Quella catarsi poetica che è Foglie d’erba

La mia edizione di Foglie d’erba.
Foto scattata nel marzo 2025.

Ecco cos’è Foglie d’erba.

Spiritualità profonda e dirompente che si fonde a una passione viscerale per la vita terrena. 
Trascinante impulso per ogni attimo di presente unito a un istinto ingovernabile per l’esperienza dell’infinito.
Amore e celebrazione di se stesso e dell’umano quanto instancabile trasporto all’immanenza di un altrove.

È lirica che si interseca con l’epico e col prosastico.

È inclinazione altruista; è fiducia idealistica nell’uguaglianza e nella democrazia. È entusiasmo per il mondo e insieme patriottismo spiccato.

È glorificazione del qui e ora e al contempo fede nel futuro, in un senso e in un disegno.
È comunione tra l’io e la terra, tra l’io e gli altri io, tra l’io e l’universo, tra corpo e spirito.

È tensione alla scoperta, è abbandono alla Natura, è inno alla gioia.
È voglia di dare e di assorbire; è innocenza e sensualità.
È spinta alla vita, canto di libertà, vocazione furiosa.
È poesia irrefrenabile, impetuosa, pulsante e istintiva; poesia sovrabbondante, primitiva, vertiginosa e appassionata.
Una poesia che è una catarsi.

E smuove e commuove, stordisce e meraviglia.

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Città della pianura scalda e strappa il cuore

La mia edizione di Città della pianura.
Foto scattata nel dicembre 2023.
La mia edizione di Città della pianura.
Foto scattata nel dicembre 2023.

Ero convinta che al termine di Città della pianura avrei aspettato, che mi sarei data tempo per metabolizzare – come faccio di solito con la grande letteratura – e magari scriverci sopra qualcosa di strutturato e ragionato. Ma stanotte ho girato l’ultima pagina e ho capito che non posso aspettare, che qualcosa devo scriverla adesso, a caldo e senza troppo riflettere, perché di questo finale di trilogia voglio fissare nel modo più assoluto l’emozione, e un po’ anche perché questa emozione ho bisogno di buttarla fuori subito.

Io non lo so come faccia McCarthy. Non so come riesca a fare questo effetto su di me. A colpirmi così, ogni volta. Forse è quel suo modo essenziale e poetico di incastonare nelle parole la meraviglia e la disperazione della vita. McCarthy ha un modo profondamente… arcano di raccontare la storia di tutti gli uomini nella storia di un unico uomo. O, se vogliamo dirla al contrario, di prendere la storia di un unico uomo e mostrare in essa la storia di tutti. Ha un modo così intimo di portarti dentro, poi. Dentro la vita, intendo. Ti fa avvicinare alla verità della vita descrivendo il semplice atto di sciacquare una tazza. In McCarthy, anche l’azione di portarsi un piatto a tavola sembra racchiudere un implicito intensamente spirituale. E ci sono queste parti, a volte anche pagine e pagine, in cui non accade nulla di particolare – e però c’è tutto; c’è la vita nella sua essenza. Ecco perché mentre leggo McCarthy mi dimentico veramente di avere un libro tra le mani. In qualsiasi punto: dai racconti dei gesti quotidiani alle svolte di trama. Mentre leggevo la scena di John Grady, Billy e i cagnolini si è fatta notte fonda e neanche me ne sono accorta.

Ah, John Grady. John Grady in Città della pianura: una tenerezza straziante.
E forse in un certo senso Città della pianura è il libro di John Grady molto più di quanto lo sia stato Cavalli selvaggi, anche se in Cavalli selvaggi era lui e lui solo il protagonista. Ma Cavalli selvaggi era una storia di ricerca, di suggestioni infinite e vagabonde, e il personaggio principale appariva sfumato rispetto alla natura pazzesca e ammaliante che esplodeva tra le pagine. Vale un po’ la stessa cosa anche per Oltre il confine, dove emergeva moltissimo del protagonista Billy – la sua onestà, per esempio; la sua generosità, il suo senso del dovere – e tuttavia erano il carattere iniziatico del romanzo, il leitmotiv dell’appartenenza e la solennità della natura a occupare lo spazio maggiore.
In Città della pianura accade qualcosa di diverso, perché McCarthy sceglie di far arretrare la natura e di dare più spazio ai personaggi. Adesso sono John Grady e Billy, insieme, al centro assoluto della scena. Nel frattempo, con la natura è arretrato anche il tema del viaggio: in un certo senso, Città della pianura è più statico dei due romanzi precedenti; è fondato completamente sulle azioni e sui dialoghi, ed è nelle azioni e nei dialoghi che si concentra tutto il misticismo di cui McCarthy è capace. Come dicevo prima, in lui anche un semplicissimo gesto della quotidianità – in questo libro più che mai – sembra racchiudere un senso altro. E i dialoghi! Anche – e forse soprattutto – gli scambi sui cavalli, sui pascoli, sui comportamenti del bestiame, anche gli aneddoti di vecchi cowboy sembrano attraversati da un umore mistico, perché McCarthy ha il dono sublime di mostrare l’impronta della verità essenziale impressa nelle cose più semplici. Succede sempre. E poi, quelle battute così stringate e così dense. Dal forse non sono capace di lavorare per più di una persona alla volta di John Grady al è che non posso farne a meno di Billy mentre ingrana la retromarcia per aiutare i messicani.
E sì, a proposito: c’è questa scena, poco dopo l’inizio, in cui Billy aiuta un gruppo di messicani a riparare una gomma bucata – ecco, un’altra di quelle scene in cui ho perso la cognizione del tempo – e non so perché ma leggendola stavo per mettermi a piangere, talmente era profonda la scena e talmente era profondo il suo significato nel modo in cui McCarthy l’ha scritta.
Ho detto che John Grady mi ha fatto una tenerezza straziante. E tra lui e Billy – be’, non so chi tra lui e Billy mi abbia commossa e devastata di più. Il fatto è che non si può non volere a entrambi un bene immenso.

Non posso parlare di questo libro raccontandone la trama. E non serve a molto raccontare la trama quando le cose che fanno il libro sono altre. Sono partite a scacchi, luci al neon che ribollono e galleggiano sbavate ed evanescenti nella pioggia, un arco descritto in aria da una sigaretta, il vento che gioca coi tizzoni di un falò, occhi di ragazza che nascondono il mondo, aste di cavalli, ombre stratificate di palizzate come binari di ferrovie, costellazioni alla deriva, arcani insondabili iscritti su strapiombi rocciosi, una vecchia casa da rimettere a posto, le luci della città nella pianura come stelle riflesse in un lago, occhi di bestiame che galleggiano nel buio come carboni ardenti al faro di una locomotiva, staffe e redini, oche selvatiche che volano davanti alla luna e chissà dove vanno, fondi di caffè che roteano in una tazza, sveglie a notte fonda, stelle sulla testa come un’alluvione, le storie implacabili raccontate dagli antichi ingranaggi di una pendola e dall’antico silenzio del deserto, un cucciolo in una cassetta, matasse di luce nella strada attraversate e scomposte dai raggi delle ruote di un carretto, racconti di vita randagia, il catino azzurro cupo che resta della notte mentre un nuovo giorno scende lento sul paesaggio, l’alone delle luci cittadine sul deserto come un’alba eternamente a venire, i pioppi e le montagne e la distesa rossastra del cielo al tramonto… E in tutto questo i gesti e i riti quotidiani, i dialoghi e i silenzi, i detti e i non detti.
E sono sempre loro, soprattutto loro – i gesti, i detti e i non detti – i cardini dei rapporti più profondi; i cardini, soprattutto, di un’amicizia che insieme scalda e strappa il cuore. Perché questo libro parla di amicizia più di ogni altra cosa. È vero, parla anche (e moltissimo) di amore – il motore della trama è legato a un innamoramento – ma ancora di più parla di amicizia e del senso della famiglia, di quella famiglia che si viene a creare tra persone che vivono e lavorano insieme. L’amicizia fraterna tra John Grady e Billy, così rude e così tenera e così intima, ti scava dentro come nessun altro rapporto raccontato nel libro. Spunta a metà tra un pennello in più – giusto nel caso saltasse fuori uno scemo che aveva voglia di pitturare – e un come fai a essere così testone?, tra un buonanotte gridato in corridoio e una cantilena burlona in rima; tra detti e non detti, silenzi e mezzi silenzi.
E mentre leggi sai che soffrirai, capisci dove sta andando a parare la storia, lo avverti tra le pagine che per questi personaggi non ci sarà un lieto fine – eppure non riesci a smettere di leggere. Forse per quegli sprazzi di luce che affiorano all’improvviso e che a volte si allargano, sempre più vividi, e poi diventano così abbaglianti da coprire tutto il resto. Sono i momenti che ti ricordano che anche in mezzo alla sofferenza, alla cattiveria e alle ingiustizie del mondo ci sono valori che rimangono solidi, sempre, e ci sono persone che credono in questi valori: l’amicizia, la famiglia, il potere del cuore; ma anche la gentilezza, la fiducia, la generosità, l’aiuto reciproco, l’ospitalità, la condivisione, la pietà. Per questo Città della pianura è così disperatamente bello. Per questo è incredibile come ti pugnali, ti devasti, ti faccia a pezzi, eppure dopo averlo chiuso tu McCarthy vuoi ringraziarlo. Per aver scritto qualcosa di così tremendo e di così maestoso. Per averti portato dentro a tutto il dolore e a tutta la grazia della vita. Per essere riuscito a scaldarti il cuore mentre te lo strappava.

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Se ti interessa leggere altro sulla Trilogia della frontiera, ho parlato del primo volume, Cavalli selvaggi, qui e qui, e del secondo volume, Oltre il confine, qui. 😉

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L’amore tracimante per la scrittura, per la vita e per una Parigi che è un pezzo di giovinezza in Festa mobile di Hemingway

La mia edizione di Festa mobile.
Foto scattata nel novembre 2023.
La mia edizione di Festa mobile.
Foto scattata nel novembre 2023.

È la Parigi dei piccoli caffè, di legna per l’inverno e di bucce di mandarini sul fuoco del camino mentre rifletti su un nuovo racconto. È la Parigi che ospita in una via fredda e spazzata dal vento la libreria più simpatica, calda e accogliente del mondo, dove la proprietaria ti presta i libri perché tu non hai soldi per comprarli. È la Parigi delle passeggiate solitarie e piene di leggerezza al termine di sessioni produttive di scrittura. È la Parigi che ti offre nei grandi giardini rifugi stimolanti; la Parigi dove sei triste quando il parco è chiuso e sbarrato e devi girargli intorno invece di attraversarlo mentre torni a casa. È la Parigi dei whisky e dei caffè crème, di pugilato e corse di cavalli e scommesse; la Parigi di pittori e pescatori, delle bancarelle di libri sulla Senna in cui trovi nuove uscite a pochissimo prezzo. È la Parigi dove con tutti quegli alberi, anche quando spogli, non puoi mai sentirti solo; la Parigi dove la primavera arriva lenta ma nitida, e quando sembra stentare finisce che una notte di vento caldo la porta all’improvviso in una sola mattina; la Parigi dove allora, quando arriva la primavera, non vi sono problemi eccetto dove andare per sentirsi più felici, e questo è quasi commovente.
È la Parigi dove non puoi scrivere di Parigi – Parigi, no, non la conosci ancora abbastanza bene – ma in giornate selvagge, fredde e ventose riesci a scrivere del Michigan con una semplicità che ti riscalda.
È questa la tua Parigi, la Parigi della scrittura, questa dove insegui il tuo sogno. Questa dove Gertrude Stein ti ospita nel suo salotto, dove Ezra Pound ti coinvolge in progetti altruisti; questa dove frequenti e conforti Scott Fitzgerald, l’amico che più di tutti, indiscutibilmente, sembrerà uscire dalle pagine delle tue memorie con la sua sensibilità, le sue ansie, le sue passioni e le sue dipendenze, in un ritratto toccante perché umanissimo. Perché, sì, di queste persone scriverai in futuro con una noncuranza affettuosa in grado di colpire come una bomba chi ti leggerà.
Perché ci scriverai, di questa tua Parigi. Ci scriverai di questa Parigi in cui, nonostante i racconti continuino a tornarti indietro, riconosci già in te una fede assoluta e una consapevolezza profonda rispetto alla scrittura; di questa Parigi in cui devi far quadrare i conti, in cui certe strade le eviti perché non puoi permetterti di farti venire fame, ma in cui la verità è che tu e Hadley, la tua amata moglie Hadley, l’eroina di queste storie, vi sentite invulnerabili – la verità è che non potreste essere più felici di così.

*

La Parigi di Hemingway è intima, avvolgente e intensa come queste pagine sono vivide, nostalgiche, autentiche, fluttuanti. Festa mobile è un libro pieno di vita e di malinconia insieme. Tracimante di amore per l’arte, per la scrittura, per un luogo che è un pezzo di giovinezza. Tracimante di voglia di vivere, e di amare, e di scrivere. È un’auto-incursione intima, dolce, in qualche modo sconvolgente. Un documento imperfetto ma ineguagliabile di un pezzo di vita. Un tributo puro e autentico all’importanza della memoria, che all’ultima pagina mi ha travolto in tutta la sua portata, e mi ha commossa nel profondo.

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Il vecchio e il mare è un romanzo sulla dignità e sul valore della lotta

Vita e dignità. Vita è dignità. Credo si racchiuda qui, in queste due parole semplici e immense, il significato ultimo de Il vecchio e il mare, il lavoro forse più noto di Ernest Hemingway.

La mia edizione de Il vecchio e il mare.
Foto scattata nel dicembre 2023.

Il vecchio e il mare. Il vecchio, e il mare. Due parole semplici, ancora, nel titolo italiano che risulta quanto mai efficace, peraltro ricalcando quello inglese The old man and the sea, nel richiamare suggestioni e profondità di rara bellezza, concentrando in sé e comunicando d’impatto il carattere e la natura del libro. Perché una trama dalla semplicità disarmante – un vecchio pescatore che per alcuni giorni lotta in alto mare per riuscire a pescare e a portare a riva un grosso marlin – diventa, nella penna di Hemingway, libro di forme e sfumature abbinate a contrasto: malinconico e infiammato, colmo di forza e di dolcezza, carico di corporeità e profondamente spirituale – questo, tutto questo e tutto insieme, è Il vecchio e il mare.

È, soprattutto, inno alla vita e metafora della vita.

Inno alla vita – a quella umana, certo, ma non solo: ciò emerge dal modo in cui uomo e pesce sono posti sullo stesso piano nel contesto di uno scontro alla pari, che mette in luce il possesso di un’eguale dignità – la stessa dignità che è anche prerogativa di tutti gli altri animali (lo capiamo, ad esempio, dall’incontro con l’uccellino). In questo senso, l’uomo deve lottare come ognuno di loro, e la lotta di Santiago è la lotta del marlin ed è la lotta dell’uccellino e di qualsiasi altra creatura sul mare e sulla terra.
Derivano allora da qui, dall’impatto con questa consapevolezza, le sensazioni contrastanti che la lettura può suscitare: l’empatia per il pescatore quanto per il marlin; la tensione per la difficoltà di prevedere un finale; una speranza nebulosa, senza direzione, dovuta alle tendenze opposte che spingono a parteggiare per l’uno e insieme per l’altro, perché entrambi sono degni di rispetto, e perché la solitudine e la testardaggine del marlin sono le stesse del pescatore (e Santiago lo sa, e per questo la sua lotta è ancora più tragica); da un certo punto in poi la speranza, contro ogni razionalità, nella vittoria del vecchio; infine la frustrazione e l’impotenza, e forse anche la rabbia, non tanto perché quello del marlin è un sacrificio, quanto perché è un sacrifico vano, proprio come quell’eroismo, vano ma necessario, per il pescatore in un senso, per il marlin in un altro.

Metafora della vita – perché è la vita, nient’altro che la vita, che riconosciamo in quei quattro giorni di lotta di Santiago contro il marlin e contro i pescecani.
La vita come un avvicendarsi di sfide e difficoltà – quelle che ci troviamo ad affrontare ogni giorno nel nostro percorso – e la vita in toto, come unica grande meravigliosa lotta. È questa la metafora che istintivamente cogliamo tra le pagine, questa la metafora che emerge, trasparente e magnifica, in tutta la sua forza, nella prosa così scarna e semplice e al contempo potente di Hemingway. 
E se è vero che una lotta implica un esito di vittoria o di sconfitta, è anche vero – e questo è il messaggio più bello che Il vecchio e il mare trasmette – che il punto non è vincere, ma lottare. È proprio questo – lottare – che fa la differenza, perché anche quando la vita ha la meglio su di noi, anche quando le sue difficoltà e i suoi ostacoli ci schiacciano e ci buttano giù, quella dignità – la dignità che deriva dall’atto stesso di vivere, ricollegandoci al punto sopra – noi continuiamo a conservarla, e la affermiamo con la lotta. E se anche il nostro destino fosse quello di venire atterrati, se anche i pescecani fossero troppi, essersi messi in gioco e aver lottato a testa alta cambierà tutto. Ecco perché un uomo può essere distrutto ma non sconfitto.
Ed è qui, è questo il punto centrale: il valore della vita, il valore della lotta. La dignità della lotta. Ecco il leitmotiv di questo libro dove la lotta nella vita diventa lotta per la vita.
Perché la lotta di Santiago è lotta per la dignità. Il vecchio vuole uccidere il pesce e portarlo a riva per se stesso – solo per se stesso. Per confermare a se stesso il proprio valore, la propria dignità di persona, di quella vita così semplice eppure così complicata che ha vissuto e che è l’unica nella quale si riconosce: è in gioco la sua verità, e quindi, appunto, la sua dignità. Ecco il motivo per cui la sua parte razionale, realista e pessimista insieme, viene contraddetta e vinta da quella irrazionale, volitiva e ottimista – perché lui ha bisogno del suo riscatto. Ed è per questo che noi ci ritroviamo a perdonarlo per la caccia al marlin e a odiare i pescecani che hanno reso vano il sacrificio di quest’ultimo, anch’esso un combattente, anch’esso degno di rispetto, detentore di una dignità che, insieme a Santiago, avevamo riconosciuto da subito.

Ed Hemingway riafferma con forza tutto questo con la scelta di un finale che omaggia il pesce quanto l’uomo; di un finale che rimarca, insieme alla dignità di entrambi, il valore della lotta, sublimandolo nell’immagine di un uomo che continua a rialzarsi e a sognare, nonostante la vecchiaia, nonostante tutto; di un finale che lascia un messaggio di speranza e di fiducia per un nuovo inizio, con un’apertura emozionante e meravigliosa alla vita.

“Ora non è il momento di pensare a quello che non hai. Pensa a quello che puoi fare con quello che hai.”

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Oltre il confine è il romanzo immenso di uno scrittore immenso

Ci sono pagine di questo libro dove semplicemente smetti di respirare. Pagine che pensi di fermarti perché non sei in grado di reggere un minuto di più la storia e la prosa. Pagine che dopo averle lette resti a fissare il soffitto per ore. È questo che ho fatto alla fine della prima parte, è questo che ho fatto alla fine del libro.
E comincio così il mio articolo perché non so da dove altro cominciare se non da quello che leggere Oltre il confine comporta. Se non da quello che la penna immensa di McCarthy ti lascia.
Gli occhi gialli di una lupa, ad esempio. Sarà impossibile dimenticarli.
È con lei, la lupa, che inizia il viaggio di Billy Parham avanti e indietro per il confine tra New Mexico e México, un percorso fisico e interiore lungo strade familiari e ignote, un’iniziazione violenta che passa per margini geografici invisibili, per simboli e significati che si deformano laddove niente sembra cambiare.
Oltre il confine è un western di formazione, e con Cavalli selvaggi, primo della Trilogia della frontiera e suo predecessore, condivide il fulcro motore del viaggio e il potere arcano dell’ambientazione, discostandosene tuttavia per l’orientamento e, soprattutto, per il tono: laddove il primo era spensierato, il secondo è cupo; laddove il primo era sfumato e misterioso, il secondo è concreto e mistico; entrambi ti scavano dentro, ma se il primo lo faceva ammaliandoti, il secondo lo fa lacerandoti.
Anche la linea sui protagonisti è diversa: la scelta di lasciare John Grady Cole un poco sfuggente si accorda bene – e contribuisce – al fascino incantato e fumoso di Cavalli Selvaggi; Billy Parham, invece, lo si inquadra subito, e i suoi intenti e rimpianti orientano una trama più tangibile e toccante.
Billy è un ragazzo onesto, generoso, con un forte senso del dovere e con un senso di appartenenza che vive nel modo più profondo proiettandolo sugli altri. Non per niente, è il leitmotiv del riportare a casa a guidare l’intera storia – e riportare a casa implica il confronto col confine; riportare a casa determina incontri con persone, eventi, storie – come se per Billy la ricerca di sé passasse attraverso il recupero del posto giusto per chi, in un modo o nell’altro, ai suoi occhi ha perso la strada, o per chi a quel posto è stato sottratto.
In questo percorso di passaggi(o), legami con animali, persone e luoghi si creano e mutano in continuazione, configurandosi base e forza portante dell’idea stessa di appartenenza. Lo vediamo in tanti modi: nell’implicito doppio di quel es mia tra un ragazzo e una lupa; nel rapporto profondo e tormentato tra due fratelli; nel sentimento silenzioso ma altissimo di un giovane nei confronti di un luogo che ha sempre chiamato casa.
In questi e in molti altri sensi, Oltre il confine è una storia che parla d’amore. Una storia pervasa da moti di struggimento e di tenerezza che scuotono nel profondo. Come scuote l’altezza e la potenza della scrittura. McCarthy, per esempio, non ti racconta mai cosa pensano i personaggi – te li mostra, pensieri e sentimenti, nel mutare della luce sotto i loro sguardi, nel modo in cui percepiscono il paesaggio, nel loro rapporto con la natura e gli elementi (emblematico, in questo senso, come l’immensa solitudine di Billy ci travolga mentre lui accarezza il cavallo, alza lo sguardo verso un falco o raccoglie la legna per il fuoco). Allo stesso modo – e questo è ancora più disarmante – McCarthy riesce a parlarti di tutto ciò che è la vita, il dolore, l’esperienza umana semplicemente raccontandoti gesti quotidiani (quelli compiuti in casa, ad esempio, come riempire un piatto o accendere una stufa).
Ecco perché nel gesto più semplice c’è una solennità che sconvolge; ecco perché anche in pagine prive di eventi c’è tutto; ecco perché la storia ha un sapore epico dalla prima all’ultima parola.
La storia, poi. La storia.
Una storia di cavalli, terra rossa, alte montagne, deserti, braci, solitudine, piste di carovane, sangue, orazioni, polvere, uomini generosi e uomini crudeli, abiti logori, fratellanza, vento, altopiani selvaggi, sensi di colpa, praterie, e nel frattempo soli rossi che fremono, fiumi come metallo di fonderia, pascoli notturni azzurri e silenziosi, il sibilo del nevischio che muore tra le braci, cittadine al buio come serpenti adorni di pietre preziose, antichi pioppi in un paesaggio da fiaba, il silenzio di temporali lontani come in una campana di vetro, e poi lunghi tramonti blu, storie raccontate a un cavallo coperto di brina bianca, luci lunari tra le nuvole come candele piantate su teschi, gridi nell’oscurità nelle scintille di un fuoco, stelle come fori in una lanterna di latta; e gli occhi della lupa che si incendiano come lampioni di una porta su un altro mondo; e in un mucchio di carboni una finestrella segreta, aperta sul nocciolo infuocato della terra; e poi chiazze di umidità sui muri che diventano mappe di antichi mondi; e cancelli d’ingresso di un’antica impresa, caduti per terra, nella griglia metallica lucida dell’acqua in un campo.
È questo che ci dona la penna immensa di uno scrittore immenso. Tutta questa poesia. Tutta questa poesia nel mondo. Tutta questa poesia nel suo realismo desolato. E una prosa che la contiene
Da lettori, come si può reggere una prosa così? Soprattutto, come si può leggere un libro del genere senza vivere ogni pagina come una religione? Perché ogni pagina ti spalanca gli occhi sul mondo.
Sì, perché è del mondo che si parla in questo libro. Perché il confine non è tanto quello fisico tra New Mexico e México, non è tanto il confine di quelle imprese segnate dal destino che dividono per sempre le vite tra il prima e l’adesso, né tanto quello tra chi è Billy all’inizio e alla fine di questo viaggio. È il confine – sfumato, vago, nullo – tra il mondo e le storie, tra la tua storia e quella degli altri, tra tutte le storie e l’unica storia.
È il confine che ti porta oltre te stesso. È il confine tra quello che sei prima di leggere questo libro e quello che sei dopo.
Non guarderai più niente con gli stessi occhi.

La mia edizione di Oltre il confine.
Foto scattata nel dicembre 2023, in Sardegna, poco fuori dal mio paese.
La mia edizione di Oltre il confine.
Foto scattata nel dicembre 2023, in Sardegna, poco fuori dal mio paese.

***

Come avevo già fatto per Cavalli selvaggi, anche in questo caso ho deciso di trascrivere una serie di passi che mi hanno colpito particolarmente e che credo risultino rappresentativi, almeno in parte, delle sensazioni che Oltre il confine trasmette. Dico ‘almeno in parte’ perché ne avrei voluti riportare molti di più, ma mi sono accorta che diversi passi, soprattutto quelli più mistici, esprimono tutto il loro potere solo all’interno del contesto in cui si trovano, e quindi ho preferito lasciarli fuori da questa rassegna.
Ho raccolto quelli trascritti sotto alcune parole chiave; le pagine si riferiscono all’edizione Einaudi 2014.

Atmosfere diurne

“[…] e osservava con occhi socchiusi l’ovest, dove il sole fremeva in un lago asciutto e rosso sotto le montagne spoglie e le antilopi si muovevano dondolando la testa tra il bestiame nella pianura.” (p. 7)

“Davanti a lui le montagne brillavano di luce bianca accecante. Sembravano appena create dalla mano di un dio imprevidente che forse non aveva neppure deciso a cosa sarebbero servite. Appena create in quel senso. Sentì il cuore scoppiargli in petto e il cavallo, giovane come il ragazzo, scrollò la testa, fece uno scarto verso il ciglio della strada e poi scalciò con uno degli zoccoli posteriori.” (p. 28)

“L’erba gialla vibrava al soffiare del vento e la luce del sole correva per la campagna davanti alle nuvole in movimento.” (p. 55)

“Ripartirono alla ricerca di ciò che avrebbe portato loro il nuovo giorno e un’ora dopo fermarono i cavalli sul fianco orientale della scarpata e rimasero a guardare il sole che saliva come un vetro incandescente dalla pianura di Chihuahua, a ricreare il mondo dalle tenebre.” (p. 163)

“Le nuvole si erano spostate e la giornata era limpida e quieta. Sulla pianura erbosa non c’era assolutamente niente.” (p. 219)

“[…] la polvere leggera sollevata dal branco era ancora sospesa nell’aria come un velo di polline estivo.” (p. 221)

“Doveva essere rimasto inginocchiato a lungo perché il cielo a est era diventato grigio e le stelle finalmente affondavano nel lago pallido fino a diventare cenere e gli uccelli incominciarono a chiamare dalla riva lontana e il mondo ancora una volta ricomparve.” (p. 284)

“I bassifondi contenevano acqua stagnante a perdita l’occhio, che la luce del tramonto faceva sembrare un lago di sangue. […] le cime delle Animas erano illuminate dall’ultimo sole del giorno, che colorava di rosso la neve sui picchi. Più a sud, in lontananza, si scorgevano le cordilleras pallide e antiche del Messico, che segnavano il confine ultimo del mondo visibile.” (p. 299)

“Fermò il cavallo sulla vecchia pista delle carovane che stava percorrendo e guardò verso le sierre a ovest, nere contro lo sfondo rosso sangue del cielo.” (p. 310)

“Sulla pianura lontana oltre il lago la polvere soffiava da Babìcora come se fosse stata incendiata.” (p. 323)

“Il sole rosso che brillava nell’ampia fenditura tra le montagne davanti a lui perdeva la sua forma e veniva lentamente risucchiato per illuminare tutto il cielo con un intenso alone rossastro.” (p. 333)

Atmosfere notturne

“Solo il fiato gli diceva da che parte tirava il vento e l’osservava apparire e svanire, apparire e svanire continuamente davanti a sé.” (p. 6)

“Le prime stelle spuntarono a sud, come appese all’intreccio di rami morti degli alberi lungo il fiume. La luce della luna che ancora non si era levata vibrava sulfurea a est della valle. Osservò la luce espandersi lungo i contorni della prateria deserta e la cupola bianca e grassa e membranosa della luna sollevarsi da terra.” (pp. 9-10)

“Le luci della cittadina sparse sulla prateria parevano nella vallata blu un serpente adorno di pietre preziose nel fresco della sera.” (p. 43)

“Le montagne verso sud erano nere contro il cielo viola. La neve sulle cime a nord così pallida. Come spazi lasciati per scrivere un messaggio.” (p. 43)

“Quando si svegliò di nuovo, la luna era ormai calata e il fuoco era quasi spento. Il freddo era pungente. Le stelle ferme al loro posto, come fori in una lanterna di latta.” (p. 71)

“Non c’era vento, eppure il piano immobile dell’acqua tremò nella luce biancastra come se qualcosa vi fosse passato sopra e una luna imperfetta tremò nell’acqua mossa, si piegò e si drizzò nuovamente e poi tutto tornò come prima.” (p. 140)

“[…] i pascoli verso sud, azzurri e silenziosi sotto la luna nascente, la staccionata che si perdeva nel buio sotto le montagne e l’ombra della staccionata che attraversava la campagna, illuminata dalla luna, simile a una sutura.” (p. 141)

“Si svegliò più volte nel corso della notte e a ogni risveglio Cassiopea si allontanava sempre più dalla stella polare e a ogni risveglio ciò che era stato era stato e nulla mai avrebbe potuto mutarlo.” (p. 142)

“Si stava scatenando un temporale verso sud, lì dove la strada finiva nel deserto e tutto intorno, sotto le nuvole, prevaleva un colore blu e le sottili strisce dei lampi che si susseguivano con insistenza, sulle montagne in lontananza, di un colore blu vivo, scoppiavano nel silenzio più assoluto, come un temporale in una campana di vetro.” (p. 155)

“Non c’erano suoni, tranne quello prodotto dal vento che soffiava sull’erba. La stella della sera era bassa all’orizzonte, rotonda e rossa come un sole al tramonto.” (p. 218)

“Il sole che scendeva sotto i banchi di nuvole aveva prosciugato la luce dorata, lasciando la terra tutta blu, fredda e silenziosa.” (p. 224)

“Con il buio apparve un diafano sciame di stelle. Non riusciva a immaginare a che cosa servissero, erano così tante.” (p. 239)

“Alla sua sinistra c’era la sagoma scura del cavallo, assicurato al terreno; sollevava la testa oltre l’orizzonte per origliare tra le costellazioni, poi si chinava e riprendeva a mangiare l’erba. Studiò quei mondi che disordinatamente stavano facendo la loro comparsa nella notte senza nome e cercò di parlare con Dio di suo fratello; poco dopo si addormentò.” (pp. 257-258)

“Si alzò e si incamminò verso il lago, con il serape sulle spalle, guardando le stelle. Il vento si era calmato e l’acqua era nera e immobile. Sembrava un pozzo di quell’altopiano desertico dentro il quale stavano sprofondando le stelle.” (p. 283)

“[…] si alzò e osservò le stelle invernali scivolare via nel buio, verso il nulla. […] spostò gli occhi nel punto in cui il vento agitava l’erba nella fredda notte stellata, come se fosse la terra stessa a muoversi, e disse a bassa voce prima di riaddormentarsi che l’unica cosa che sapeva di tutto ciò che si doveva sapere era che non vi sono certezze su niente.” (p. 302)

“Il rumore della pioggia che cadeva sulla terra rossa indurita della strada pareva quello di un branco di cavalli che in lontananza attraversava un ponte.” (p. 317)

“[…] la città svanì alle sue spalle e le stelle sciamarono nel cielo buio […]” (p. 326)

“Cavalli e cavaliere gettavano sul terreno un’ombra verticale blu prodotta dalla luce della luna. […] Un sole bianco si stava per levare. Abbeverò i cavalli in una ciénega erbosa da cui si slanciavano antichi pioppi in un paesaggio da fiaba, si avvolse nella coperta e si addormentò.” (p. 330)

Luna

“Sulle montagne splendeva, un po’ inclinata, una falce di luna, simile a un occhio mezzo chiuso per la rabbia.” (p. 103)

“La luna sottile, a forma di corno, era appoggiata sul dorso a occidente come un graal e la luminosa Venere le stava direttamente sopra, come una stella su una barca.” (p. 231)

“[…] e la luna si alzava cieca e bianca a est […]” (p. 280)

“Più a valle la luce madreperlacea della luna traspariva dai banchi di nuvole come se fosse una candela piantata su un teschio.” (p. 362)

Fuoco

“Il fuocherello guizzava nel vento e il nevischio sottile cadeva di traverso giù dal cielo nero e moriva con un sibilo tra le braci.” (p. 64)

“In quell’altopiano selvaggio rimase a lungo coricato al freddo e al buio ad ascoltare il vento e a guardare le ultime scintille del fuoco che si spegneva e le crepe rosse nei carboni di legna che si spezzavano lungo venature inattese. Come se dal legno che si consumava emergessero geometrie nascoste, il cui ordine poteva venire completamente rivelato soltanto, così va il mondo, nel buio e nella cenere.” (p. 112)

“Il vento soffiò per tutta la notte. Consumò il fuoco, consumò i carboni sul fuoco e il fil di ferro incandescente bruciò brevemente al buio della notte come l’armatura di un enorme cuore, poi s’annerì e il vento trasformò i carboni in cenere e soffiò via la cenere e pulì la terracotta su cui erano stati appoggiati i carboni e le ceneri fino a che, a eccezione del fil di ferro annerito, non rimase più alcuna traccia del falò e per tutta la notte passarono nel buio oggetti che non avevano una forma precisa, e tuttavia avevano una destinazione.” (p. 148)

“I pochi carboni ancora accesi sembravano segreti e improbabili. Come gli occhi di cose che si era voluto disturbare mentre sarebbe stato meglio lasciar in pace.” (p. 283)

“Le scintille che fuggivano verso la campagna si spegnevano e svanivano come un grido nell’oscurità.” (p. 323)

“Il fuoco nella bajada era poco più che un mucchio di carboni attizzati che, nascosti nel terreno, rompevano l’oscurità come una finestrella segreta aperta sul nocciolo infuocato della terra.” (p. 333)

Lupi/Lupa

“Correvano nella pianura tormentando le antilopi che si muovevano come fantasmi sulla neve disegnando cerchi; tutt’intorno si alzava una polvere bianca al chiaro di luna e il fiato degli animali saliva pallido come fumo nell’aria fredda, come se dentro di loro ardesse un fuoco; nel silenzio i lupi volteggiavano, si contorcevano e spiccavano balzi e parevano appartenere a un altro mondo.” (p. 6)

“Il lupo è fatto come è fatto il mondo. Non si può toccare il mondo. Non si può tenerlo in mano perché è fatto solo di respiro.” (p. 41)

“Rimase sveglio al freddo per tutta la notte. Di tanto in tanto si alzava, sistemava il fuoco e ogni volta lei lo osservava. Quando le fiamme si ravvivavano, gli occhi di lei si incendiavano come i lampioni di una porta su un altro mondo.” (p. 64)

“Ma quegli occhi non abbandonarono il ragazzo, né cessarono di brillare e quando la lupa abbassò la testa per bere, nell’acqua scura apparve un altro paio di occhi, come di un altro lupo appartenente al mondo del sottosuolo, nascosto in angoli segreti, perfino nelle finte pozze d’acqua come quella, perché la lupa fosse sempre rincuorata e mai del tutto abbandonata.” (p. 69)

“Lei lo guardò con quei suoi occhi gialli, che tradivano non disperazione, ma soltanto quell’insondabile, profonda solitudine che è l’impronta più tipica di questo mondo.” (pp. 90-91)

“Quando l’ultimo lupo si fu fatto avanti, formarono una mezzaluna, con gli occhi simili a torce allineate per illuminare il mondo […]” (p. 258)

Immagini mistiche

“Sembrava intento a definire la propria posizione nel mondo. Intento a definire con un arco o con una corda lo spazio tra il proprio essere e il mondo. Ammesso che un simile spazio esistesse. Ammesso che fosse conoscibile.” (p. 21)

“Vi sono imprese segnate dal destino che dividono per sempre le vite tra il prima e l’adesso.” (p. 111)

“Disse che il mondo poteva solo essere conosciuto per come esisteva nei cuori degli uomini. Perché per quanto sembrasse un luogo che conteneva degli uomini, in realtà era un luogo contenuto nei loro cuori e quindi per conoscerlo era lì che bisognava guardare […]” (p. 115)

“Le cose separate dalle loro storie non hanno senso. Sono semplici forme. Di una certa dimensione e di un certo colore. Di un certo peso. Quando ne abbiamo perso il significato, non hanno più neppure un nome. La storia, d’altro canto, non può mai venir separata dal luogo al quale appartiene, perché essa è quel luogo.” (p. 122)

“Perché questo mondo che ci pare una cosa fatta di pietra, vegetazione e sangue non è affatto una cosa ma è semplicemente una storia. E tutto ciò che esso contiene è una storia e ciascuna storia è la somma di tutte le storie minori, eppure queste sono la medesima storia e contengono in esse tutto il resto. […] la storia non ha dimora né luogo d’essere se non nel racconto, è lì che vive e dimora e quindi non possiamo mai aver finito di raccontare. Non c’è mai fine al raccontare.” (p. 123)

“Non è facile allontanarsi da Dio, capisci? Non è facile. Nel profondo di ogni uomo c’è la consapevolezza che qualcosa sa che egli esiste. Qualcosa sa, e quel qualcosa non lo si può sfuggire né eludere.” (p. 127)

“È ciò a cui aneliamo e che abbiamo timore di cercare ed è soltanto questo che ci può salvare.” (p. 131)

“Il compito del narratore non è facile, disse. Pare che sia obbligato a scegliere la storia che racconta tra le tante possibili. Ma naturalmente non è così. Al contrario, si tratta di derivarne tante dall’unica storia.” (p. 133)

“Alla fine, la strada di ciascuno è la strada di tutti. Non vi sono viaggi isolati perché non vi sono viandanti isolati. Tutti gli uomini sono uno e non vi è un’altra storia da raccontare.” (p. 135)

“Credo sia meglio studiare le cose più piccole. Poi quelle più grandi seguiranno. È nelle cose più piccole che si possono fare progressi. È lì che i propri sforzi si vedono ripagati. Forse è solo questione di atteggiamento.” (p. 202)

“È difficile anche per due fratelli viaggiare insieme in una spedizione come questa. La strada ha le proprie ragioni e non vi sono due viaggiatori che interpretino allo stesso modo quelle ragioni. Se effettivamente riescono mai a comprenderle. […] La forma della strada è la strada stessa. Non c’è altra strada che possegga quella forma, al di fuori di quella. E ogni viaggio iniziato su di essa verrà portato a termine. […]” (p. 202)

“Sia che la vita di un uomo fosse scritta da qualche parte in un libro, sia che prendesse forma giorno dopo giorno, era sempre quella, perché consisteva di una sola realtà, che era il fatto stesso di viverla.” (p. 331)

“La gente si preoccupa del futuro. Ma non c’è futuro. Ogni giorno è fatto dei giorni che l’hanno preceduto. Anche il mondo deve essere sorpreso per come ogni giorno si mettono le cose. Forse perfino Dio.” (p. 337)

“I nomi dei cerros e delle sierras e dei deserti esistono soltanto sulle carte geografiche. Diamo loro un nome per non perdere l’orientamento. Tuttavia, quei nomi li abbiamo coniati proprio perché avevamo perso l’orientamento. Non si può perdere il mondo. Siamo noi il mondo. Ed è perché questi nomi e queste coordinate sono frutto della nostra nominazione che non ci possono salvare.” (p. 338)

“Gli uomini sentono gran rispetto per i fatti della storia. Si potrebbe perfino dire che ciò che dà significato alle cose è unicamente la storia di cui queste sono state partecipi. Ma dov’è collocata quella storia?” (p. 352)

“[…] ultimadamente la verdad no puede quedar en ningùn otro lugar sino en el habla.” (p. 358)

“Disse che gli uomini non riescono a capire che i morti abbandonano non un mondo, ma nient’altro che l’immagine del mondo nel cuore degli uomini. Disse che non si può abbandonare il mondo, perché esso è eterno sotto ogni aspetto, così come lo sono tutte le cose in esso contenute.” (p. 360)

“Nosotros mismos somos nuestra propia jornada. Y por eso somos el tiempo tambièn. Somos lo mismo.” (p. 360)

Altre immagini

“[…] ed entrarono in Messico, nello stato di Sonora, per nulla diverso dalla regione che avevano appena lasciato, eppure totalmente alieno e inquietante.” (p. 65)

“Continuò a cavalcare e le alte montagne a sudovest non sembravano affatto più vicine alla fine della giornata, quasi fossero un’immagine impressa nella retina.” (p. 76)

“I rametti attorcigliati sul dorso del burro sembravano un arazzo di ossa.” (p. 89)

“Disse che le impronte della lupa venivano dal Messico. Disse che la lupa non sapeva nulla di confini. Il giovane don annuì, come per dire che era d’accordo, ma poi disse che importava poco ciò che la lupa sapeva o non sapeva e che se la lupa aveva attraversato quel confine era tanto peggio per lei, perché il confine continuava a esistere.” (p. 101)

“I coyote guaivano lungo le colline a sud e lanciavano richiami dalla sagoma blu della cordigliera, e le loro grida sembravano nascere dalla notte stessa.” (p. 107)

“Sulla parete occidentale della cupola i nidi delle golondrinas sembravano colpi di mortaio tra i paramenti sbiaditi dei santi.” (p. 129)

“[…] si vedevano due gru immobili, ancorate alla loro immagine riflessa, nell’ultima luce del giorno, come statue in un giardino abbandonato e spogliato di ogni altra cosa da qualche calamità.” (p. 147)

“[…] l’acqua ferma nei solchi splendeva nella luce della sera come una griglia metallica lucida che si allungava in lontananza. Come se i cancelli d’ingresso di un’antica impresa fossero caduti a terra oltre i pioppi, lungo la cunetta.” (p. 175)

“Lui si voltò leggermente e guardò il suo cavallo. Vedeva, piegate come un trittico scuro in un fermacarte di vetro, le forme di due uomini e una ragazza illuminate dalla luce fuggevole del fuoco nel centro nero dell’occhio dell’animale.” (pp. 178-179)

“La casa puzzava di umidità e di paglia vecchia e sull’intonaco gonfio e cadente le infiltrazioni d’acqua avevano disegnato ampie mappe color seppia che sembravano riprodurre antichi regni, antichi mondi.” (p. 194)

“Tre anatre scure, immobili, sulla calma di peltro dell’acqua.” (p. 234)

“Il cavallo avanzava a fatica, Billy afferrò la cavezza e prese a camminargli di fianco, parlandogli. Il cavallo, coperto da uno strato bianco di brina, risplendeva come una magia su quella pianura sempre più scura. Quando gli ebbe detto tutto quello che sapeva dire, cominciò a raccontargli delle storie. Gli raccontò storie in spagnolo che sua nonna gli raccontava da bambino e quando ebbe raccontato tutte le storie che ricordava, si mise a cantare.” (p. 239)

“Nella luce che usciva dalle finestre, i tronchi multicolore dell’alameda apparivano pallidi come ossa.” (p. 282)

“Le gru stavano migrando a sud e lui le osservò volare in formazioni lineari lungo invisibili corridoi, disegnati nel loro sangue da centinaia di migliaia di anni.” (p. 285)

“Le ombre, lì dove raggiungevano il fiume, sembravano una scrittura.” (p. 286)

“[…] e osservò il cielo profondo, ceruleo e teso che copriva il Messico intero, dove il mondo antico si aggrappava alle pietre e alle spore delle cose viventi e viveva nel sangue degli uomini.” (p. 287)

“Un giorno all’alba, fermò il cavallo a un incrocio per Buenaventura e osservò gli uccelli acquatici lasciare strisce sul fiume e sulle lagune isolate, le ali che si muovevano lentamente con l’alba rossa sullo sfondo.” (p. 288)

“Una volta in Arizona ho visto la pioggia cadere su una strada d’asfalto. Per un buon mezzo miglio piovve su un lato della striscia centrale, mentre dall’altra parte era asciuttissimo. La striscia bianca faceva da spartiacque. […] Una volta ho visto tuonare nel bel mezzo di una tempesta di neve […] Tuoni e lampi. I lampi non si vedevano, ma intorno tutto si illuminava, bianco come il cotone.” (p. 307)

“Aveva due occhi neri arrossati, cupi e vuoti, simili a scorie di piombo versate in un foro per isolare qualcosa di virulento e contagioso.” (p. 312)

“La sera sentì di nuovo il volo alto delle gru, sopra le nubi, in bilico sulla linea della curvatura terrestre. Con occhi metallici solcavano i sentieri che Dio aveva scelto per loro. Nei cuori il flusso delle maree.” (p. 338)

“Al di là degli alberi si vedeva il contorno limpido e piatto del fiume, simile a un coltello.” (p. 343)

“Il fiume dietro gli alberi sembrava metallo di fonderia.” (p. 365)

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Se ti interessa leggere altro sulla Trilogia della frontiera, ho parlato del primo volume, Cavalli selvaggi, qui e qui, e del terzo volume, Città della pianura, qui. 😉

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Cavalli selvaggi e L’isola di Arturo: (più di) qualcosa in comune

Cavalli selvaggi di Cormac McCarthy e L’isola di Arturo di Elsa Morante: due delle storie più intense, evocative e travolgenti che abbia letto quest’anno. Gli stati d’animo di John Grady e di Arturo – e gli scenari in cui i due si muovono – mi hanno emozionato e scavato dentro, accompagnandomi ben oltre l’ultima pagina: su queste due storie sono tornata – torno – di continuo col pensiero, e più ci ragiono, più mi sembra di cogliere, con sempre maggior stupore, aspetti che i due romanzi, pur così diversi l’uno dall’altro, si trovano a condividere. Provo a elencarli qui sotto.

Le mie edizioni de L'isola di Arturo e Cavalli selvaggi. 
Foto scattata nell'autunno 2023.
Le mie edizioni de L’isola di Arturo e Cavalli selvaggi.
Foto scattata nell’autunno 2023.
  • La tensione al viaggio, all’avventura, alla scoperta del mondo come presupposto per indagare e scoprire se stessi. Che poi queste avventure siano concretamente vissute o soltanto immaginate e bramate, poco importa.
  • Il carattere di romanzo di formazione. Il percorso di crescita interiore fa da filo conduttore in entrambe le storie, innestato nell’una su un impianto western, nell’altra sul quadro agreste e marinaro di un’isola italiana.
  • L’indagine sulla solitudine, come condizione e come sentimento, in ogni sua declinazione. Ricercata e paventata, bramata e detestata, goduta e sofferta, magnifica e terribile.
  • Il richiamo del passato. È incredibile quanto gli “antichi condottieri” dei libri che ispirano Arturo abbiano in comune con lo spirito dei nativi americani che nell’ora “delle ombre lunghe” suggestiona John Grady.
  • L’innamoramento e il passaggio attraverso una storia d’amore come parte dell’esperienza formativa.
  • Il finale. Le “chiuse” che McCarthy e Morante hanno voluto dare alle loro storie sono tra loro così simili che pensarci risulta addirittura spiazzante.
  • La forza delle atmosfere. Due ambientazioni completamente diverse, certo, ma che siano i cieli e le praterie americane o le stelle e il mare di Procida, e che vengano vissute con un cavallo o con una barca, le atmosfere raccontate nei due romanzi hanno lo stesso immenso potere di restare nella mente e nel cuore di chi ci si immerge.

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A Cavalli selvaggi ho dedicato un articolo qui, mentre riguardo a L’isola di Arturo puoi leggere qualcosa anche qui. 😉

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Il mistero profondo che pervade Cavalli selvaggi

La mia edizione di Cavalli selvaggi.
Foto scattata nell'inverno 2023.
La mia edizione di Cavalli selvaggi.
Foto scattata nell’inverno 2023.

La ricerca di un posto nel mondo da parte del giovane John Grady Cole, il suo viaggio a cavallo dal Texas al Messico, le esperienze con l’amicizia, la cattiveria, l’amore, l’ingiustizia, l’arroganza dei potenti, il dolore: Cavalli selvaggi è un vero e proprio romanzo di formazione, ma le atmosfere e le ambientazioni tutte western gli conferiscono un respiro raro, arcano, e il risultato è maestoso.
È un viaggio per le strade dello spazio e del tempo, è la ricerca di se stessi nella ricerca di un passato mitico, è il contatto con la propria identità nel contatto con la natura aspra e solitaria, sperduta e bellissima, onnipresente e selvaggia.
E selvaggio è anche il fascino di questo romanzo: una visione cupa, spesso desolata, del genere umano accordata a descrizioni di un lirismo intenso, a paesaggi che sembrano di mondi primordiali, a immagini di poesia pura.
C’è un mistero potente che sembra pervadere ogni pagina, un mistero che non riuscivo e non volevo sondare ma che ha coinvolto ogni fibra di me: è lo stesso mistero che mi è rimasto addosso nelle vesti di un’emozione confusa, stupefatta, di una commozione inafferrabile e profonda.

***

Credo che in casi come questi risulti utile e necessario lasciar parlare direttamente il libro. Ecco perché ho deciso di trascrivere una serie di passi che mi hanno colpito particolarmente e che credo risultino rappresentativi delle sensazioni che Cavalli selvaggi è in grado di trasmettere. Si tratta di passi che ho sottolineato, letto e riletto più volte, e mi piace l’idea di averli anche qui sul blog, di poterli ritrovare in qualsiasi momento.
Li raccolgo sotto alcune parole chiave; le pagine si riferiscono all’edizione Einaudi 2014.

Atmosfere

“Era l’ora che preferiva da sempre, l’ora delle ombre lunghe, quando nella luce rosata e obliqua l’antica strada prendeva forma davanti ai suoi occhi come un sogno del passato nel quale i cavalli dipinti e i cavalieri di quel popolo perduto, con le facce istoriate […] Quando soffiava il vento da nord si sentivano gli indiani, i cavalli, il fiato dei cavalli, gli zoccoli foderati di cuoio, il tintinnio delle lance e il perpetuo frusciare dei travois trascinati sulla sabbia […] I guerrieri, invece, fra rumori di asce e lance da età della pietra prive ormai d’ogni efficacia, avrebbero proseguito nell’oscurità destinata a inghiottirli, cantando sommessamente alla maniera degli avi e spingendosi speranzosi a sud nelle pianure che portavano al Messico.” (pp. 7-8)

“Nella notte fredda e chiara le rosse scintille del fuoco si perdevano fra le stelle.” (p. 12)

“Sdraiato sotto la coperta, John Grady contemplava il quarto di luna reclinato sulla cresta delle montagne. In quella falsa alba blu le Pleiadi sembravano levarsi nell’oscurità sopra il mondo trascinando con sé tutte le stelle, mentre il gran diamante di Orione, Cepella e il marchio di Cassiopea sembravano una rete da pesca gettata nel buio fosforescente. Rimase là a lungo ad ascoltare il respiro degli altri che dormivano e a contemplare la natura selvaggia fuori e dentro di sé.” (p. 59)

“John Grady rimase a guardare il firmamento srotolarsi dalle scure palizzate delle montagne che sorgevano a oriente. Il villaggio era buio pesto. Non un cane abbaiava. […] L’orsa maggiore al confine settentrionale del mondo ruotò e la notte parve non passare più.” (p. 80)

“Grandi pascoli verdi si estendevano a perdita d’occhio nella densa bruma violetta della sera e a occidente piccoli stormi di uccelli acquatici, come branchi di pesci in un mare infuocato, migravano a settentrione sullo sfondo delle gallerie rosse scavate nelle nuvole dalla luce del tramonto. Nella pianura più vicina videro alcuni vaqueros spingere avanti il bestiame attraverso un velo di polvere d’oro.” (p. 91)

“Di notte s’accampavano sulle alture dove il fuoco agitato dal vento saettava nel buio […]” (p. 110)

“Distesero le coperte e John Grady si tolse gli stivali, li mise accanto a sé e si sdraiò vicino alla brace. Guardò le stelle e l’ardente cintura di materia che correva lungo la nera volta celeste. Poi allungò le braccia lungo i fianchi e premendo le mani contro la terra si lasciò girare lentamente nelle tenebre di quella cupola gelida e ardente, sentendosi al centro del mondo teso e tremante che si muoveva enorme e vivo sotto le sue mani.” (pp. 118-119)

“[…] vero il cavallo, vera l’amazzone, vero il cielo e vera la terra, eppure tutto era un sogno.” (p. 131)

“Sulla mesa videro un temporale arrivare da nord e all’imbrunire la luce divenne spettrale. I verdi occhi scuri dei laghetti incastonati nella savana deserta sembravano squarci aperti su un altro universo. A ponente le nuvole gonfie di pioggia lasciavano filtrare lame di luce sanguigna che a un tratto avvolsero il paesaggio in un’aura violetta.
Sedettero sulla terra vibrante a causa dei tuoni e alimentarono il fuoco coi resti di un vecchio steccato. Stormi d’uccelli provenienti dalla campagna sbucavano dalla semioscurità sfiorando il bordo della mesa e i lampi saettavano all’orizzonte come infuocate radici di mandragola.” (pp. 136-137)

“Allora lei gli raccontava le storie della famiglia paterna e del Messico mentre le stelle cadevano a centinaia e le luci della valle sembravano muoversi come se il mondo girasse intorno a un altro centro. […] Era così bianca nell’oscurità che sembrava ardere. Come un fuoco fatuo in una foresta buia. Che ardeva freddo. Ardeva freddo come la luna.” (p. 140)

“Viaggiò tutta la notte e al primo chiarore dell’alba, in groppa al cavallo stremato, s’inerpicò su un’altura al di sotto della quale scorse il villaggio, il chiarore giallino della prime finestre illuminate, le case dai vecchi muri di fango e gli esili fili di fumo che si levavano verticalmente nell’alba senza vento perdendosi nell’oscurità. L’aria era così immobile che il villaggio sembrava appeso a quei fili.” (p. 257)

“Poi venne buio pesto e il deserto piombò nell’immobilità e nel silenzio. Si sentiva solo il respiro dei cavalli e il rumore degli zoccoli sulla terra. John Grady puntò il cavallo sulla stella polare e proseguì la marcia mentre la luna sorgeva a levante i coyote ululavano rispondendosi lungo tutta la piana.” (p. 284)

Luna

“E insieme s’erano avviati sulla strada della ciénaga alla luce della luna che brillava a ponente come un panno bianco steso ad asciugare fra gli ululati dei cani.” (pp. 139-140)

“La luna appena sorta danzava sui fili della luce come una nota musicale argentata accesa nell’oscurità senza fine.” (p. 220)

“La luna risplendeva a ponente mentre lunghe nuvole piatte le scorrevano davanti come una flotta fantasma.” (p. 296)

Sole, confini, orizzonti

“Buio, freddo, non un filo di vento e un sottile chiarore che cominciava a spuntare lungo il confine orientale del mondo.” (p. 5)

“L’ultima luce del giorno inondò la pianura alle spalle del cavaliere e si ritirò nuovamente lungo i confini del mondo nella fresca ombra azzurrina del crepuscolo sempre più freddo, fra gli ultimi cinguettii degli uccelli rintanati nell’oscuro groviglio dei rovi.” (p. 8)

“A ponente la campagna si estendeva a perdita d’occhio in un gioco di luci e di ombre e in lontananza, a più di cento miglia, le nubi nere dei temporali estivi incombevano sulle cordigliere che si levavano e sparivano nella foschia tremolando incerte all’estremo limite dell’orizzonte visivo.” (p. 225)

“A ovest il sole calante spuntò dalle nere nubi sui monti e arrossò una stretta striscia di cielo che sembrava un filo di sangue nell’acqua.” (p. 283)

Libertà

“Cavalcò con la faccia ramata dal sole nel vento rosso che soffiava da ovest.” (p. 8)

“Le luci scomparvero alle loro spalle. S’inoltrarono nella prateria mettendo le bestie al passo sotto il cielo nero trapunto di stelle. Da qualche parte nella notte vuota i rintocchi di una campana risuonarono e si spensero lontano dove campane non ce n’erano. Sulla superficie ricurva della terra buia e senza luce che sosteneva le loro figure e le innalzava contro il cielo stellato, i due giovani sembravano cavalcare non sotto ma in mezzo alle stelle, temerari e circospetti al contempo come ladri appena entrati in quel buio elettrico, come ladruncoli in un frutteto lucente, scarsamente protetti contro il freddo e i diecimila mondi da scegliere che avevano davanti a sé.” (p. 31)

Treno, automobile

“Fischiando e sbuffando in lontananza, il treno sbucò da est come un irriverente satellite del sole che stava per nascere. Il lungo fascio dell’unico faro esplorava l’intrico dei cespugli di mesquite, faceva emergere nella notte lo steccato diritto e senza fine che costeggiava i binari e di nuovo risucchiava nel buio miglia e miglia di fili e paletti lasciandosi dietro il frastuono insistente e il fumo della caldaia a vapore che si sfrangiava lento nell’incerto chiarore del nuovo giorno.” (p. 6)

“La polvere sollevata dall’auto aleggiava davanti a loro a perdita d’occhio, vorticando lentamente al chiarore delle stelle come le spire di una creatura enorme che emergeva dalla terra.” (p. 124)

“Il treno arrivò sbuffando e si fermò ansimante con i finestrini illuminati dei vagoni che si perdevano lungo il binario ricurvo come grandi tessere di domino accese nel buio.” (p. 254)

Cavalli

“Ciò che amava nei cavalli era la stessa cosa che amava negli uomini, il sangue e il calore del sangue che li animava. Tutta la sua stima, la sua simpatia, le sue propensioni andavano ai cuori ardenti. Così era e sempre sarebbe stato.” (p. 8)

“Il ragazzo, che cavalcava poco più avanti, stava in sella come ci fosse nato, e infatti era così, ma dava l’impressione che, se fosse nato in uno strano paese privo di cavalli, avrebbe saputo scovarli ugualmente. Perché il mondo fosse a posto o perché lui fosse a posto nel mondo, si sarebbe accorto che mancava qualcosa e sarebbe andato in giro continuamente e dovunque finché non si fosse imbattuto in un cavallo, e allora avrebbe capito subito che il cavallo era e sarebbe sempre stato quel che cercava.” (pp. 24-25)

“Nel sogno lui correva in mezzo ai cavalli inseguendo le giumente e le puledre che risplendevano al sole nei loro fulgidi manti bai e castani. I puledri correvano insieme alle madri e calpestavano i fiori sollevando una nebbia di polline che aleggiava nell’aria come polvere d’oro. Lui correva sugli altopiani insieme ai cavalli che facevano rimbombare il terreno sotto gli zoccoli, e fluivano liberi con la criniera al vento e la coda spumeggiante. Lassù non c’era nient’altro e i cavalli si muovevano in armonia come fossero guidati da una musica. I puledri e le giumente non avevano alcuna paura e correvano immersi nell’armonia universale che è il mondo stesso e che non si può descrivere, solo esaltare.” (pp. 161-162)

“Sentendo il respiro lento e regolare del cavallo di Blevins scaldargli la pancia e bagnargli la camicia, John Grady si accorse che stava respirando con lo stesso ritmo, come se una parte del cavallo respirasse dentro di lui, e pian piano entrò con la bestia in un’intimità ancor più profonda e priva di un nome.” (p. 265)

Finale

“Nelle raffiche di polvere sanguigna vomitata dal sole spronò il cavallo e riprese a marciare col viso ramato dagli ultimi raggi di luce, mentre il vento rosso dell’ovest spazzava il paesaggio crepuscolare e gli uccelli del deserto svolazzavano cinguettando fra le felci secche, e il cavallo, il cavaliere e il secondo cavallo passarono, e passarono le loro ombre affiancate come l’ombra di un unico essere. Passarono e impallidirono sulla terra sempre più buia, sul mondo a venire.” (p. 299)

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Di Cavalli selvaggi ho parlato anche qui. Se poi ti interessa leggere altro sulla Trilogia della frontiera, ho parlato del secondo volume, Oltre il confinequi, e del terzo volume, Città della pianura, qui. 😉

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Pagine ingiallite dal tempo e odore che sa di storia e di emozione

The Grapes of Wrath, John Steinbeck. Prima edizione, prima stampa.
Che gioia averla!
The Grapes of Wrath, John Steinbeck. Prima edizione, prima stampa.
Che gioia averla!

Nell’aprile 1939 il libro che vedete nelle foto usciva dalla Viking Press di New York e consegnava al mondo per la prima volta una delle storie più universali che siano mai state scritte.

Le vicende dei Joad, famiglia di migranti; il ritratto vivissimo e terribile dell’America degli anni Trenta (e, purtroppo, di dinamiche umano-sociali costanti in ogni epoca e luogo); la natura onnipresente, incessante, implacabile raccontata con accostamenti di parole dal potere immaginifico mozzafiato: The grapes of wrathFurore in Italia – conquista, impressiona, emoziona, commuove, fa riflettere. È un romanzo di una potenza incredibile, uno di quei capolavori che non fai fatica a definire “il libro della vita”. Mentre lo leggevo, nel giugno dell’anno scorso, ero senza fiato a ogni pagina.

Potete dunque immaginare la mia emozione quando, al Salone del Libro, ho visto questa edizione nelle teche di Libraccio. Una prima edizione, prima stampa: quella che Steinbeck aveva tra le mani quando uscì il suo capolavoro.
Ottantatré anni sono passati, e da allora questa copia si è mossa nel tempo e nello spazio; nel raccontare una storia si è rivestita di una storia, e io mi chiedo dove, come, quanto, attraverso chi ha viaggiato prima di approdare tra le mie mani. Sono domande che mi affascinano e alle quali non avrò mai risposta, ma non importa, perché mi bastano due certezze: questa copia è uscita dalla Viking Press nell’aprile del 1939; questa copia è arrivata al Salone Internazionale del Libro 2022 a Torino. E a quel punto ha incontrato me.

È difficile descrivere a parole l’emozione che provo nel tenere tra le mani una prima edizione di The Grapes of Wrath. Le pagine sono ingiallite ma ancora ben salde, e l’odore è quello che solo i libri antichi possono portare con sé: un odore che sa di storia, di cose magiche e perenni, di sentimento. Un odore che ricorda quanto i mondi di parole riescano a creare e quanto riescano a durare nel tempo, più di qualunque altra cosa.

E allora cerco di condividere queste emozioni mostrandovi l’edizione con qualche scatto: il libro nella sua sovraccoperta con il notissimo disegno; le diciture “First Edition” nell’aletta interna della sovraccoperta e “First published in april 1939” alla pagina del copyright; la dedica; la prima pagina; un passo descrittivo del capitolo 6 che mi aveva coinvolto tanto; le celeberrime parole pronunciate da Tom nel capitolo 28; la pagina conclusiva; il libro senza sovraccoperta.

Non trovate anche voi che questa prima edizione sia bellissima?

La prima edizione di The Grapes of Wrath - Il libro nella sua sovraccoperta (fronte).
La prima edizione di The Grapes of Wrath - Il libro nella sua sovraccoperta e le pagine ingiallite dal tempo.
La prima edizione di The Grapes of Wrath - La dicitura “First Edition” nell’aletta interna della sovraccoperta.
La prima edizione di The Grapes of Wrath - A sinistra la dicitura “First published in april 1939” alla pagina del copyright; a destra la dedica.
La prima edizione di The Grapes of Wrath - L'incipit.
La prima edizione di The Grapes of Wrath - Un passo descrittivo del capitolo 6 che mi ha coinvolto tanto.
La prima edizione di The Grapes of Wrath - Le celeberrime parole pronunciate da Tom nel capitolo 28.
La prima edizione di The Grapes of Wrath - La pagina conclusiva.
La prima edizione di The Grapes of Wrath - Il libro nella sua sovraccoperta (retro).
La prima edizione di The Grapes of Wrath - Il libro senza sovraccoperta.
La prima edizione di The Grapes of Wrath insieme al certificato della libreria "Strand" di New York.

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Alla storia intramontabile raccontata in Furore e allo splendore della scrittura di John Steinbeck ho dedicato un articolo qui. 😉

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Furore di John Steinbeck ci lascia senza fiato

Io e la mia copia di Furore.

Dalle terre rosse e grigie dell’Oklahoma a quelle verdi e dorate della California: oggi è un viaggio suggestivo lungo l’Historic Route 66, ma per migliaia di persone di un tempo fu un’odissea pietosa e terribile in cerca di una vita migliore.
Ce lo racconta magistralmente John Steinbeck nel suo Furore, romanzo straordinario che attraverso le vicende di una famiglia di migranti delinea un ritratto sincero e terribile dell’America degli anni Trenta (e, purtroppo, di dinamiche umano-sociali costanti in ogni epoca e luogo).

Il drammatico viaggio dei Joad in un'immagine tratta dal film di Furore diretto da John Ford (1940).
Il drammatico viaggio dei Joad in un’immagine tratta dal film di Furore diretto da John Ford (1940).

La crisi agricola e poi economico-sociale che sconvolge gli Stati Uniti centrali – il grano rovinato da vento e aridità, i danni inflitti dalla polvere (la nota dust bowl), l’arrivo dei trattori, lo sfratto da parte delle banche – costringe i Joad, come tante altre famiglie, al tragico abbandono della propria casa in Oklahoma e al dramma di un viaggio difficilissimo, in condizioni terribili, attraverso il Texas, il New Mexico e l’Arizona, lungo il deserto e la Route 66, nella speranza di una vita migliore in California. Ma il procedere sempre più arduo, mentre parti della famiglia vengono dolorosamente a perdersi, assottiglia e a poco a poco sgretola queste speranze, che per molti iniziano a trasformarsi in rabbia proprio con l’arrivo nel Golden State. La terra promessa, infatti, si rivela un luogo impietoso, dove i migranti sono costretti a una vita raminga da lavoratori stagionali, sottopagati e privi di qualunque diritto – perché, come è sempre più chiaro, le logiche di mercato sovrastano i principi inderogabili della dignità umana.
Pagine tra le più maestose, dolorose e indimenticabili quelle del capitolo 19. I californiani, migranti a loro volta tanto tempo prima, sono ora proprietari, nativi a contatto con migranti nuovi che vedono come invasori, e che giudicano, e che rifiutano: e li rifiutano perché li temono, e li disprezzano perché li rifiutano. I migranti sono spaesati, interdetti, spaventati: in nome di una giustizia che non trovano, possono diventare violenti; per lo sconforto e la necessità possono compiere atti disperati. Magistralmente Steinbeck rappresenta e spiega queste situazioni e i meccanismi che le creano: è un pugno nello stomaco, e restiamo sconvolti per la dolorosa attualità del racconto, per la terribile verità universale che ci costringe a riconoscere.
Nei migranti resiste la dignità morale – una morale semplice ma salda, fondata sui principi di solidarietà e carità umana (che, come è sempre più chiaro, rappresentano l’unica e autentica origine della giustizia sociale, dalla quale invece le logiche economiche dominanti – e spesso anche la legge costituita si rivelano ben lontane). Ci sono poi quella speranza, quella volontà, quella rabbia che presto diventano furore. E non è importante se e quando e come questo furore esploderà: è importante, invece, il modo in cui esso si crea, il modo in cui sostiene l’uomo; il modo in cui, insomma, the grapes of wrath – “gli acini dell’ira” – sono pronti per la vendemmia.

Una foto di John Steinbeck.
John Steinbeck.

Cos’è, dunque, Furore? Cos’è il furore?
Il furore è volontà. È lotta sociale contro l’ingiustizia. È, prima ancora, lotta dell’uomo per affermarsi. È, prima di tutto e soprattutto, lotta dell’uomo per sopravvivere. Ed è lotta dell’uomo con e contro la natura.

Perché, sì, in Furore la natura c’è. Onnipresente, incessante, implacabile. Lirica, quasi magica.
Steinbeck ce la racconta in due modi.
Da una parte è la natura come forza inarrestabile, incontrollabile, che è vento ed è sole, sole e calore soprattutto, e poi è acqua – perché Furore si apre con la pioggia e si chiude con la pioggia. All’inizio è una pioggia sottile e lieve – le ultime piogge, presto sostituite da una siccità spietata e da un vento accanito, e da una polvere che tutto distrugge. Alla fine è una pioggia violenta, che inonda e travolge, che sconvolge campi e fiumi e alberi, che costringe l’uomo a combattere, a tirar fuori il furore perché anch’essa è furore, ma che poi, cessando, lascia il posto alla rinascita della vita.

Un'immagine della nota Route 66.
Un’immagine della nota Route 66.

In altri momenti, soprattutto nella prima parte del romanzo e durante il viaggio nel deserto, abbiamo di fronte un altro tipo di natura, placida ma totalizzante, allucinante, mozzafiato. È il potere immaginifico di poche, semplici parole incastrate nel modo giusto. Davanti ai nostri occhi c’è un pallido quarto di luna, esile e vago in un cielo che sbiadisce; c’è una lenta cascata di stelle che scende sull’orizzonte; c’è la lunga nube della Via Lattea; c’è la luce solitaria dell’alba. Ma, soprattutto, scorrono davanti a noi le descrizioni dei grandi tramonti: quando il sole rosso, ad esempio, tocca l’orizzonte e si allarga come una medusa, mentre il cielo sembra più luminoso e vibrante di prima; o, ancora, quando una grossa goccia di sole rosso indugia sull’orizzonte, prima di cadere e scomparire lasciando il posto a una nuvola lacera, simile a uno straccio insanguinato. Ci sono poi le descrizioni-narrazioni del grande caldo del deserto, aguzzo e battente di giorno, ma ampio e soffocante di notte, quando sembra venire dal basso, dalla terra stessa; vediamo avvampare il deserto quando l’orlo del sole tocca l’orizzonte frastagliato, e c’è un momento in cui il paesaggio è terribile nella luce paonazza del tramonto. Immagini potenti come questa sembrano accentuare la tragedia umana delle migrazioni: è simbolismo semplice e acuto, e pare legare in un rapporto imprescindibile uomo e natura – lei, la natura, crea e partecipa del dramma umano; lei sfida e al tempo stesso accompagna l’uomo.

E non è un caso che l’inserto conclusivo sulla natura sembri congiungersi all’epilogo delle vicende dei Joad: quell’erba che rinasce dopo le piogge distruttive, verde e tenera, pare legarsi al coraggio indissolubile di Ma’, personaggio cardine del romanzo, e al gesto di compassione e di rinascita compiuto da Rose of Sharon: è quella speranza che fin dall’inizio segue e accompagna, e che nonostante tutto splende coraggiosa – più che mai in questa nota finale.

L'agognato arrivo della famiglia Joad in California. Immagine tratta dal film di Furore diretto da John Ford (1940).
L’agognato arrivo della famiglia Joad in California. Immagine tratta dal film di Furore diretto da John Ford (1940).

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