prendere il caffè? Perché mai mi appariva straordinario che prendessero il caffè? E, verso le dieci o le undici, avrebbero anche consumato il rancio, esattamente come noi.”
La rappresentazione dell’Inghilterra del XIX secolo e soprattutto della Londra del malaffare, angusta e maleodorante; la descrizione dei malviventi, i veri protagonisti, vividi e indimenticabili insieme al contesto in cui si muovono; la denuncia sociale condotta con sferzante ironia; la leggerezza dello stile e l’evidente gusto narrativo, che rendono la storia estremamente godibile: risiede in questi elementi la grande forza di Oliver Twist, il primo romanzo sociale di Dickens, che mi ha coinvolto totalmente anche grazie all’interpretazione magistrale di Tommaso Ragno.
L’ho ascoltato quasi per caso e non ho mai smesso di stupirmi: adesso voglio recuperare tutto di Dickens!
Un racconto che procede per episodi e microepisodi, in una ricercata frammentarietà formale che riproduce perfettamente l’interiorità della protagonista Selin, una giovane e confusa studentessa ad Harvard, insieme alle vicende del tutto normali e al contempo uniche che la coinvolgono.
Due i fili conduttori: il rapporto complesso con un altro studente e, soprattutto, il tema del linguaggio e della difficoltà nella comunicazione, con vivaci spunti di riflessione ed elementi di gioco metaletterario.
Credo che L’idiota sia un romanzo originale ma soprattutto intimo e sincero, e l’ho trovato perfetto tanto per sessioni prolungate di lettura quanto per i ritagli di tempo.
“Provavo un gran bisogno di dirgli che ero circondata, sovrastata, da cose di significato sconosciuto o dubbio, cose che non erano in nessun modo commensurate a me.”
“[…] la clessidra non è tale senza la strozzatura centrale che ne determina la forma. In quella strettoia che rappresenta la concentrazione del tempo in un momento specifico, non importa se minuti, ore, giorni, Stefania costruisce gran parte del romanzo, gliel’ha chiesto il protagonista con il suo desiderio di avere del tempo in più.
È lì che accade tutto. […]”
Dalla prefazione di Silvana Da Roit.
A due anni di distanza dalla lettura di Benedizione, sono tornata tra le strade di Holt, l'immaginaria piccola città del Colorado nella quale Kent Haruf intreccia le vite semplici e meravigliose di persone comuni: in Canto della pianura troviamo un insegnante di storia, i suoi due figli bambini, una giovane ragazza incinta che viene cacciata di casa e due anziani fratelli allevatori.
Rispetto a Benedizione, il segno è completamente diverso – qui l’accento è posto sul cominciare della vita – e diverso è anche lo stile, che, forse in sintonia con l’umore di fondo, risulta più pieno, molto più poetico, a tratti lirico; eppure la voce di Haruf è inconfondibile nel tono pacato, nella gestione dei dialoghi, nella concretezza delle immagini, nelle atmosfere vivide e malinconiche e soprattutto nella straordinaria umanità che pervade il racconto: il risultato è una storia che coinvolge nell’intimo, che riesce a mostrare e a penetrare, che mette il lettore di fronte a scene d’impatto violento(mi riferisco alla crudezza e all’estrema precisione delle tre notevoli con protagonisti gli animali) quanto a situazioni in grado di suscitare la tenerezza più intensa (in questo senso ho amato tantissimo le due coppie di fratelli).
È una storia semplice e reale: mi è arrivata dritta al cuore, e mi ha profondamente emozionata.
Il Canto degli Eroi Dimenticati: La legge del ferro e del sangue è un romanzo corale di ambientazione medievale dall’intreccio complesso e ambizioso, come l’intero progetto di Alice von Tannenberg – progetto di cui questo volume costituisce il primo tassello.
Nell’incerta situazione creatasi all’interno del Sacro Romano Impero dopo Legnano (1176), i complotti, i giochi di potere e le faide segrete con al centro la Baviera stimolano un’indagine sul rapporto tra comando e obbedienza, tra giuramenti e azioni, tra vincoli di sangue e vincoli d’onore, tra rango e virtù spirituali, tra amicizia e rivalità.
Personaggi credibili e ben delineati, sentimenti scomodi, ambientazioni vivide e atmosfere evocative (stupende le scene nella natura) si uniscono a un equilibrio perfetto tra combattimenti e scene conviviali, tra assemblee e tornei, tra sequenze narrative, dialogiche e introspettive, mentre la scrittura, davvero curatissima, prende il volo e trasporta in un Medioevo dal fascino misterioso, che sembra quasi vibrare tra le pagine.
Piaciuto tantissimo!
Ambientato nei luoghi della vecchia Milano, il romanzo intreccia la storia di un’attrice alla ricerca di sé con quella del personaggio che sta interpretando, una cameriera dal passato doloroso.
Misteri da risolvere, silenzi, sentimenti confusi e il tocco romantico che l’autrice conferisce all’ambientazione rendono questa lettura coinvolgente ed enigmatica, con realtà e finzione che sembrano confondersi continuamente.
Costante ironia, tocchi noir e sviluppi sorprendenti caratterizzano questa raccolta di racconti che esplora l’amore – in particolare rispetto a storie dai risvolti drammatici e alle zone d’ombra dei rapporti umani – con assoluta originalità.
Mostrando gli eventi attraverso i pensieri, e procedendo per fluidi e continui slittamenti del punto di vista, “Al faro” si compie attraversando mente, cuore e immagine.
Attingendo alla fonte del ricordo e del recondito, Virginia Woolf si riversa in una scrittura bellissima e complessa, carica e intensa, che espande e contrae il tempo, che penetra le pieghe dello spazio, che concentra nel linguaggio il ritmo della vita, che scava le cose fino al midollo, che spinge toccanti ritratti di esperienze umane oltre le pagine, e abbracciando e sublimando la dimensione interiore, e muovendo al livello dell’infanzia, si fa evocazione, si fa assenza e si fa memoria, arrivando a mostrare e a celebrare il tormentato miracolo della creazione artistica.
Sono colpita, ammirata, destabilizzata, affascinata e scioccata da questa scrittura; sono disarmata e conquistata dalla profondità del pensiero, dalla capacità di toccare le viscere della vita, dalla sensibilità immensa dietro e dentro tutto questo.
Una storia vivace che si sviluppa tra il 1948 e il 1987 per la gran parte tra New York, dove abita la protagonista, giornalista televisiva sfinita dai ritmi frenetici del lavoro, ed Elmwood Springs, paesino del Missouri al quale risalgono le sue origini.
Gli ingredienti del libro (tra questi un mistero da risolvere, un passato doloroso in cui scavare, personaggi buffi e simpatici e tantissimi dialoghi), uniti al brio della scrittura, lo rendono perfetto per la primavera e, più in generale, per momenti in cui si ha bisogno di staccare pur senza allontanarsi da temi importanti, che Fannie Flagg accosta con toccante leggerezza e con pizzichi garbati di ironia – qui si parla, ad esempio, di malessere interiore, dei meccanismi malati dell’ambiente televisivo e di discriminazioni razziali.
Tra i messaggi la necessità di allentare i ritmi che ci fagocitano, il valore delle cose semplici della quotidianità, l’importanza dei legami di amicizia e dell’amore in senso più generale.
New York, inverno del 1949. La fuga da scuola del sedicenne Holden Caulfield e il breve vagabondaggio per Manhattan come tentativo di ribellione alle convenzioni e contraddizioni di una società nella quale il protagonista, personaggio bellissimo, incapace di accettare l’ipocrisia che percepisce attorno a sé e di scendere a compromessi, buono, generoso ed estremamente sensibile, fatica a riconoscersi e quindi a inserirsi.
La forza e l’unicità del libro stanno nella capacità di celare un profondo disagio esistenziale in una voce narrante vivace, brillante, divertente, (auto)ironica, a tratti provocatoria, che si serve di un linguaggio fortemente caratterizzato e, più in generale, nel modo in cui quest’uso sapiente della prima persona riesce a mostrare, insieme alla genuinità, all’insofferenza e alla solitudine di Holden, le distanze che si creano tra il pensiero e la parola.
La scrittura vivida di Salinger mi ha colpita quanto i sentimenti intensi che mi ha suscitato il protagonista.
Sono contenta di non averlo mai letto prima: non l’avrei capito come l’ho capito adesso.
“Ma i pesci… è diverso. I pesci sono un’altra cosa. Io dicevo le anatre” […]
Ispirato a un luogo reale, il giardino del Telefono del vento sulla collina di Ōtsuchi in Giappone, questo romanzo affronta i temi della perdita e della rinascita con garbo ma senza timore di toccarti nel profondo.
Tra i punti di forza: la capacità di trasmettere un approccio alla vita, alla perdita, al dolore e alla gioia davvero “confortante”; diverse intuizioni piene di bellezza (l’immagine della cornice mi ha molto colpita); i capitoletti di intermezzo, in grado di alleggerire anche le parti più dolorose; il fascino di un luogo dell’anima più che fisico; il potere di commuovere senza risultare stucchevole.
Diviso in due parti (la prima più struggente, un vero pugno nello stomaco; la seconda più morbida, probabilmente anche meno intensa), il romanzo è caratterizzato da un uso esteso di analessi e prolessi, mentre in certi punti le strutture sintattiche, risentendo forse della conoscenza del giapponese da parte dell’autrice, rendono la prosa poco lineare, con un effetto che può piacere o non piacere.
“I volti delle persone che credevo di conoscere sfilano davanti ai miei occhi a una velocità supersonica, sono tutte maschere con ghigni terrificanti.
Nessuno è veramente chi credevo.”
Intrigante e trascinante, il secondo volume della saga storica di Shanna Luciani alza il livello frammentando l’ambientazione, aumentando la posta in gioco e introducendo personaggi nuovi, mentre la scrittura, sempre ricca ed elegante, appare ancora più curata.
L’ottima gestione dell’intreccio e il ritmo serrato, a cui contribuisce un uso sapiente dei dialoghi, favoriscono una lettura immersiva, possibile anche grazie al lavoro meticoloso di Luciani sulle diverse ambientazioni.
I personaggi, credibili perché estremamente umani, pieni di luci e ombre in sé stessi e nei rapporti con gli altri, sono la grande forza di questa saga, ma una nota speciale va alle scene ambientate in chiesa per l’abilità dell’autrice nell’evocare sensazioni e atmosfere.
Ambientato nella Sicilia degli anni Sessanta e ispirato alla vicenda biografica di Franca Viola, Oliva Denaro è una storia di emancipazione raccontata con grande sensibilità.
Ho apprezzato molto il lavoro sui personaggi, così vividi – soprattutto nei gesti – che sembra di vederli, e ho trovato bellissima, in particolare, la figura del padre.
La scrittura, delicata e coinvolgente, viene esaltata nell’audiolibro dalla splendida interpretazione della lettrice, ricca di pàthos.
Una trama dalla semplicità disarmante – un vecchio pescatore che per alcuni giorni lotta in alto mare per riuscire a pescare e a portare a riva un grosso marlin – diventa, nella penna di Hemingway, libro di forme e sfumature abbinate a contrasto: malinconico e infiammato, colmo di forza e di dolcezza, carico di corporeità e profondamente spirituale – questo, tutto questo e tutto insieme, è Il vecchio e il mare.
[De Il vecchio e il mare ho parlato qui]
La violenza di un amore mancato come motore di una storia distruttiva, i personaggi desolati, la forza cupa dell’ambientazione, la voce appassionante della narratrice… Cime tempestose si conferma uno dei romanzi più potenti e singolari che io conosca, e il suo fascino mi ha travolta adesso come alla prima lettura.
Mi ci voleva questo ascolto: per rivivere atmosfere che avevo così impresse; per riscoprire la seconda parte della storia; per rivalutare alcuni personaggi; per lasciarmi commuovere dall’auspicio che rischiara nel finale.
Complimenti ai lettori! Sembra davvero di essere lì, ad ascoltare la governante davanti al focolare.
È con lei, la lupa, che inizia il viaggio di Billy Parham avanti e indietro per il confine tra New Mexico e México, un percorso fisico e interiore lungo strade familiari e ignote, un’iniziazione violenta che passa per margini geografici invisibili, per simboli e significati che si deformano laddove niente sembra cambiare.
[Di Oltre il confine ho parlato qui]
Una cornice metanarrativa originalissima, una fiaba disincantata, tono fresco e spirito ironico: questi gli ingredienti di un romanzo brillante, godibile, in grado di strappare continui sorrisi. Mi è piaciuta la storia, ma ancor più mi è piaciuto lo stile.
Storie di quotidianità, di incontri, di faide, di perdono, di amicizia e di tanto altro ancora in questi spaccati di vita ambientati per la gran parte in Sardegna, che emerge con le sue tradizioni e soprattutto con i suoi paesaggi, raccontati attraverso ricche immagini incentrate sui quattro elementi e attraverso un linguaggio semplice, fluido ed espressivo.
È la Natura che diventa Arte, è l’Arte che diventa Natura: annullato ogni confine, Hugo ti prende e ti getta nel tutto, ti porta lì e ti lascia col mare e con le maree, coi venti e le atmosfere, il giorno e la notte, la tempesta, l’avvicendarsi degli elementi, le rocce, i flutti, la pioggia, la bonaccia, la nebbia, le muraglie di nuvole – ti lascia lì a sperimentare ogni sentimento che il mare può esprimere – e con una scrittura poderosa, che ti trascina di continuo tra inquietudine e fascino, paura e incanto, angoscia e meraviglia, ti rende partecipe della lotta di un uomo contro una forza molto più grande di lui – della lotta di un uomo che raccoglie e innalza a suo scudo un ingegno raro e un coraggio eccezionale.
[De I lavoratori del mare ho parlato qui]
Un racconto semplice, intimo e profondo, che parla di dolore e perdita ma soprattutto di rinascita e riapertura al mondo, che celebra il valore delle semplici gioie del quotidiano – dal lavoro in un orticello all’impegno in cucina – e, più in generale, il potere curativo della natura, commuovendo e facendo sorridere al tempo stesso.
“Ma sul serio: adesso, ormai per mio conto, pongo una domanda oziosa: che cosa è meglio, una felicità a buon mercato o delle sofferenze sublimi? Ebbene, che cosa è meglio?”
Francia, prima metà dell’Ottocento. L’intensa e struggente storia d’amore tra Margherita, cortigiana colta e piena di sensibilità, e Armando, giovane e appassionato, si scontra coi pregiudizi e le convenzioni della società parigina, ipocrita e perbenista, nei confronti della quale Dumas esprime una sottile e ferma critica, in un racconto ricco di pathos anche grazie a una strategica gestione del narratore.
Letto molti anni fa, non ero riuscita ad apprezzarlo come invece l’ho apprezzato adesso.
Un amore assoluto, sconvolgente, disperato e soprattutto rovinoso è il vero protagonista di questo libro che purtroppo, nonostante l’innegabile abilità di Spencer, non mi ha convinto: ho trovato tutto un po’ eccessivo, a tratti pesante e piuttosto astratto, con personaggi che non suscitavano in me nessuna simpatia e una trama che non riusciva a coinvolgermi. Non so, forse non era il momento giusto.
Una scrittura posata e nitida fa rivivere Eliza Acton, immaginando la genesi del suo noto libro di cucina in relazione al rapporto con una ragazza di umili origini, Ann Kirby. È così che Annabel Abbs ci racconta due percorsi di emancipazione che toccano i temi della povertà, delle costrizioni sociali e della scrittura femminile inserendoli nel filo conduttore dei profumi e sapori della cucina, un rifugio di serenità ricco di poesia.
Mi è piaciuto ma sono rimata delusa dal finale, che ho trovato frettoloso e poco coerente con la psicologia delle due protagoniste.
La coincidenza di alcuni eventi libera le capacità telecinetiche di un’adolescente presa di mira dai coetanei e porta a conseguenze terrificanti. Crudeltà giovanile, emarginazione, fanatismo religioso e desiderio di vendetta sono i temi del primo romanzo di King, del quale ho apprezzato molto la prima parte, di carattere decisamente introspettivo.
Un romanzo immersivo e delicato, una lettura piacevole e rilassante che mi ha regalato ore di svago insieme alla piccola Emily, alle sue capacità immaginative e alla natura mozzafiato dell’Isola del Principe Edoardo, il tutto attraverso un particolare filo conduttore: l’inclinazione e l’amore per la scrittura, e le difficoltà del percorso artistico.
Mi è piaciuto molto e non vedo l’ora di proseguire con la saga!
Per chi ci crede. Per chi crede in ciò che ogni uomo ha sperato e patito.
Non smetterò mai di leggere questi Dialoghi.
[Di Dialoghi con Leucò ho parlato qui]
Vonnegut immagina la scomparsa del genere umano e ce la racconta in modo originalissimo, impostando una struttura a incastro dove la trama, giocata tra presente, flashback e flashforward, accoglie di continuo spunti di ironia sulla nostra specie e, ogni tanto, anche brevi inserti sugli altri animali.
Un libro che racconta l’umanità con cinismo, affetto e malinconia insieme; una lettura affascinante, complessa, atipica, tragicomica e piena di eccezionale inventiva, che fa sorridere e riflettere.
Irlanda, tempi moderni. La storia di due ragazzi, Connell e Marianne, e l’evolversi della loro relazione tra gli anni del liceo e quelli dell’università.
Ho trovato interessante la struttura a salti temporali, mi è piaciuta la dinamica del rapporto tra i protagonisti e ho apprezzato la scrittura della Rooney; purtroppo, però, nel complesso la storia non mi ha entusiasmata, né ho empatizzato con i personaggi.
Molto bella l’interpretazione della lettrice, che credo abbia reso a pieno l’atmosfera del libro.
Il mio primo Auster – le quattro vite di Archie Ferguson – mi ha trasmesso sensazioni contrastanti: ho trovato la scrittura brillante, vivace e pulita (ci sono i periodi più lunghi e più scorrevoli che abbia mai letto), ma il mio interesse per la storia, molto forte all’inizio, si è un po’ perso dopo la metà, forse perché il senso dell’eccesso cominciava a pesare, forse perché la trama mi è sembrata perdere vigore.
Le cose migliori: i pensieri di Archie durante l’infanzia e la prima adolescenza, i numerosi spunti artistici e letterari – ho stilato diverse liste – e le pagine bellissime, alcune commoventi, sull’incontro tra l’uomo e la letteratura.
Una riscrittura originale dell’Iliade e dell’Eneide che segue il filo conduttore dell’amore tra Enea e Creusa e al tempo stesso rimane fedele a episodi e storie che chi conosce i poemi ha piacere di ritrovare.
Un romanzo insieme nuovo e familiare, un lavoro che unisce intelligenza e passione, un racconto dallo stile fluido, con un linguaggio in cui l’epica risuona in continuazione e con un personaggio, quello di Creusa, a cui l’autrice dà vita e luce e alla quale è difficile smettere di pensare dopo aver letto le sue pagine.
[Di De viris et mulieribus consecratis Ilium ho parlato qui]
L’evocazione di una storia familiare nei frammenti del passato di diverse generazioni e la semplicità della vita quotidiana in un’Islanda ricca di suggestione.
Un racconto dove gli oggetti sembrano parlare, testimoni e simboli di vite normali e meravigliose, e dove l’uso del presente sembra contrarre e dilatare gli spazi, rendere la storia universale e perduta nel tempo.
“Ma se suono la conchiglia e loro non tornano indietro, allora è davvero finita. Non riusciremo a mantenere il fuoco acceso. Diventeremo degli animali. Non verremo salvati, mai più.”
Ucronia ambientata ai nostri tempi in cui l’autrice conferma quella capacità di scuotere, denunciare e turbare attraverso il linguaggio che aveva rivelato nel suo Indomabili onde.
Personaggi curatissimi, discorsi che mettono in discussione false certezze e una decisa denuncia all’ignoranza rassicurante funzionano bene come le atmosfere cupe e angoscianti: il risultato è un libro scomodo, disturbante e decisamente coraggioso sostenuto da una scrittura trascinante, sincera e intimista.
“Basta guardare qualcuno negli occhi, a volte, per conoscere la sua anima e misurarne altezza, larghezza e profondità nel giro di un'ora. Allo stesso modo, se quella persona non volesse o se non avessi tu stesso la capacità di guardarla in quel modo, non ti basterebbe una vita per capire davvero la sua anima.”
“Un amico una volta mi ha detto: ‘Abbi fiducia nell’amore, e ti porterà ovunque tu voglia andare’. Io aggiungerei: ‘Abbi fiducia in ciò che ami, continua a farlo, e ti porterà ovunque tu voglia andare’. E non preoccuparti più di tanto della sicurezza. Quando si comincia a fare ciò che si vuol fare, arriva anche un profondo senso di sicurezza.”
[Di Scrivere zen ho condiviso due estratti qui]
Artù, Ygraine, Merlino, Morgana, la Dama del Lago, Nyneve, Lancillotto e tanti, tantissimi altri tra dame e cavalieri in una serie di avventure, rivelazioni, tradimenti, imprese, giuramenti e tornei che si susseguono senza sosta, trasportandoci in un’atmosfera magica e senza tempo che sembra fluire da una scrittura piena di forza e d’incanto.
La penna di John Steinbeck e il fascino del ciclo arturiano: il risultato è un libro trascinante, perfetto per evadere e difficile da mettere giù.
L’infanzia e l’adolescenza di un ragazzo nato e cresciuto a Procida: i sogni, la solitudine, la scoperta dei sentimenti, le illusioni e le disillusioni.
E poi la forza e la magia del linguaggio che racconta tutto questo.
E poi l’immaginazione, perché per me L’isola di Arturo è stato prima di tutto e soprattutto un romanzo sul potere immenso dell’immaginazione umana.
Potere immenso. Romanzo immenso. Lettura immensa.
Sei personaggi, sei voci narranti, sei percorsi uniti dal filo invisibile del destino: con una scrittura coinvolgente, Stefania Convalle dà vita a una storia che prende le mosse dal dolore e dalla solitudine per focalizzarsi sul potere salvifico dell’amicizia e dell’amore, trasformandosi così in un racconto di speranza e rinascita.
Un inquietante romanzo psicologico che ruota attorno al tema della maternità e che intende riflettere sul tramandarsi di traumi familiari e sull’origine del male.
Nonostante le atmosfere cupe e la continua angoscia di un racconto che sceglie di esplorare luoghi oscuri, mettendo il lettore di fronte a domande scomode – esistono bambini malvagi? E madri incapaci di amare i propri figli? – e destabilizzandolo, è molto difficile staccarsi da questo libro.
Finale perfetto.
Tre amiche si incontrano dopo trent’anni e si raccontano: è così che prende le mosse una storia dolce, intima, sfaccettata nelle ambientazioni e retta da una scrittura chiara e fluida.
"Insomma, attimi. Altro non siamo che un susseguirsi di attimi, pensai. [...]
Sono momenti spesso semplici, piccoli, a volte ordinari. È difficile riconoscerli, ci vuole l'animo aperto, il cuore pronto, leggero. Sono cose da niente, a volte. Si nascondono nella penombra.
Sono sfuggenti, talvolta struggenti, durano lo spazio di un nulla e se non li afferri, se non hai la gioia di agire, se non hai energia, voglia di vedere, scappano via e sono belli che perduti. Sì, certo, torneranno nel ricordo, forse, ma non sarà la stessa cosa."
Una professoressa di letteratura inglese vicina ai cinquanta e una vacanza solitaria che diventa l’occasione per fare i conti con il proprio passato.
Grande la capacità di presa della trama e molto belli i passaggi tra i due piani temporali. Personaggi dipinti magistralmente.
Manuale insolito, irriverente, vivace, in grado di isolarti completamente dal mondo attorno.
Ho apprezzato molto l’impostazione originale, lo stile fluido e colloquiale e la grande capacità di rendere le teorie comprensibili in modo divertente.
Doveroso dire, però, che funziona bene fino a un certo punto: negli ultimi capitoli, quando si parla di “evaporazione” e “ologramma”, risulta difficile seguire certi passaggi – almeno per chi non ha familiarità con la materia – e il libro perde un po’ di efficacia. Sarebbe stata utile, in questo caso, qualche spiegazione in più.
Affascinanti e utili le illustrazioni.
Ventidue racconti, ventidue storie di persone comuni, ventidue diapositive di vita quotidiana da leggere tutte d’un fiato oppure lentamente, lasciando che siano proprio le giornate a scandirle.
Spesso imperniate sui grandi temi dell’amore, del lavoro e delle dinamiche relazionali, le storie di Buzzi toccano questioni e ambiti vari – tra gli altri, lo sport e il gioco d’azzardo – e raccontano sentimenti e desideri profondi, facendo riflettere sulla ricerca della libertà interiore di tutti noi e restando impresse, anche grazie allo stile fluido, in immagini semplici ma di forte impatto.
“Era il sistema della vecchia New York, quello di uccidere senza spargimento di sangue; il sistema adottato da gente che temeva lo scandalo più dei malanni, che anteponeva la rispettabilità al coraggio, che giudicava che niente fosse più incivile delle scenate, tranne il comportamento di coloro che le provocavano.”
Un romanzo sulle catene interiori che tendiamo a creare e/o accettare per noi stessi, una riflessione profonda sul concetto di senso del dovere e, soprattutto, un viaggio nella psiche umana, un percorso tra conscio e inconscio ricco di significati simbolici.
Misteri di silenzi lunari, di folletti e fantasmi notturni che soffiano nel vento, di canne che mormorano, di erba che pare ondulare seguendo il motivo di una fisarmonica.
Misteri che in un mondo caldo e disfatto sembrano incorniciare gli occhi nostalgici di personaggi vividi, intensi e desolati, mentre profumi evocano ricordi, mentre un poderetto può essere un rifugio ma anche una prova di espiazione, mentre nella ritualità e nel sentimento religioso è spesso labile il confine tra un personaggio e un popolo intero.
Il palpito del sentimento umano e una natura plurivalente, cupa e soave, risuonano in una scrittura dalla forza ancestrale, ricca di pathos e di bellezza, che colpisce ed emoziona profondamente.
[Di Canne al vento ho parlato qui]
Rimbalzare tra malinconia, gratitudine e nostalgia. Rimbalzare tra fascino e disincanto. Tra la voglia di tornare lì per rivivere quella magia un po’ dannata e il sollievo per aver scelto di non restare. Rimbalzare. Mi ha fatto rimbalzare, questo libro.
[Continua qui]
Sardegna, Novecento. La narratrice, nipote, racconta la storia di sua nonna, donna piena di passione e di immaginazione, completamente fuori dai canoni e quindi poco compresa e accettata dalla società dell’epoca.
Particolare la struttura a salti temporali e coinvolgenti i temi trattati, mentre alcune parti di carattere erotico e linguaggio sboccato mi sono sembrate poco consone al tono generale.
La storia, curioso amalgama di giallo e fantasy, ruota attorno a un omicidio del tipo “della camera chiusa” e l’indagine si configura come una partita a scacchi nella quale il protagonista Ovvius, bizzarro e acuto investigatore, dovrà muoversi tra numerosi sospettati in diverse situazioni dagli sviluppi imprevedibili.
La stravaganza dei personaggi è ben resa attraverso i nomi ironici, le descrizioni fisiche accurate, i dialoghi divertenti e, soprattutto, l’indagine sul loro passato. Sotto quest’ultimo aspetto Scacco di torre è piuttosto intrigante: il passato (o il presente) di ognuno di loro porta con sé un segreto che ne rende perfettamente plausibile la colpevolezza.
La scrittura è scorrevole, mentre stile e linguaggio possiedono un leggero gusto rétro che ho trovato perfetto per l’ambientazione.
“Impossibile pensare a questa storia senza immaginare che sotto ci sia un mistero, una spiegazione nascosta. Il mistero, però, è che non esistono spiegazioni, e che per quanto inverosimile possa sembrare, questo è ciò che è accaduto.”
In questo libro, dove fanno da leitmotiv le verità celate e le parti di noi che restano nascoste anche alle persone che più amiamo, la Convalle sfiora il tema della coscienza e lo lega a quello dell’amicizia e della famiglia.
La cifra dell’autrice è riconoscibile dall’inizio alla fine: una scrittura concreta ma allo stesso tempo piena di sentimento, una delicata malinconia di fondo, il ruolo del destino che con costanza interviene a rimestare le carte e, soprattutto, personaggi mai statici, bensì colti in un realistico fluttuare tra passato, presente e futuro, fluidi e sempre in grado di stupire.
L’autobiografia di una pastorizia forzata che deve fare i conti con le inclinazioni di un animo libero diventa storia di un’emancipazione familiare, intellettuale e culturale.
Mi è piaciuto tantissimo: il rapporto arcano con la natura e la campagna (da un silenzio che intimorisce alla rivelazione di un linguaggio intimo e animato), la lotta contro i pregiudizi e l’immobilità degli antenati, il valore incalcolabile dell’istruzione e, soprattutto, un’emancipazione che non rinnega l’amore per la propria terra d’origine.
Bellissime le metafore e le immagini create sulla natura o con elementi della natura; ammirevole e commovente la forza di volontà del piccolo Gavino; straordinario il messaggio sul potere dell’arte e della cultura di renderci liberi.
Il racconto autobiografico di un aborto clandestino in Francia nel 1963.
Una narrazione lucida, sincera, coraggiosa, e una scrittura asciutta, cruda, a volte persino gelida, agghiacciante come le sensazioni che trasmette.
È un pugno nello stomaco, terribile e necessario, e la lettura della Bergamasco, profonda e sofferta, l’impatto me l’ha fatto sentire tutto. A tratti, mentre ascoltavo, smettevo di respirare. A tratti dovevo fermarmi e interrompere qualsiasi cosa stessi facendo.
“E forse il vero scopo della mia vita è soltanto questo: che il mio corpo, le mie sensazioni e i miei pensieri diventino scrittura, qualcosa di intellegibile e di generale, la mia esistenza completamente dissolta nella testa e nella vita degli altri.”
Questo libro è fango, dolore, disperazione, innocenza, urla, cameratismo, lacrime, rabbia, terrore, tenerezza, impotenza, rassegnazione, ingiustizia, speranza, attesa spasmodica, amicizia, sangue, nostalgia, commozione.
È un libro innocente e terribile.
È un libro innocente.
È un libro terribile.
È un libro imprescindibile.
[Di Niente di nuovo sul fronte occidentale ho parlato qui]
Il primo romanzo di Federica Buonocore ci trasporta ad Atrani, borgo della Costiera Amalfitana, nel 1970: ci troviamo i Cretella, una storica famiglia di pasticcieri, ci troviamo Matteo, pasticciere geloso delle proprie ricette, e ci troviamo Gennarino, un giovanissimo dipendente in grado di intenerirci.
Il pasticciotto, dolce tipico atranese, è al centro di una storia che ha tra i punti di forza i personaggi simpatici e chiassosi, i dialoghi credibili e, soprattutto, la delicatezza con cui approccia il rapporto padre-figlio e i sentimenti dell’animo tenero di un ragazzino.
Una storia fresca, leggera, perfetta per tirare il fiato e in grado di strappare tanti sorrisi.
Un libro illuminante, che in modo semplice e con linguaggio chiaro mette nero su bianco la realtà, insegnandoci ad analizzarla e a comprenderla attraverso due strumenti imprescindibili, i dati e il pensiero critico: sono strumenti che possediamo ma dei quali la maggior parte di noi non sa come appropriarsi a pieno; strumenti, soprattutto, di cui occorre capire l’importanza, perché per cambiare il mondo è necessario conoscerlo davvero, nei suoi problemi ma anche nei suoi progressi, che sono più di quanti potremmo aspettarci.
Voltata l’ultima pagina, ho riflettuto su come Factfulness sia anche il documento del lavoro di una vita e di una missione nobile, e non posso fare a meno di ammirare gli autori, persone che hanno realmente provato, e stanno provando, a cambiare le cose.
La ricerca di un posto nel mondo da parte del giovane John Grady Cole, il suo viaggio a cavallo dal Texas al Messico, le esperienze con l’amicizia, la cattiveria, l’amore, l’ingiustizia, l’arroganza dei potenti, il dolore: Cavalli selvaggi è un vero e proprio romanzo di formazione, ma le atmosfere e le ambientazioni tutte western gli conferiscono un respiro raro, arcano, e il risultato è maestoso.
È un viaggio per le strade dello spazio e del tempo, è la ricerca di se stessi nella ricerca di un passato mitico, è il contatto con la propria identità nel contatto con la natura aspra e solitaria, sperduta e bellissima, onnipresente e selvaggia.
E selvaggio è anche il fascino di questo romanzo: una visione cupa, spesso desolata, del genere umano accordata a descrizioni di un lirismo intenso, a paesaggi che sembrano di mondi primordiali, a immagini di poesia pura.
C’è un mistero potente che sembra pervadere ogni pagina, un mistero che non riuscivo e non volevo sondare ma che ha coinvolto ogni fibra di me: è lo stesso mistero che mi è rimasto addosso nelle vesti di un’emozione confusa, stupefatta, di una commozione inafferrabile e profonda.
Quanto è grande la distanza tra l’America che crediamo di conoscere e l’America com’è veramente?
Attraverso alcune storie esemplari – tra queste l’epidemia causata dagli antidolorifici, le vicende dell’allevatore Cliven Bundy, la crisi dell’acqua a Flint, l’incendio di Paradise – e viaggiando dal Michigan al Texas alla California, Francesco Costa ci racconta l’industrializzazione e la deindustrializzazione, ci racconta perché le armi sono un fatto culturale, ci racconta il rapporto degli americani col governo; ci racconta, ancora, la necessità, l’intrinsecità e le contraddizioni dell’immigrazione, il paradosso dei senzatetto in uno stato con una delle economie più forti al mondo, la radicalizzazione dell’elettorato, fino ad arrivare alla crisi profonda del sistema democratico e al deterioramento delle istituzioni e del loro funzionamento. Ci dipinge così quella che definisce, con un termine più che mai consono, l’eclissi del sogno americano: una crisi d’identità, non un declino ma un deragliamento del sistema.
La scrittura – come anche, naturalmente, la lettura dello stesso Costa – è chiarissima e coinvolgente, e ha la capacità di arrivare subito. Insomma, un’ottima prima esperienza con un audiolibro!
Adoro leggere thriller nei mesi freddi, tanto più se si tratta dei thriller di Michael Connelly.
Tra i punti di forza de La stella del deserto il ritmo serrato e, come di consueto, i dialoghi coinvolgenti, diretti, essenziali, in grado di rivelare moltissimo delle personalità dei personaggi con poche parole. A questo proposito, e nonostante il suo punto di vista si alterni con quello di Renée Ballard, è decisamente Bosch il grande protagonista: come sempre ci appassiona, ci tiene col fiato sospeso, ci fa riflettere, ci intenerisce e in questo caso, soprattutto se siamo affezionati a lui, ci fa anche commuovere.
Una giovane e frizzante designer inglese trasferitasi a Como, il rapimento del suo gattino e l’incontro con un simpatico Sovrintendente di Polizia sono gli ingredienti da cui prende le mosse il fresco romanzo d’esordio di Tiziana Mazza, un giallo-rosa ambientato nel Triangolo Lariano.
È una storia leggera e al contempo piena di energia, in grado di regalare momenti di grande spensieratezza, ai quali contribuiscono l’intreccio vivace, il continuo punzecchiarsi tra i due protagonisti e, soprattutto, il brio dei dialoghi (realistici anche per l’uso del dialetto locale e del lessico inglese che si mescolano all’italiano).
Una passione extraconiugale, un crimine e molto di più.
Mi è piaciuta tanto l’idea della struttura: è una storia che si muove tra interrogatori e ricordi, tra presente e passato attraverso l’unico punto di vista del protagonista, il cui carattere viene a delinearsi a poco a poco, tassello dopo tassello, assieme all’accaduto.
Molto belli i dialoghi, e davvero ben riuscita la rappresentazione del taedium vitae.
Tuttavia, purtroppo, né la storia né i personaggi mi hanno coinvolto, lasciandomi al contrario piuttosto tiepida.
Nel suo romanzo d’esordio, Silvana Da Roit unisce l’elemento storico a quello della formazione e a un pizzico di mistery.
L’antico borgo medioevale di Domodossola è teatro di due vicende – una ambientata nei primi anni Sessanta, l’altra a fine Seicento – unite da un vecchio diario e incentrate sulla scoperta di una rete di tunnel sotterranei.
La penna pregevolissima dell’autrice sembra sfiorare con delicatezza i due protagonisti, Marco e Joanna Francisca, mentre gli studi documentari e la cura dell’ambientazione – il lavoro sul lessico, peraltro, è notevole – denotano un grande amore per la propria terra e per le storie a essa legate.
La scrittura di Connelly è una delle migliori che io conosca. È diretta, dinamica, sapiente. Con poche parole ti porta per le strade di Los Angeles, nella casetta di Bosch, sulle onde con Ballard e, naturalmente, ti cattura nel dipanarsi di casi che non vedi l’ora di sciogliere con la lettura.
Credo non riuscirò mai a spiegare quanto mi affascini.
Dopo la bella prova della trilogia Grisha, Leigh Bardugo affina la penna e nella dilogia formata da Sei di corvi e da Il regno corrotto punta in alto a livello di intreccio e, soprattutto, nella costruzione dei personaggi: Kaz, Inej, Jesper, Wylan, Matthias e Nina sono raccontati a tutto tondo e i loro moti d’animo – così veri, così profondi – mi hanno tenuto inchiodata alle pagine come non mi accadeva da tempo.
Il magnifico lavoro sull’ambientazione, gli ottimi dialoghi e l’innegabile capacità di gestire l’elemento sentimentale (peraltro mai banale, mai melenso) si uniscono a una scrittura precisa, matura, bellissima.
Non vedo l’ora di leggere altro di lei!
Un’impresa eccezionale, frutto di lavoro appassionato e travagliato, è quella concepita e realizzata da Marguerite Yourcenar, che riporta in vita il pensiero di un uomo, la complessità e l’iridescenza dei moti del suo spirito e, insieme, un’epoca che riusciamo a sentire attraverso uno sguardo di singolare spessore.
Cos’è, dunque, Memorie di Adriano? È capolavoro raffinato e delicato; è prosa in cui sconfina incessante la poesia; è, soprattutto, testimonianza e celebrazione delle altezze che l’uomo può raggiungere in quanto essere e pensiero, spirito e passione; è, semplicemente, documento prezioso e prova purissima del valore immenso dell’arte e della letteratura.
Il terzo libro della Trilogia della pianura, e il primo che leggo di Kent Haruf.
Ambientato a Holt, immaginaria piccola città del Colorado, Benedizione racconta la vita semplice e meravigliosa di persone comuni e i loro sentimenti – il bisogno d’amore, il rimpianto e la dignità sono i temi dominanti – con una scrittura pacata, toccante, e con un’umanità rarissima.
Inghilterra, 1935. Briony, la tredicenne protagonista, per pochi minuti si trova tra le mani il futuro di alcuni adulti e lo distrugge.
Una storia complessa, multistrutturata, che mette in campo personaggi veri e tormentati attraverso una scrittura bellissima, dettagliata nelle descrizioni e densa nello scavo del pensiero, e che comprendiamo a pieno solo sul finale, potente e spiazzante come il sentimento dolce-amaro che lascia addosso e che sembra scavare dentro.
Magnifico lo sviluppo dell’elemento cromatico nella prima parte, come le riflessioni che ruotano attorno al concetto di scrittura.
La Rivoluzione cubana e la Rivoluzione interiore di Claudia, giovane italiana protagonista del romanzo, si uniscono in pagine vertiginose e appassionate in cui si parla di moralità, giustizia, consumismo, coscienza politica, diritti e libertà e in cui si susseguono senza tregua emozioni travolgenti di amore e gioia, rabbia e dolore, nostalgia e rimpianto.
Una grande capacità descrittiva per luoghi e personaggi – Che Guevara e Camilo Cienfuegos sembra davvero di averli davanti – si unisce a un uso sapiente del linguaggio nel creare immagini e atmosfere. Una scrittura piena di energia, che scorre e trascina come un fiume in piena.
[Di Indomabili onde ho parlato qui]
Storia di una potenza mozzafiato ambientata nel sud degli Stati Uniti e costruita su un fatto di sangue e sulle vite che si intrecciano attorno ad esso.
La caratterizzazione superlativa dei personaggi si unisce alla rappresentazione di un'America polverosa, opaca, sbiadita, intrisa di povertà e violenza e consumata dal razzismo e dal fanatismo religioso, spesso strettamente interconnessi.
Scrittura densa, corposa, che costruisce e restituisce immagini e atmosfere in modo superbo e che rende la lettura un'esperienza profonda, immersiva, spesso complessa e per questo in grado di dare grandi soddisfazioni.
“L’aria era gelida e limpida. Sopra le vie sporche e semibuie, sopra i tetti neri c’era l’oscuro cielo stellato. A Pierre bastava guardare il cielo per non sentire la bassezza oltraggiosa di ogni cosa terrena in confronto all’altezza a cui si trovava la sua anima. […] Pierre guardava gioioso, con gli occhi bagnati di lacrime, quella stella chiara che dopo aver trasvolato a indicibile velocità spazi immensi nella sua traiettoria parabolica, all’improvviso, come una freccia conficcatasi in terra, sembrava essersi attaccata a un punto che si era scelta nel cielo nero per fermarsi lì, levando energicamente la coda all’insù, brillando e palpitando con la sua luce bianca fra le altre innumerevoli stelle scintillanti. A Pierre sembrava che quella stella rispondesse perfettamente a ciò che avveniva nella sua anima raddolcita e rinfrancata, ora sbocciata a nuova vita.”
I personaggi di Orgoglio e pregiudizio rivivono in una variazione dai toni pacati che racconta il personaggio di Elisabeth a tutto tondo, rendendola vivida e amabile nelle sue ambiguità.
Tema portante del romanzo sono i legami familiari, quelli di sangue e non solo, e innumerevoli sono gli spunti sul pregiudizio sociale e personale e sulla condizione della donna all’epoca, con un occhio di riguardo al rapporto tra donna e studi.
Una vera chicca i molti riferimenti ai classici latini e greci.
Le vite di tre personaggi – due donne e un uomo – compongono una trama che respira incessante tra presente e passato, tra i ricordi e un’assidua ricerca di felicità, mentre l’autrice esplora le strade attraverso cui il destino agisce tracciando fili invisibili tra le persone.
Le ambientazioni notturne, sia quelle nella costa italiana, sia quelle che evocano una grande metropoli americana, conferiscono al romanzo un tocco magico di malinconia, dandoci l’impressione di galleggiare in un limbo tra sogno e realtà.
La scrittura incisiva dell’autrice e una successione incalzante di colpi di scena rendono questo lavoro di Stefania Convalle una lettura coinvolgente dall’inizio alla fine.
Il geniale capostipite dei non-fiction novel.
Capote unisce alla cronaca dettagliata di un omicidio l’indagine sulla vita di una comunità rurale americana e, soprattutto, una sottile analisi sull’origine e sulla natura del male negli uomini.
Profondissimo lo scavo psicologico sugli assassini, su Perry in particolare: da ogni pagina trasuda la curiosità, la rabbia, la pietà, il tormento che suscitò in Capote questo personaggio, che appare quanto mai vivido, disturbante e in un certo senso estremamente e terribilmente umano.
La dose notevole di dettagli talvolta rende il libro davvero difficile da affrontare, ma voltata l’ultima pagina è l’immensa ammirazione per il lavoro titanico dell’autore il sentimento prevalente.
Italia, 1943.
Un piccolo paesino sulle montagne, l’occupazione tedesca, le prime organizzazioni partigiane.
Tre personaggi principali – un tenente e un disertore tedeschi e una ragazza italiana – incrociano le loro strade dando vita a una trama che esplora, snodandosi tra i temi della guerra, dell’amore e della famiglia, il valore della coscienza individuale e le dinamiche di contrasto tra sentimenti e senso del dovere.
Ottimo l’equilibrio tra le scene d’azione, quelle introspettive e quelle descrittive, e gran bel lavoro sull’ambientazione, curata e raccontata benissimo. Splendide le sequenze con i dettagli meteorologici.
Il mio primo approccio con Thomas Hardy.
La trama mi ha coinvolta e ho trovato ben approfondite e magistralmente raccontate le sfumature psicologiche.
Mi aspettavo un maggior numero di scene descrittive, trattandosi di Hardy, e trovarne poche mi ha lasciato un po’ spiazzata; forse non era il libro giusto da questo punto di vista.
Leggo Connelly da sempre e, sebbene sia legata soprattutto ai libri e alla storia di Harry Bosch, non mi dispiacciono i suoi legal thriller della serie di Michael Haller.
Questo, in particolare, è un romanzo godibile, in cui l’autore sceglie di approfondire proprio la figura di Haller, stavolta chiamato a difendere in tribunale nientemeno che sé stesso.
L’indagine sul bisogno umano di affetto, e sui modi di donarlo e riceverlo, è di una profondità rara e disarmante, e domina questo romanzo come i temi sociali e il rapporto uomo-natura dominavano Furore.
Ecco perché de La valle dell’Eden ci restano dentro i personaggi, come Samuel Hamilton e Lee, e ci resta dentro quel tu puoi, che Steinbeck propone come senso morale del romanzo e, più in generale, dell’esperienza e della vita umana.
“Vedi, Lucia, la mandorla diversa, amara, è necessaria per farci apprezzare meglio la dolcezza di quelle buone; il gusto dell’amaretto è particolare e la sua crosticina croccante, che racchiude la pasta morbida, ci ricorda la vita con le sue difficoltà che nascondono le gioie. Il fiore stesso di questo frutto nasce e sboccia durante l’inverno; nonostante il freddo, lui si mostra in tutto il suo splendore.”
[Di Mandorla amara ho parlato qui]
Sei ragazzi americani, un piccolo college in Vermont e un insegnante eccentrico.
L’attrazione per l’antichità classica da una parte, per tutto ciò che è proibito dall’altra.
Dio di illusioni è uno stupendo romanzo psicologico che racconta una discesa verso il basso e, al contempo, rappresenta l’amicizia come sentimento a tutto tondo, che implica non solo complicità e lealtà, ma anche rivalità e, come per questi personaggi, tratti notevoli d’amore e d’odio.
Magnifica la scrittura di Donna Tartt.