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L’amore tracimante per la scrittura, per la vita e per una Parigi che è un pezzo di giovinezza in Festa mobile di Hemingway

La mia edizione di Festa mobile.
Foto scattata nel novembre 2023.
La mia edizione di Festa mobile.
Foto scattata nel novembre 2023.

È la Parigi dei piccoli caffè, di legna per l’inverno e di bucce di mandarini sul fuoco del camino mentre rifletti su un nuovo racconto. È la Parigi che ospita in una via fredda e spazzata dal vento la libreria più simpatica, calda e accogliente del mondo, dove la proprietaria ti presta i libri perché tu non hai soldi per comprarli. È la Parigi delle passeggiate solitarie e piene di leggerezza al termine di sessioni produttive di scrittura. È la Parigi che ti offre nei grandi giardini rifugi stimolanti; la Parigi dove sei triste quando il parco è chiuso e sbarrato e devi girargli intorno invece di attraversarlo mentre torni a casa. È la Parigi dei whisky e dei caffè crème, di pugilato e corse di cavalli e scommesse; la Parigi di pittori e pescatori, delle bancarelle di libri sulla Senna in cui trovi nuove uscite a pochissimo prezzo. È la Parigi dove con tutti quegli alberi, anche quando spogli, non puoi mai sentirti solo; la Parigi dove la primavera arriva lenta ma nitida, e quando sembra stentare finisce che una notte di vento caldo la porta all’improvviso in una sola mattina; la Parigi dove allora, quando arriva la primavera, non vi sono problemi eccetto dove andare per sentirsi più felici, e questo è quasi commovente.
È la Parigi dove non puoi scrivere di Parigi – Parigi, no, non la conosci ancora abbastanza bene – ma in giornate selvagge, fredde e ventose riesci a scrivere del Michigan con una semplicità che ti riscalda.
È questa la tua Parigi, la Parigi della scrittura, questa dove insegui il tuo sogno. Questa dove Gertrude Stein ti ospita nel suo salotto, dove Ezra Pound ti coinvolge in progetti altruisti; questa dove frequenti e conforti Scott Fitzgerald, l’amico che più di tutti, indiscutibilmente, sembrerà uscire dalle pagine delle tue memorie con la sua sensibilità, le sue ansie, le sue passioni e le sue dipendenze, in un ritratto toccante perché umanissimo. Perché, sì, di queste persone scriverai in futuro con una noncuranza affettuosa in grado di colpire come una bomba chi ti leggerà.
Perché ci scriverai, di questa tua Parigi. Ci scriverai di questa Parigi in cui, nonostante i racconti continuino a tornarti indietro, riconosci già in te una fede assoluta e una consapevolezza profonda rispetto alla scrittura; di questa Parigi in cui devi far quadrare i conti, in cui certe strade le eviti perché non puoi permetterti di farti venire fame, ma in cui la verità è che tu e Hadley, la tua amata moglie Hadley, l’eroina di queste storie, vi sentite invulnerabili – la verità è che non potreste essere più felici di così.

*

La Parigi di Hemingway è intima, avvolgente e intensa come queste pagine sono vivide, nostalgiche, autentiche, fluttuanti. Festa mobile è un libro pieno di vita e di malinconia insieme. Tracimante di amore per l’arte, per la scrittura, per un luogo che è un pezzo di giovinezza. Tracimante di voglia di vivere, e di amare, e di scrivere. È un’auto-incursione intima, dolce, in qualche modo sconvolgente. Un documento imperfetto ma ineguagliabile di un pezzo di vita. Un tributo puro e autentico all’importanza della memoria, che all’ultima pagina mi ha travolto in tutta la sua portata, e mi ha commossa nel profondo.

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Suggestioni paesaggistiche e sentimento ne L’edera di Grazia Deledda

La mia edizione de L’edera.
Foto scattata nell’agosto 2024.

L’edera è un romanzo breve e assai intenso che Grazia Deledda costruisce sullo sfondo di un duplice decadimento – della nobiltà sarda e della società del paese di Barunèi all’inizio del XX secolo – rendendo la tragica vicenda di Annesa punto di partenza per una riflessione su devozione e attaccamento e per un’indagine sulle idee di colpa e di peccato, misurando la distanza tra pentimento ed espiazione ed esplorando il rapporto tra religione e fede, mentre il paesaggio sembra parlare e il suo sentimento compenetrarsi con gli stati interiori dei personaggi, in un gioco di simbologie continuo e potente e in una fusione quasi mistica tra scrittura e natura.

***

Ho trascritto qui sotto una serie di passi che mi hanno colpita particolarmente e che credo risultino rappresentativi della bellezza, della forza e del pathos della scrittura di Grazia Deledda. Ho deciso di concentrarmi su quelli che raccontano il paesaggio e il compenetrarsi della natura con gli stati d’animo dei personaggi.
Le pagine si riferiscono all’edizione de L’edera OMBand Digital Editions 2022.

“La notte era calda e tranquilla, rischiarata appena dal velo biancastro della Via Lattea e dalle stelle vivissime. Davanti ad Annesa stendevasi l’orto, nero e tacito, dal quale saliva un aspro odore di pomidoro e di erbe aromatiche: il profumo del rosmarino e della ruta ricordava la montagna, le distese selvagge, le valli primordiali, coperte di macchie e di arbusti, che circondavano il paese.
In fondo all’orto cominciava il bosco, dal quale emergeva la montagna, col suo profilo enorme di dorso umano disteso sull’orizzonte stellato. I grandi alberi neri, in fondo all’orto, erano così immobili e gravi che parevano roccie scure.
Ma la pace, il silenzio, l’oscurità della notte, l’immobilità delle cose, pesavano come un mistero sul cuore di Annesa.” (pp. 15-16)

“– […] tu l’hai già detto una volta, che io sono come l’edera; come l’edera che si attacca al muro e non se ne distacca più finché non si secca…
– O finché il muro non cade […]” (p. 19)

“Ella aveva partecipato a tutte le vicende della famiglia, in quella casa dove il destino l’aveva gettata come il vento di marzo getta il seme sulla roccia, accanto all’albero cadente. Ed era cresciuta così, come l’edera, allacciandosi al vecchio tronco, lasciandosi travolgere dal turbine che lo schiantava.” (p. 20)

“Seduta sul limitare della porta, ombra nell’ombra, ella si lasciava avvincere dai ricordi: e questi ricordi erano tristi, e avevano uno sfondo incerto e melanconico come quel cielo notturno che finiva davanti a lei sopra la montagna addormentata.
Solo qualche ricordo, fra gli altri, brillava e si staccava da questo sfondo, simile alle stelle filanti che di tanto in tanto pareva si staccassero dal cielo, stanche di tanta altezza serena, per scendere sulla terra ove si ama e si muore.” (p. 20)

“Enormi roccie di granito, sulle quali il musco disegnava un bizzarro mosaico nero e verde, si accavalcavano stranamente le une sopra le altre, formando piramidi, guglie, edilizi ciclopici e misteriosi. Pareva che in un tempo remoto, nel tempo del caos, una lotta fosse avvenuta fra queste roccie, e le une fossero riuscite a sopraffare le altre, ed ora le schiacciassero e si ergessero vittoriose sullo sfondo azzurro del cielo. E le macchie e le quercie, a loro volta, cessata la lotta delle pietre, avevano silenziosamente invaso i precipizi, s’erano arrampicate sulle roccie, avevano anch’esse cercato di salire le une più su delle altre. Tutte le cose in quel luogo di grandezza e di mistero assumevano parvenze strane […]” (pp. 25-26)

“[…] ai loro piedi il bosco precipitava come una grandiosa cascata verde […] Valli e montagne, valli e montagne si seguivano fino all’orizzonte: tutto era verde, giallo e celeste.” (p. 27)

“La luce rosea-aranciata dell’aurora illuminava dolcemente il passaggio, che pareva un paesaggio primordiale ancora vergine di orme umane. La valle era tutta scavata nel granito; muraglie di roccie, edifizi strani, colonne naturali, cumuli di pietre che sembravano monumenti preistorici, sorgevano qua e là, resi più pittoreschi dal verde delle macchie di cui erano circondati e inghirlandati. Il letto di un torrente, di granito, d’un grigio chiarissimo, solcava la profondità verdognola della valle, e gli oleandri fioriti che crescevano lungo la riva, fra le roccie levigate, parevano piantati entro ciclopici vasi di pietra. […]” (p. 44)

“Un coro d’una tristezza selvaggia indescrivibile risonava nella chiesetta: pareva un rombo lontano di tuono, attraversato da melanconici squilli di campane, da lamenti e singhiozzi infantili. […]
E i devoti, nella chiesetta sempre più melanconica, proseguivano il loro coro desolato: pareva che un popolo nomade passasse al di fuori, nel campo roccioso, intonando un canto nostalgico, un addio alla patria perduta.
Paulu sentiva quest’arcana nostalgia che è nel carattere del popolo sardo.” (pp. 50-51)

“[…] E Paulu che non tornava! Dov’era egli? Il pensiero di Annesa lo cercava, lo sentiva, lo seguiva, per l’immensità deserta delle tancas, attraverso i sentieri melanconici, sotto quel cielo cupo e minaccioso che anche sopra di lei, sopra la sua testa dolente, pareva pesasse come una volta di pietra.” (p. 61)

“La giornata diventava sempre più cupa e triste; il tuono rumoreggiava in lontananza, dietro la montagna livida e nera. Qualche cosa di angoscioso e di tragico gravava nell’aria. […]
Sotto il cielo grigio solcato da nuvole quasi nere, d’un nero terreo, tutto appariva triste: la valle si sprofondava come un enorme precipizio, le roccie sembravano pronte a rovesciarsi le une sulle altre: il bosco della montagna, nero e immobile, si confondeva con le nuvole sempre più basse.
E Paulu non veniva. Annesa soffriva un terribile mal di capo: le pareva che l’anfora fosse una delle roccie che, nel suo capogiro, ella vedeva quasi muoversi e precipitare: e il tuono le risuonava entro la testa, con un rombo continuo.” (p. 62)

“[…] l’uragano era cessato: la luna saliva limpida sul cielo azzurro chiaro come un cristallo; i vetri delle finestre, il lastrico del cortile, le tegole della tettoia avevano un riflesso d’argento. E nel silenzio profondo non si udiva più neppure il canto dei grilli, né la voce del rosignuolo che ogni notte cantava come in sogno, nel bosco in fondo all’orto.
La furia dell’uragano aveva spento anche la voce delle cose. Pareva che gli abitanti del villaggio, nero ed umido sotto la luna, fossero tutti scomparsi come i loro leggendari vicini del paese distrutto.” (p. 67)

“Cadeva una sera mite e luminosa. I boschi, immobili e taciti, dal confine dell’orto fino agli estremi vertici della montagna apparivano rosei, come illuminati da un incendio lontano […]” (p. 90)

“Per qualche tempo rimase là, immobile sullo scalino della porta, ma invece di riposarsi le pareva di sentirsi sempre più stanca, e come il cielo si oscurava, anche i suoi pensieri si velavano.” (p. 90)

“Le pareva che fantasmi mostruosi l’inseguissero, per afferrarla e gettarla in un luogo più misterioso e spaventoso di quell’inferno al quale non credeva. Il caos era intorno a lei: un’ombra, una nebbia, una notte tormentosa, senza fine.” (p. 93)

“[…] di nuovo tutto fu silenzio sotto il grande occhio giallo della luna.” (p. 95)

“Le parve che la notte, la luna, le ombre, il silenzio le fossero amici: tutte le cose tristi ed equivoche oramai le davano coraggio, perché tutto era triste ed equivoco nella sua anima.” (p. 96)

“Qua e là brillavano, tristi e glauche fra i giunchi neri, larghe e rotonde chiazze d’acqua che parevano gli occhi melanconici della montagna non ancora addormentata. […]” (p. 96)

“[…] Fantasmi mostruosi sbarravano allora lo sfondo della strada: in lontananza apparivano edifizi neri misteriosi; muraglie fantastiche sorgevano di qua e di là dal sentiero: le macchie sembravano bestie accovacciate, e dai rami degli elci si protendevano braccia nere, teste di serpenti. Tutto un mondo di sogno, ove le cose incolori e informi destavano paura per la loro immobilità e la loro incertezza, si stendeva sotto il bosco.” (p. 96)

“[…] il mare apparve, come una nuvola d’argento azzurrognolo, sull’ultima linea del cielo lattiginoso […]” (p. 97)

“La luna brillava limpidissima; ma in lontananza cominciavano a salire larghi nastri di vapori luminosi, e quando il pastore e Annesa arrivarono al di là della radura videro, attraverso i tronchi, un mare di nebbia argentea, dal quale emergeva, enorme scoglio azzurro in forma di piramide, il monte Gonare.” (p. 99)

“Ma sotto di sé vide una cascata spaventosa di roccie, precipitante fin quasi in fondo alla valle: qua e là, fra i crepacci delle rupi livide alla luna, nereggiavano ciuffi d’elci e cespugli che parevano chiome selvaggie di mostri pietrificati.” (p. 99)

“Il cielo era velato; larghe striscie di nebbia bianca che parevano fiumi, solcavano qua e là le valli e i monti.” (p. 100)

“[…] sul versante della montagna ondulavano ombre e vapori, simili a grandi veli distesi sulle roccie […]” (p. 102)

“[…] ma già una luce vaga la richiamava verso un punto lontano, e la guidava come la luce del faro richiama e guida il navigante attraverso le tenebre e l’ira feroce del mare in tempesta.” (p. 102)

“[…] entrambi con gli occhi fissi al di fuori del portico, verso quella lontananza triste ove la luna moriva e il cielo pareva coperto di veli che uno dopo l’altro cadevano lentamente dietro le ultime montagne dell’orizzonte.” (p. 106)

“E ogni sua parola cadeva nel cuore di Annesa come pietra entro una palude, stracciando il velo torbido e fetido della superficie melmosa.” (p. 108)

“Vide attraverso il finestrino apparire una stella rossastra sul cielo verdognolo del crepuscolo, poi altre stelle ancora: e il bosco tacque, e tutto fu silenzio, silenzio misterioso di attesa.” (p. 115)

“[…] le pecore di zio Castigu pascolavano nascoste fra le macchie in fondo alla radura, e il tintinnio cadenzato dei loro campanacci pareva una musica misteriosa, quasi magica, un coro di vocine tremule sgorganti dalle pietre, dai tronchi, dai cespugli.” (p. 116)

“[…] erano lagrime di pentimento e di speranza, che nella notte infinita della sua anima cadevano e brillavano come nella notte le stelle filanti.” (p. 116)

“[…] la finestra era aperta; fino alla camera giungeva il canto di un grillo, un odor di basilico, lo splendore lontano d’una stella.” (p. 118)

“[…] La grande vallata dormiva ancora, con le roccie, i muraglioni di granito, i cumuli di pietre, chiari appena tra il verde scuro delle macchie: e nel silenzio dell’alba triste, pareva, coi suoi monumenti fantastici di pietra chiara, e le sue macchie melanconiche, un cimitero ciclopico, sotto le cui roccie dormissero i giganti di una età scomparsa.” (pp. 131-132)

“Una tristezza solenne, di cose morte, di luoghi vergini mai attraversati dall’uomo, incombeva sul paesaggio, fino all’orizzonte lontano, che con le sue nuvolette immobili pareva una pianura vaporosa sparsa di macchie ingiallite dall’autunno.
Annesa scendeva verso il ponte, con un fagotto in mano, e sembrava compenetrata dal silenzio cupo del luogo e dell’ora: il suo viso grigio e immobile, e gli occhi chiari dalla pupilla dilatata, riflettevano la serenità funebre del grande paesaggio morto, del gran cielo solitario.” (p. 132)

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L’indimenticabile viaggio di Arcipelago letterario

I libri protagonisti del viaggio di Arcipelago letterario. 
Foto scattata nella primavera 2024.
I libri protagonisti del viaggio di Arcipelago letterario.
Foto scattata nella primavera 2024.

Dal palpito arcano di Grazia Deledda al taglio conturbante di William Golding; dalla forza immaginifica di Elsa Morante alla suggestione evocativa di Jón Kalman Stefánsson; dal garbo di Laura Imai Messina all’inventiva tragicomica di Kurt Vonnegut; dalla fiamma malinconica di Ernest Hemingway alla delicatezza di Lucy Maud Montgomery; dall’epica poderosa di Victor Hugo all’immensità viscerale di Virginia Woolf: con loro abbiamo viaggiato dalla Sardegna al Pacifico, da Procida all’Islanda, dal Giappone alle Galápagos, da Cuba all’Isola del Principe Edoardo, da Guernsey a Skye; con loro abbiamo percorso in un anno rotte svariate tra scritture diverse e bellissime – rotte svariate tra generi, culture, epoche.
Abbiamo conosciuto i tormenti segreti di Efix, abbiamo assistito impotenti alle lotte di un gruppo di ragazzini sperduti; abbiamo vissuto l’infanzia e l’adolescenza con lo sguardo purissimo di Arturo, abbiamo sentito gli oggetti quasi parlare in una casa remota a Reykjavík; abbiamo accompagnato Yui nella sua rinascita, abbiamo letto di scomparsa ed evoluzione dell’umanità con molti sorrisi e un filo di malinconia; abbiamo lottato con tutti noi stessi insieme a Santiago e insieme a un marlin, abbiamo esplorato la natura e la nascita di una passione con Emily; abbiamo affrontato il mare col coraggio di Gilliat, abbiamo osservato la luce di un faro con la profondità di Mrs Ramsay.

È stato un viaggio incredibile. Indimenticabile.
Grazie infinite a chi ha partecipato dall’inizio alla fine; grazie a chi c’è stato anche solo per una tappa. Siete stati tutti preziosissimi!

In autunno salpiamo di nuovo: tantissime mete ci aspettano!

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Il vecchio e il mare è un romanzo sulla dignità e sul valore della lotta

Vita e dignità. Vita è dignità. Credo si racchiuda qui, in queste due parole semplici e immense, il significato ultimo de Il vecchio e il mare, il lavoro forse più noto di Ernest Hemingway.

La mia edizione de Il vecchio e il mare.
Foto scattata nel dicembre 2023.

Il vecchio e il mare. Il vecchio, e il mare. Due parole semplici, ancora, nel titolo italiano che risulta quanto mai efficace, peraltro ricalcando quello inglese The old man and the sea, nel richiamare suggestioni e profondità di rara bellezza, concentrando in sé e comunicando d’impatto il carattere e la natura del libro. Perché una trama dalla semplicità disarmante – un vecchio pescatore che per alcuni giorni lotta in alto mare per riuscire a pescare e a portare a riva un grosso marlin – diventa, nella penna di Hemingway, libro di forme e sfumature abbinate a contrasto: malinconico e infiammato, colmo di forza e di dolcezza, carico di corporeità e profondamente spirituale – questo, tutto questo e tutto insieme, è Il vecchio e il mare.

È, soprattutto, inno alla vita e metafora della vita.

Inno alla vita – a quella umana, certo, ma non solo: ciò emerge dal modo in cui uomo e pesce sono posti sullo stesso piano nel contesto di uno scontro alla pari, che mette in luce il possesso di un’eguale dignità – la stessa dignità che è anche prerogativa di tutti gli altri animali (lo capiamo, ad esempio, dall’incontro con l’uccellino). In questo senso, l’uomo deve lottare come ognuno di loro, e la lotta di Santiago è la lotta del marlin ed è la lotta dell’uccellino e di qualsiasi altra creatura sul mare e sulla terra.
Derivano allora da qui, dall’impatto con questa consapevolezza, le sensazioni contrastanti che la lettura può suscitare: l’empatia per il pescatore quanto per il marlin; la tensione per la difficoltà di prevedere un finale; una speranza nebulosa, senza direzione, dovuta alle tendenze opposte che spingono a parteggiare per l’uno e insieme per l’altro, perché entrambi sono degni di rispetto, e perché la solitudine e la testardaggine del marlin sono le stesse del pescatore (e Santiago lo sa, e per questo la sua lotta è ancora più tragica); da un certo punto in poi la speranza, contro ogni razionalità, nella vittoria del vecchio; infine la frustrazione e l’impotenza, e forse anche la rabbia, non tanto perché quello del marlin è un sacrificio, quanto perché è un sacrifico vano, proprio come quell’eroismo, vano ma necessario, per il pescatore in un senso, per il marlin in un altro.

Metafora della vita – perché è la vita, nient’altro che la vita, che riconosciamo in quei quattro giorni di lotta di Santiago contro il marlin e contro i pescecani.
La vita come un avvicendarsi di sfide e difficoltà – quelle che ci troviamo ad affrontare ogni giorno nel nostro percorso – e la vita in toto, come unica grande meravigliosa lotta. È questa la metafora che istintivamente cogliamo tra le pagine, questa la metafora che emerge, trasparente e magnifica, in tutta la sua forza, nella prosa così scarna e semplice e al contempo potente di Hemingway. 
E se è vero che una lotta implica un esito di vittoria o di sconfitta, è anche vero – e questo è il messaggio più bello che Il vecchio e il mare trasmette – che il punto non è vincere, ma lottare. È proprio questo – lottare – che fa la differenza, perché anche quando la vita ha la meglio su di noi, anche quando le sue difficoltà e i suoi ostacoli ci schiacciano e ci buttano giù, quella dignità – la dignità che deriva dall’atto stesso di vivere, ricollegandoci al punto sopra – noi continuiamo a conservarla, e la affermiamo con la lotta. E se anche il nostro destino fosse quello di venire atterrati, se anche i pescecani fossero troppi, essersi messi in gioco e aver lottato a testa alta cambierà tutto. Ecco perché un uomo può essere distrutto ma non sconfitto.
Ed è qui, è questo il punto centrale: il valore della vita, il valore della lotta. La dignità della lotta. Ecco il leitmotiv di questo libro dove la lotta nella vita diventa lotta per la vita.
Perché la lotta di Santiago è lotta per la dignità. Il vecchio vuole uccidere il pesce e portarlo a riva per se stesso – solo per se stesso. Per confermare a se stesso il proprio valore, la propria dignità di persona, di quella vita così semplice eppure così complicata che ha vissuto e che è l’unica nella quale si riconosce: è in gioco la sua verità, e quindi, appunto, la sua dignità. Ecco il motivo per cui la sua parte razionale, realista e pessimista insieme, viene contraddetta e vinta da quella irrazionale, volitiva e ottimista – perché lui ha bisogno del suo riscatto. Ed è per questo che noi ci ritroviamo a perdonarlo per la caccia al marlin e a odiare i pescecani che hanno reso vano il sacrificio di quest’ultimo, anch’esso un combattente, anch’esso degno di rispetto, detentore di una dignità che, insieme a Santiago, avevamo riconosciuto da subito.

Ed Hemingway riafferma con forza tutto questo con la scelta di un finale che omaggia il pesce quanto l’uomo; di un finale che rimarca, insieme alla dignità di entrambi, il valore della lotta, sublimandolo nell’immagine di un uomo che continua a rialzarsi e a sognare, nonostante la vecchiaia, nonostante tutto; di un finale che lascia un messaggio di speranza e di fiducia per un nuovo inizio, con un’apertura emozionante e meravigliosa alla vita.

“Ora non è il momento di pensare a quello che non hai. Pensa a quello che puoi fare con quello che hai.”

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Alla Libreria di Alice io e Mari Ermi ci siamo sentiti davvero a casa

La libreria di Alice. Che meraviglia!
La libreria di Alice. Che meraviglia!

Quando sono entrata in libreria, io e Alice ci siamo salutate con un enorme abbraccio. Un abbraccio spontaneo, vivace, pieno di energia positiva. Lei me l’aveva detto più volte – “Ti aspetto a braccia aperte!” – mostrando un calore che percepivo chiaramente attraverso lo schermo, tra le righe dei suoi messaggi e le parole dei suoi vocali, e che dal vivo ha rivelato tutta la sua intensità, facendomi subito sentire a casa.

Questa me l'ha mandata Alice qualche giorno prima della presentazione. Adoro!
Questa me l’ha mandata Alice qualche giorno prima della presentazione. Adoro!

Faccio un piccolo passo indietro. Di Alice avevo sempre sentito parlare benissimo, ma ho avuto il piacere di conoscerla solo a metà dello scorso marzo, quando la mia editrice, Stefania Convalle, mi ha messo in contatto con lei, che voleva invitarmi per una presentazione. Due cose voglio dire subito. La prima è che sono bastati pochissimi messaggi perché capissi con chi avevo a che fare: una persona calorosa, entusiasta, felice della vita e gioiosa delle sue passioni – una gioia che riesce a trasmettere con un’intensità che raramente mi è capitato di incontrare sulla mia strada. La seconda è che io e Alice siamo entrate subito in sintonia: per intenderci, lei è una di quelle persone per cui mi viene da pensare “incredibile, mi sembra di conoscerla da sempre!

Prima della presentazione, io e Alice abbiamo trovato il tempo per qualche scatto significativo insieme!
Prima della presentazione, io e Alice abbiamo trovato il tempo per qualche scatto significativo insieme!

Ma torniamo a noi. Dicevo poco fa che il suo calore mi ha fatto subito sentire a casa. Vorrei aggiungere, a questo punto, che la sua libreria non è stata da meno. E voglio dedicarle qualche riga, perché La libreria di Alice ha un taglio tutto suo, perché è uno di quei luoghi che possiedono una personalità, un’anima palpabile: ci sono i libri, naturalmente, romanzi e storie che lei – si coglie subito – sceglie ed espone con grande cura; ci sono gli scaffali con quell’aria di antico e perenne insieme; e ci sono i tè, gli infusi, le tisane e i caffè, che donano all’ambiente una vasta gamma di profumi – profumi più o meno forti, profumi di buono, profumi di casa – nell’atmosfera di una musica rilassante.
A tutto questo, poi, sabato 27 aprile si aggiungeva l’allestimento dedicato a Mari Ermi che Alice ha preparato con cura e originalità e che includeva anche un componente speciale: la bandiera della Sardegna che la mia collega e conterranea Maria Rita Sanna ha donato a Stefania Convalle alcuni anni fa – la bandiera che mi aveva già fatto compagnia, portandomi davvero tanta fortuna, nelle tre fiere a cui ho preso parte negli ultimi due anni e che Stefania Convalle, in un gesto davvero generoso del quale sono immensamente grata, ha inviato ad Alice proprio per questo evento.
Ma non è finita qui! In perfetto tema col libro, Alice ha preparato una tisana agli agrumi che offriva ai presenti insieme ai biscottini deliziosi cucinati da sua madre (un’altra persona magnifica, insieme al compagno di Alice).

Alcuni degli scatti del pomeriggio. 
Che bello incontrarvi tutti!
Alcuni scatti del pomeriggio, scelti a caso.
Che bello incontrarvi tutti!

Ma arriviamo allora alle persone. Perché un pensiero speciale voglio dedicarlo a loro, le persone che sono venute all’incontro e che mi hanno fatto sentire davvero accolta. Ho avvertito tutto il calore della Romagna unito alla curiosità e all’interesse rispetto alla storia di Mari Ermi e alla Sardegna più in generale, ed è stato piacevolissimo chiacchierare con tutte loro anche prima e dopo la presentazione, scambiare sorrisi, scattare fotografie.

La presentazione è stata bellissima. Le domande e le considerazioni di Alice, così lucide e profonde, ci hanno consentito di parlare di tante cose: della Sardegna, di questo titolo e del valore di Mari Ermi per me e per il romanzo, di retroscena e curiosità varie, dei miei personaggi, del loro percorso di crescita e soprattutto della natura, dell’importanza che riveste nell’esperienza umana, del ruolo che attribuisco ai cinque sensi, del colore, e poi dei sogni, della mia passione per la scrittura e di tanto altro ancora. Abbiamo chiacchierato, riso, condiviso pensieri e anche esperienze, e ancora scambiato spunti, idee, opinioni, suggestioni.

C’è stato poi un momento particolarmente emozionante, una grandissima sorpresa: Stefania Convalle ha inviato ad Alice la targa del premio che ho conseguito di recente al concorso Dentro l’amore, organizzato proprio da Edizioni Convalle e alla cui serata finale non ero riuscita a presenziare. È stato un momento magico, intenso, che porterò sempre con me come ogni istante di questa giornata indimenticabile.

La sera, mentre gironzolavo e curiosavo tra gli scaffali di Alice scegliendo dei libri e dei tè, facendomi avvolgere dalla gioia che questi eventi e questi incontri mi regalano, non ho potuto fare a meno di pensare a quanto io sia grata per tutto questo.

Quello che ho portato via dalla libreria di Alice, tra acquisti e regali!
Quello che ho portato via dalla libreria di Alice, tra acquisti e regali!

Concludo, allora, con un po’ di ringraziamenti. Ad Alice, per come mi ha accolto, per quello che ha fatto per questa presentazione e soprattutto per la sensibilità con cui ha saputo cogliere l’anima di Mari Ermi. Alla mia editrice, Stefania Convalle, per il sostegno prezioso, per il dono della bandiera e per la fantastica sorpresa. A tutte le persone che sono venute e che hanno avuto il piacere di condividere questi momenti con me, dando fiducia al mio romanzo. A Matteo, perché la sua disponibilità e il suo affetto mi hanno consentito di dedicarmi a questo evento con serenità.
Grazie, davvero.
Lo dico sempre e voglio ripeterlo anche qui: questo della scrittura è un mondo difficile, ma le soddisfazioni che dà sono davvero immense.

Se hai piacere di vedere altri scatti di questo pomeriggio, visita la galleria fotografica dedicata a Mari Ermi cliccando qui. 😉

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Oltre il confine è il romanzo immenso di uno scrittore immenso

Ci sono pagine di questo libro dove semplicemente smetti di respirare. Pagine che pensi di fermarti perché non sei in grado di reggere un minuto di più la storia e la prosa. Pagine che dopo averle lette resti a fissare il soffitto per ore. È questo che ho fatto alla fine della prima parte, è questo che ho fatto alla fine del libro.
E comincio così il mio articolo perché non so da dove altro cominciare se non da quello che leggere Oltre il confine comporta. Se non da quello che la penna immensa di McCarthy ti lascia.
Gli occhi gialli di una lupa, ad esempio. Sarà impossibile dimenticarli.
È con lei, la lupa, che inizia il viaggio di Billy Parham avanti e indietro per il confine tra New Mexico e México, un percorso fisico e interiore lungo strade familiari e ignote, un’iniziazione violenta che passa per margini geografici invisibili, per simboli e significati che si deformano laddove niente sembra cambiare.
Oltre il confine è un western di formazione, e con Cavalli selvaggi, primo della Trilogia della frontiera e suo predecessore, condivide il fulcro motore del viaggio e il potere arcano dell’ambientazione, discostandosene tuttavia per l’orientamento e, soprattutto, per il tono: laddove il primo era spensierato, il secondo è cupo; laddove il primo era sfumato e misterioso, il secondo è concreto e mistico; entrambi ti scavano dentro, ma se il primo lo faceva ammaliandoti, il secondo lo fa lacerandoti.
Anche la linea sui protagonisti è diversa: la scelta di lasciare John Grady Cole un poco sfuggente si accorda bene – e contribuisce – al fascino incantato e fumoso di Cavalli Selvaggi; Billy Parham, invece, lo si inquadra subito, e i suoi intenti e rimpianti orientano una trama più tangibile e toccante.
Billy è un ragazzo onesto, generoso, con un forte senso del dovere e con un senso di appartenenza che vive nel modo più profondo proiettandolo sugli altri. Non per niente, è il leitmotiv del riportare a casa a guidare l’intera storia – e riportare a casa implica il confronto col confine; riportare a casa determina incontri con persone, eventi, storie – come se per Billy la ricerca di sé passasse attraverso il recupero del posto giusto per chi, in un modo o nell’altro, ai suoi occhi ha perso la strada, o per chi a quel posto è stato sottratto.
In questo percorso di passaggi(o), legami con animali, persone e luoghi si creano e mutano in continuazione, configurandosi base e forza portante dell’idea stessa di appartenenza. Lo vediamo in tanti modi: nell’implicito doppio di quel es mia tra un ragazzo e una lupa; nel rapporto profondo e tormentato tra due fratelli; nel sentimento silenzioso ma altissimo di un giovane nei confronti di un luogo che ha sempre chiamato casa.
In questi e in molti altri sensi, Oltre il confine è una storia che parla d’amore. Una storia pervasa da moti di struggimento e di tenerezza che scuotono nel profondo. Come scuote l’altezza e la potenza della scrittura. McCarthy, per esempio, non ti racconta mai cosa pensano i personaggi – te li mostra, pensieri e sentimenti, nel mutare della luce sotto i loro sguardi, nel modo in cui percepiscono il paesaggio, nel loro rapporto con la natura e gli elementi (emblematico, in questo senso, come l’immensa solitudine di Billy ci travolga mentre lui accarezza il cavallo, alza lo sguardo verso un falco o raccoglie la legna per il fuoco). Allo stesso modo – e questo è ancora più disarmante – McCarthy riesce a parlarti di tutto ciò che è la vita, il dolore, l’esperienza umana semplicemente raccontandoti gesti quotidiani (quelli compiuti in casa, ad esempio, come riempire un piatto o accendere una stufa).
Ecco perché nel gesto più semplice c’è una solennità che sconvolge; ecco perché anche in pagine prive di eventi c’è tutto; ecco perché la storia ha un sapore epico dalla prima all’ultima parola.
La storia, poi. La storia.
Una storia di cavalli, terra rossa, alte montagne, deserti, braci, solitudine, piste di carovane, sangue, orazioni, polvere, uomini generosi e uomini crudeli, abiti logori, fratellanza, vento, altopiani selvaggi, sensi di colpa, praterie, e nel frattempo soli rossi che fremono, fiumi come metallo di fonderia, pascoli notturni azzurri e silenziosi, il sibilo del nevischio che muore tra le braci, cittadine al buio come serpenti adorni di pietre preziose, antichi pioppi in un paesaggio da fiaba, il silenzio di temporali lontani come in una campana di vetro, e poi lunghi tramonti blu, storie raccontate a un cavallo coperto di brina bianca, luci lunari tra le nuvole come candele piantate su teschi, gridi nell’oscurità nelle scintille di un fuoco, stelle come fori in una lanterna di latta; e gli occhi della lupa che si incendiano come lampioni di una porta su un altro mondo; e in un mucchio di carboni una finestrella segreta, aperta sul nocciolo infuocato della terra; e poi chiazze di umidità sui muri che diventano mappe di antichi mondi; e cancelli d’ingresso di un’antica impresa, caduti per terra, nella griglia metallica lucida dell’acqua in un campo.
È questo che ci dona la penna immensa di uno scrittore immenso. Tutta questa poesia. Tutta questa poesia nel mondo. Tutta questa poesia nel suo realismo desolato. E una prosa che la contiene
Da lettori, come si può reggere una prosa così? Soprattutto, come si può leggere un libro del genere senza vivere ogni pagina come una religione? Perché ogni pagina ti spalanca gli occhi sul mondo.
Sì, perché è del mondo che si parla in questo libro. Perché il confine non è tanto quello fisico tra New Mexico e México, non è tanto il confine di quelle imprese segnate dal destino che dividono per sempre le vite tra il prima e l’adesso, né tanto quello tra chi è Billy all’inizio e alla fine di questo viaggio. È il confine – sfumato, vago, nullo – tra il mondo e le storie, tra la tua storia e quella degli altri, tra tutte le storie e l’unica storia.
È il confine che ti porta oltre te stesso. È il confine tra quello che sei prima di leggere questo libro e quello che sei dopo.
Non guarderai più niente con gli stessi occhi.

La mia edizione di Oltre il confine.
Foto scattata nel dicembre 2023, in Sardegna, poco fuori dal mio paese.
La mia edizione di Oltre il confine.
Foto scattata nel dicembre 2023, in Sardegna, poco fuori dal mio paese.

***

Come avevo già fatto per Cavalli selvaggi, anche in questo caso ho deciso di trascrivere una serie di passi che mi hanno colpito particolarmente e che credo risultino rappresentativi, almeno in parte, delle sensazioni che Oltre il confine trasmette. Dico ‘almeno in parte’ perché ne avrei voluti riportare molti di più, ma mi sono accorta che diversi passi, soprattutto quelli più mistici, esprimono tutto il loro potere solo all’interno del contesto in cui si trovano, e quindi ho preferito lasciarli fuori da questa rassegna.
Ho raccolto quelli trascritti sotto alcune parole chiave; le pagine si riferiscono all’edizione Einaudi 2014.

Atmosfere diurne

“[…] e osservava con occhi socchiusi l’ovest, dove il sole fremeva in un lago asciutto e rosso sotto le montagne spoglie e le antilopi si muovevano dondolando la testa tra il bestiame nella pianura.” (p. 7)

“Davanti a lui le montagne brillavano di luce bianca accecante. Sembravano appena create dalla mano di un dio imprevidente che forse non aveva neppure deciso a cosa sarebbero servite. Appena create in quel senso. Sentì il cuore scoppiargli in petto e il cavallo, giovane come il ragazzo, scrollò la testa, fece uno scarto verso il ciglio della strada e poi scalciò con uno degli zoccoli posteriori.” (p. 28)

“L’erba gialla vibrava al soffiare del vento e la luce del sole correva per la campagna davanti alle nuvole in movimento.” (p. 55)

“Ripartirono alla ricerca di ciò che avrebbe portato loro il nuovo giorno e un’ora dopo fermarono i cavalli sul fianco orientale della scarpata e rimasero a guardare il sole che saliva come un vetro incandescente dalla pianura di Chihuahua, a ricreare il mondo dalle tenebre.” (p. 163)

“Le nuvole si erano spostate e la giornata era limpida e quieta. Sulla pianura erbosa non c’era assolutamente niente.” (p. 219)

“[…] la polvere leggera sollevata dal branco era ancora sospesa nell’aria come un velo di polline estivo.” (p. 221)

“Doveva essere rimasto inginocchiato a lungo perché il cielo a est era diventato grigio e le stelle finalmente affondavano nel lago pallido fino a diventare cenere e gli uccelli incominciarono a chiamare dalla riva lontana e il mondo ancora una volta ricomparve.” (p. 284)

“I bassifondi contenevano acqua stagnante a perdita l’occhio, che la luce del tramonto faceva sembrare un lago di sangue. […] le cime delle Animas erano illuminate dall’ultimo sole del giorno, che colorava di rosso la neve sui picchi. Più a sud, in lontananza, si scorgevano le cordilleras pallide e antiche del Messico, che segnavano il confine ultimo del mondo visibile.” (p. 299)

“Fermò il cavallo sulla vecchia pista delle carovane che stava percorrendo e guardò verso le sierre a ovest, nere contro lo sfondo rosso sangue del cielo.” (p. 310)

“Sulla pianura lontana oltre il lago la polvere soffiava da Babìcora come se fosse stata incendiata.” (p. 323)

“Il sole rosso che brillava nell’ampia fenditura tra le montagne davanti a lui perdeva la sua forma e veniva lentamente risucchiato per illuminare tutto il cielo con un intenso alone rossastro.” (p. 333)

Atmosfere notturne

“Solo il fiato gli diceva da che parte tirava il vento e l’osservava apparire e svanire, apparire e svanire continuamente davanti a sé.” (p. 6)

“Le prime stelle spuntarono a sud, come appese all’intreccio di rami morti degli alberi lungo il fiume. La luce della luna che ancora non si era levata vibrava sulfurea a est della valle. Osservò la luce espandersi lungo i contorni della prateria deserta e la cupola bianca e grassa e membranosa della luna sollevarsi da terra.” (pp. 9-10)

“Le luci della cittadina sparse sulla prateria parevano nella vallata blu un serpente adorno di pietre preziose nel fresco della sera.” (p. 43)

“Le montagne verso sud erano nere contro il cielo viola. La neve sulle cime a nord così pallida. Come spazi lasciati per scrivere un messaggio.” (p. 43)

“Quando si svegliò di nuovo, la luna era ormai calata e il fuoco era quasi spento. Il freddo era pungente. Le stelle ferme al loro posto, come fori in una lanterna di latta.” (p. 71)

“Non c’era vento, eppure il piano immobile dell’acqua tremò nella luce biancastra come se qualcosa vi fosse passato sopra e una luna imperfetta tremò nell’acqua mossa, si piegò e si drizzò nuovamente e poi tutto tornò come prima.” (p. 140)

“[…] i pascoli verso sud, azzurri e silenziosi sotto la luna nascente, la staccionata che si perdeva nel buio sotto le montagne e l’ombra della staccionata che attraversava la campagna, illuminata dalla luna, simile a una sutura.” (p. 141)

“Si svegliò più volte nel corso della notte e a ogni risveglio Cassiopea si allontanava sempre più dalla stella polare e a ogni risveglio ciò che era stato era stato e nulla mai avrebbe potuto mutarlo.” (p. 142)

“Si stava scatenando un temporale verso sud, lì dove la strada finiva nel deserto e tutto intorno, sotto le nuvole, prevaleva un colore blu e le sottili strisce dei lampi che si susseguivano con insistenza, sulle montagne in lontananza, di un colore blu vivo, scoppiavano nel silenzio più assoluto, come un temporale in una campana di vetro.” (p. 155)

“Non c’erano suoni, tranne quello prodotto dal vento che soffiava sull’erba. La stella della sera era bassa all’orizzonte, rotonda e rossa come un sole al tramonto.” (p. 218)

“Il sole che scendeva sotto i banchi di nuvole aveva prosciugato la luce dorata, lasciando la terra tutta blu, fredda e silenziosa.” (p. 224)

“Con il buio apparve un diafano sciame di stelle. Non riusciva a immaginare a che cosa servissero, erano così tante.” (p. 239)

“Alla sua sinistra c’era la sagoma scura del cavallo, assicurato al terreno; sollevava la testa oltre l’orizzonte per origliare tra le costellazioni, poi si chinava e riprendeva a mangiare l’erba. Studiò quei mondi che disordinatamente stavano facendo la loro comparsa nella notte senza nome e cercò di parlare con Dio di suo fratello; poco dopo si addormentò.” (pp. 257-258)

“Si alzò e si incamminò verso il lago, con il serape sulle spalle, guardando le stelle. Il vento si era calmato e l’acqua era nera e immobile. Sembrava un pozzo di quell’altopiano desertico dentro il quale stavano sprofondando le stelle.” (p. 283)

“[…] si alzò e osservò le stelle invernali scivolare via nel buio, verso il nulla. […] spostò gli occhi nel punto in cui il vento agitava l’erba nella fredda notte stellata, come se fosse la terra stessa a muoversi, e disse a bassa voce prima di riaddormentarsi che l’unica cosa che sapeva di tutto ciò che si doveva sapere era che non vi sono certezze su niente.” (p. 302)

“Il rumore della pioggia che cadeva sulla terra rossa indurita della strada pareva quello di un branco di cavalli che in lontananza attraversava un ponte.” (p. 317)

“[…] la città svanì alle sue spalle e le stelle sciamarono nel cielo buio […]” (p. 326)

“Cavalli e cavaliere gettavano sul terreno un’ombra verticale blu prodotta dalla luce della luna. […] Un sole bianco si stava per levare. Abbeverò i cavalli in una ciénega erbosa da cui si slanciavano antichi pioppi in un paesaggio da fiaba, si avvolse nella coperta e si addormentò.” (p. 330)

Luna

“Sulle montagne splendeva, un po’ inclinata, una falce di luna, simile a un occhio mezzo chiuso per la rabbia.” (p. 103)

“La luna sottile, a forma di corno, era appoggiata sul dorso a occidente come un graal e la luminosa Venere le stava direttamente sopra, come una stella su una barca.” (p. 231)

“[…] e la luna si alzava cieca e bianca a est […]” (p. 280)

“Più a valle la luce madreperlacea della luna traspariva dai banchi di nuvole come se fosse una candela piantata su un teschio.” (p. 362)

Fuoco

“Il fuocherello guizzava nel vento e il nevischio sottile cadeva di traverso giù dal cielo nero e moriva con un sibilo tra le braci.” (p. 64)

“In quell’altopiano selvaggio rimase a lungo coricato al freddo e al buio ad ascoltare il vento e a guardare le ultime scintille del fuoco che si spegneva e le crepe rosse nei carboni di legna che si spezzavano lungo venature inattese. Come se dal legno che si consumava emergessero geometrie nascoste, il cui ordine poteva venire completamente rivelato soltanto, così va il mondo, nel buio e nella cenere.” (p. 112)

“Il vento soffiò per tutta la notte. Consumò il fuoco, consumò i carboni sul fuoco e il fil di ferro incandescente bruciò brevemente al buio della notte come l’armatura di un enorme cuore, poi s’annerì e il vento trasformò i carboni in cenere e soffiò via la cenere e pulì la terracotta su cui erano stati appoggiati i carboni e le ceneri fino a che, a eccezione del fil di ferro annerito, non rimase più alcuna traccia del falò e per tutta la notte passarono nel buio oggetti che non avevano una forma precisa, e tuttavia avevano una destinazione.” (p. 148)

“I pochi carboni ancora accesi sembravano segreti e improbabili. Come gli occhi di cose che si era voluto disturbare mentre sarebbe stato meglio lasciar in pace.” (p. 283)

“Le scintille che fuggivano verso la campagna si spegnevano e svanivano come un grido nell’oscurità.” (p. 323)

“Il fuoco nella bajada era poco più che un mucchio di carboni attizzati che, nascosti nel terreno, rompevano l’oscurità come una finestrella segreta aperta sul nocciolo infuocato della terra.” (p. 333)

Lupi/Lupa

“Correvano nella pianura tormentando le antilopi che si muovevano come fantasmi sulla neve disegnando cerchi; tutt’intorno si alzava una polvere bianca al chiaro di luna e il fiato degli animali saliva pallido come fumo nell’aria fredda, come se dentro di loro ardesse un fuoco; nel silenzio i lupi volteggiavano, si contorcevano e spiccavano balzi e parevano appartenere a un altro mondo.” (p. 6)

“Il lupo è fatto come è fatto il mondo. Non si può toccare il mondo. Non si può tenerlo in mano perché è fatto solo di respiro.” (p. 41)

“Rimase sveglio al freddo per tutta la notte. Di tanto in tanto si alzava, sistemava il fuoco e ogni volta lei lo osservava. Quando le fiamme si ravvivavano, gli occhi di lei si incendiavano come i lampioni di una porta su un altro mondo.” (p. 64)

“Ma quegli occhi non abbandonarono il ragazzo, né cessarono di brillare e quando la lupa abbassò la testa per bere, nell’acqua scura apparve un altro paio di occhi, come di un altro lupo appartenente al mondo del sottosuolo, nascosto in angoli segreti, perfino nelle finte pozze d’acqua come quella, perché la lupa fosse sempre rincuorata e mai del tutto abbandonata.” (p. 69)

“Lei lo guardò con quei suoi occhi gialli, che tradivano non disperazione, ma soltanto quell’insondabile, profonda solitudine che è l’impronta più tipica di questo mondo.” (pp. 90-91)

“Quando l’ultimo lupo si fu fatto avanti, formarono una mezzaluna, con gli occhi simili a torce allineate per illuminare il mondo […]” (p. 258)

Immagini mistiche

“Sembrava intento a definire la propria posizione nel mondo. Intento a definire con un arco o con una corda lo spazio tra il proprio essere e il mondo. Ammesso che un simile spazio esistesse. Ammesso che fosse conoscibile.” (p. 21)

“Vi sono imprese segnate dal destino che dividono per sempre le vite tra il prima e l’adesso.” (p. 111)

“Disse che il mondo poteva solo essere conosciuto per come esisteva nei cuori degli uomini. Perché per quanto sembrasse un luogo che conteneva degli uomini, in realtà era un luogo contenuto nei loro cuori e quindi per conoscerlo era lì che bisognava guardare […]” (p. 115)

“Le cose separate dalle loro storie non hanno senso. Sono semplici forme. Di una certa dimensione e di un certo colore. Di un certo peso. Quando ne abbiamo perso il significato, non hanno più neppure un nome. La storia, d’altro canto, non può mai venir separata dal luogo al quale appartiene, perché essa è quel luogo.” (p. 122)

“Perché questo mondo che ci pare una cosa fatta di pietra, vegetazione e sangue non è affatto una cosa ma è semplicemente una storia. E tutto ciò che esso contiene è una storia e ciascuna storia è la somma di tutte le storie minori, eppure queste sono la medesima storia e contengono in esse tutto il resto. […] la storia non ha dimora né luogo d’essere se non nel racconto, è lì che vive e dimora e quindi non possiamo mai aver finito di raccontare. Non c’è mai fine al raccontare.” (p. 123)

“Non è facile allontanarsi da Dio, capisci? Non è facile. Nel profondo di ogni uomo c’è la consapevolezza che qualcosa sa che egli esiste. Qualcosa sa, e quel qualcosa non lo si può sfuggire né eludere.” (p. 127)

“È ciò a cui aneliamo e che abbiamo timore di cercare ed è soltanto questo che ci può salvare.” (p. 131)

“Il compito del narratore non è facile, disse. Pare che sia obbligato a scegliere la storia che racconta tra le tante possibili. Ma naturalmente non è così. Al contrario, si tratta di derivarne tante dall’unica storia.” (p. 133)

“Alla fine, la strada di ciascuno è la strada di tutti. Non vi sono viaggi isolati perché non vi sono viandanti isolati. Tutti gli uomini sono uno e non vi è un’altra storia da raccontare.” (p. 135)

“Credo sia meglio studiare le cose più piccole. Poi quelle più grandi seguiranno. È nelle cose più piccole che si possono fare progressi. È lì che i propri sforzi si vedono ripagati. Forse è solo questione di atteggiamento.” (p. 202)

“È difficile anche per due fratelli viaggiare insieme in una spedizione come questa. La strada ha le proprie ragioni e non vi sono due viaggiatori che interpretino allo stesso modo quelle ragioni. Se effettivamente riescono mai a comprenderle. […] La forma della strada è la strada stessa. Non c’è altra strada che possegga quella forma, al di fuori di quella. E ogni viaggio iniziato su di essa verrà portato a termine. […]” (p. 202)

“Sia che la vita di un uomo fosse scritta da qualche parte in un libro, sia che prendesse forma giorno dopo giorno, era sempre quella, perché consisteva di una sola realtà, che era il fatto stesso di viverla.” (p. 331)

“La gente si preoccupa del futuro. Ma non c’è futuro. Ogni giorno è fatto dei giorni che l’hanno preceduto. Anche il mondo deve essere sorpreso per come ogni giorno si mettono le cose. Forse perfino Dio.” (p. 337)

“I nomi dei cerros e delle sierras e dei deserti esistono soltanto sulle carte geografiche. Diamo loro un nome per non perdere l’orientamento. Tuttavia, quei nomi li abbiamo coniati proprio perché avevamo perso l’orientamento. Non si può perdere il mondo. Siamo noi il mondo. Ed è perché questi nomi e queste coordinate sono frutto della nostra nominazione che non ci possono salvare.” (p. 338)

“Gli uomini sentono gran rispetto per i fatti della storia. Si potrebbe perfino dire che ciò che dà significato alle cose è unicamente la storia di cui queste sono state partecipi. Ma dov’è collocata quella storia?” (p. 352)

“[…] ultimadamente la verdad no puede quedar en ningùn otro lugar sino en el habla.” (p. 358)

“Disse che gli uomini non riescono a capire che i morti abbandonano non un mondo, ma nient’altro che l’immagine del mondo nel cuore degli uomini. Disse che non si può abbandonare il mondo, perché esso è eterno sotto ogni aspetto, così come lo sono tutte le cose in esso contenute.” (p. 360)

“Nosotros mismos somos nuestra propia jornada. Y por eso somos el tiempo tambièn. Somos lo mismo.” (p. 360)

Altre immagini

“[…] ed entrarono in Messico, nello stato di Sonora, per nulla diverso dalla regione che avevano appena lasciato, eppure totalmente alieno e inquietante.” (p. 65)

“Continuò a cavalcare e le alte montagne a sudovest non sembravano affatto più vicine alla fine della giornata, quasi fossero un’immagine impressa nella retina.” (p. 76)

“I rametti attorcigliati sul dorso del burro sembravano un arazzo di ossa.” (p. 89)

“Disse che le impronte della lupa venivano dal Messico. Disse che la lupa non sapeva nulla di confini. Il giovane don annuì, come per dire che era d’accordo, ma poi disse che importava poco ciò che la lupa sapeva o non sapeva e che se la lupa aveva attraversato quel confine era tanto peggio per lei, perché il confine continuava a esistere.” (p. 101)

“I coyote guaivano lungo le colline a sud e lanciavano richiami dalla sagoma blu della cordigliera, e le loro grida sembravano nascere dalla notte stessa.” (p. 107)

“Sulla parete occidentale della cupola i nidi delle golondrinas sembravano colpi di mortaio tra i paramenti sbiaditi dei santi.” (p. 129)

“[…] si vedevano due gru immobili, ancorate alla loro immagine riflessa, nell’ultima luce del giorno, come statue in un giardino abbandonato e spogliato di ogni altra cosa da qualche calamità.” (p. 147)

“[…] l’acqua ferma nei solchi splendeva nella luce della sera come una griglia metallica lucida che si allungava in lontananza. Come se i cancelli d’ingresso di un’antica impresa fossero caduti a terra oltre i pioppi, lungo la cunetta.” (p. 175)

“Lui si voltò leggermente e guardò il suo cavallo. Vedeva, piegate come un trittico scuro in un fermacarte di vetro, le forme di due uomini e una ragazza illuminate dalla luce fuggevole del fuoco nel centro nero dell’occhio dell’animale.” (pp. 178-179)

“La casa puzzava di umidità e di paglia vecchia e sull’intonaco gonfio e cadente le infiltrazioni d’acqua avevano disegnato ampie mappe color seppia che sembravano riprodurre antichi regni, antichi mondi.” (p. 194)

“Tre anatre scure, immobili, sulla calma di peltro dell’acqua.” (p. 234)

“Il cavallo avanzava a fatica, Billy afferrò la cavezza e prese a camminargli di fianco, parlandogli. Il cavallo, coperto da uno strato bianco di brina, risplendeva come una magia su quella pianura sempre più scura. Quando gli ebbe detto tutto quello che sapeva dire, cominciò a raccontargli delle storie. Gli raccontò storie in spagnolo che sua nonna gli raccontava da bambino e quando ebbe raccontato tutte le storie che ricordava, si mise a cantare.” (p. 239)

“Nella luce che usciva dalle finestre, i tronchi multicolore dell’alameda apparivano pallidi come ossa.” (p. 282)

“Le gru stavano migrando a sud e lui le osservò volare in formazioni lineari lungo invisibili corridoi, disegnati nel loro sangue da centinaia di migliaia di anni.” (p. 285)

“Le ombre, lì dove raggiungevano il fiume, sembravano una scrittura.” (p. 286)

“[…] e osservò il cielo profondo, ceruleo e teso che copriva il Messico intero, dove il mondo antico si aggrappava alle pietre e alle spore delle cose viventi e viveva nel sangue degli uomini.” (p. 287)

“Un giorno all’alba, fermò il cavallo a un incrocio per Buenaventura e osservò gli uccelli acquatici lasciare strisce sul fiume e sulle lagune isolate, le ali che si muovevano lentamente con l’alba rossa sullo sfondo.” (p. 288)

“Una volta in Arizona ho visto la pioggia cadere su una strada d’asfalto. Per un buon mezzo miglio piovve su un lato della striscia centrale, mentre dall’altra parte era asciuttissimo. La striscia bianca faceva da spartiacque. […] Una volta ho visto tuonare nel bel mezzo di una tempesta di neve […] Tuoni e lampi. I lampi non si vedevano, ma intorno tutto si illuminava, bianco come il cotone.” (p. 307)

“Aveva due occhi neri arrossati, cupi e vuoti, simili a scorie di piombo versate in un foro per isolare qualcosa di virulento e contagioso.” (p. 312)

“La sera sentì di nuovo il volo alto delle gru, sopra le nubi, in bilico sulla linea della curvatura terrestre. Con occhi metallici solcavano i sentieri che Dio aveva scelto per loro. Nei cuori il flusso delle maree.” (p. 338)

“Al di là degli alberi si vedeva il contorno limpido e piatto del fiume, simile a un coltello.” (p. 343)

“Il fiume dietro gli alberi sembrava metallo di fonderia.” (p. 365)

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Se ti interessa leggere altro sulla Trilogia della frontiera, ho parlato del primo volume, Cavalli selvaggi, qui e qui. 😉

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I lavoratori del mare: quando la Natura diventa Arte e l’Arte diventa Natura

La mia edizione de I lavoratori del mare.
Foto scattata nell'inverno 2023.
La mia edizione de I lavoratori del mare.
Foto scattata nell’inverno 2023.

È come una marea questa lunga lettera d’amore che Victor Hugo scrive all’isola di Guernsey e all’arcipelago normanno della Manica – una marea imponente, maestosa, di quelle che a vederle ti spiazzano mettendoti davanti un senso di grandezza che non riesci a contenere, che quasi non riesci a concepire, e sì, di quelle che puoi incontrare solo in luoghi come questo, dove l’Atlantico si riversa sulle coste francesi e britanniche.

Una marea, una lettera d’amore. Ecco cos’è I lavoratori del mare. Una lettera d’amore che sa di marea. Ed è amore vero, puro, perché dell’elemento naturale e umano di questo arcipelago Hugo interpreta gli aspetti più luminosi come i più tremendi, mostrando di amare i secondi tanto quanto i primi e inquadrando tutto – la natura benevola come quella distruttiva – sempre sotto il segno della meraviglia, dell’incanto, della suggestione.
Soprattutto suggestione, e in ogni senso, perché il racconto di natura e l’indagine sull’animo umano si fanno pilastri di una trama incentrata sul coraggio e sulla solitudine di un protagonista che per amore sfida e compie l’impensabile – di una trama, ancora, magistralmente giocata sulle sorprendenti direzioni che le coincidenze di intenti umani e di eventi naturali possono determinare.

Nasce così un romanzo che se ti piace il mare ti farà impazzire per come ti ci porta dentro e ti farà impazzire, anche, per come ti sentirai impreparato, impotente, perché c’è troppo da conoscere e troppo che non conosci; ancora, un romanzo dove il lessico marinaresco produce effetti antitetici, stranianti, dividendoti quasi a metà, perché l’intenzione di fermarti di fronte a ogni termine sconosciuto si scontra, specie nei punti in cui queste parole tengono dietro le une alle altre, con un’onda che ti trascina e che non puoi contrastare, e magari, sì, magari ci sono punti in cui non capisci a pieno quanto sta accadendo, ma da qualche parte, in qualche modo, capisci che proprio questo significa essere davvero dentro il libro, e allora sai che va bene così.
È la Natura che diventa Arte, è l’Arte che diventa Natura: annullato ogni confine, Hugo ti prende e ti getta nel tutto, ti porta lì e ti lascia col mare e con le maree, coi venti e le atmosfere, il giorno e la notte, la tempesta, l’avvicendarsi degli elementi, le rocce, i flutti, la pioggia, la bonaccia, la nebbia, le muraglie di nuvole – ti lascia lì a sperimentare ogni sentimento che il mare può esprimere – e con una scrittura poderosa, che ti trascina di continuo tra inquietudine e fascino, paura e incanto, angoscia e meraviglia, ti rende partecipe della lotta di un uomo contro una forza molto più grande di lui – della lotta di un uomo che raccoglie e innalza a suo scudo un ingegno raro e un coraggio eccezionale. E proprio in questo modo, proprio al termine di un’avventura che ti fa pensare non possa esistere coraggio più grande, Hugo ti dimostra l’esistenza di un altro tipo di coraggio, uno più profondo, ancora più viscerale, finché quella marea – proprio quella marea che ti ha trasportato fin lì – non diventa protagonista assoluta di uno dei finali più mozzafiato – letteralmente, perché è impossibile non trattenere il fiato, impossibile non avere il cuore in gola a ogni riga delle ultime pagine – e più forti e toccanti che siano mai stati scritti.

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Una scena che ho amato molto scrivere, e uno scatto natalizio

Uno scatto natalizio per Mari Ermi!
Uno scatto natalizio per Mari Ermi!

Tra le scene che ho amato di più scrivere ce n’è una che ha per protagonisti Ambra, Antonio e il cielo azzurro sulla campagna invernale. 
Ho pensato di regalarvene un estratto qui, oggi, anche perché la scena è ambientata proprio a metà dicembre. 
Spero tanto vi piaccia!

✏️

[…] «Ho detto che devi poggiare la testa per terra.»
Lui si voltò confuso, chiedendosi come facesse Ambra a sapere in che modo si era disteso, visto che continuava a tenere gli occhi chiusi. Non commentò, ma decise di eseguire. Spostò le braccia e poggiò la testa direttamente sull’erba.
E a quel punto se ne rese conto: in tanti anni non si era mai steso sul terreno. Non davvero, non in maniera completa.
Si ritrovava dritto davanti al cielo. E c’era qualcosa… Qualcosa di troppo. Sentì la fronte aggrottarglisi e portò automaticamente le mani a coppa attorno agli occhi che gli si stringevano. A fianco a lui, la risata cristallina di Ambra.
«No, così non va. Così è troppo facile. Togli le mani lentamente e guarda cosa succede.»
Antonio eseguì. E allora gli sembrò che l’azzurro lo inondasse, dall’alto e dal basso, da destra e da sinistra, fino a invadere completamente il suo campo visivo. Cercò di tenere gli occhi aperti, quasi gli si mozzava il respiro.
Era tutto azzurro. Non vedeva altro, non c’era altro.
Luce e azzurro, azzurro e luce.
E all’improvviso, per qualche strano prodigio, i suoni della campagna lì attorno sembrarono amplificarsi. Il ruscello, la brezza, il fruscio tra gli alberi, i rumori tra le canne. Tutto. Ed era vero, quello che diceva Ambra: faceva girare la testa.
Sì, perché quello che aveva di fronte era molto più del bel cielo azzurro che ammirava di solito con i piedi saldamente piantati sul terreno. Era azzurro in un altro senso.
E poi no, non ce l’aveva di fronte.
Era come se, occupando la totalità del suo campo visivo, quel cielo selvaggio, immenso, non si fosse preso solo lo spazio tutt’intorno, ma fosse entrato dentro di lui. E gli entrava dentro con una forza, con un’intensità, con un’energia tale che il suo corpo non riusciva a contenerlo.
Ebbe l’impulso di chiudere gli occhi, poi si voltò e vide che Ambra li aveva riaperti e fissava il cielo. […]

✏️ 🌱

Chiudo la rubrica del 2023 con qualche ringraziamento.
Come sempre, grazie alla Edizioni Convalle per il sostegno costante al romanzo e per la possibilità che mi ha dato di prendere parte alle varie fiere – a Modena quest’anno è stato bellissimo!
Grazie alle librerie che continuano ad accogliere Mari Ermi, aiutandolo a raggiungere nuove strade. Un grazie gigantesco, in particolare, alla Libreria Chiara e Stefy di Bachisio Medde (Ghilarza), che ha mostrato un entusiasmo straordinario per il romanzo e mi ha aiutato con una generosità fuori dal comune.
Grazie a tutte le persone che in un modo o nell’altro mi hanno aiutato e mi stanno aiutando nella promozione.
Grazie infinite ai miei familiari e a Matteo, per quello che fate ogni giorno per me e il mio sogno.
E, naturalmente, un grazie immenso a tutti voi che avete dato e state dando fiducia a Mari Ermi – grazie a chi ha scelto o sceglierà di ragalarselo (o regalarlo), grazie a chi ne ha parlato e ne parla e in giro, grazie a chi l’ha recensito sui social network o nelle librerie online: è un aiuto enorme per me.
È passato un anno e mezzo dalla pubblicazione di Mari Ermi – un anno e mezzo! – ed è bellissimo vedere ancora un simile riscontro dopo tutto questo tempo. Non riuscirò mai a esprimere la mia gratitudine nei vostri confronti, ma spero di farlo al più presto regalandovi un nuovo romanzo.

Un caro augurio di Buon Natale e Buone Feste a tutti! 🎄

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Cavalli selvaggi e L’isola di Arturo: (più di) qualcosa in comune

Cavalli selvaggi di Cormac McCarthy e L’isola di Arturo di Elsa Morante: due delle storie più intense, evocative e travolgenti che abbia letto quest’anno. Gli stati d’animo di John Grady e di Arturo – e gli scenari in cui i due si muovono – mi hanno emozionato e scavato dentro, accompagnandomi ben oltre l’ultima pagina: su queste due storie sono tornata – torno – di continuo col pensiero, e più ci ragiono, più mi sembra di cogliere, con sempre maggior stupore, aspetti che i due romanzi, pur così diversi l’uno dall’altro, si trovano a condividere. Provo a elencarli qui sotto.

Le mie edizioni de L'isola di Arturo e Cavalli selvaggi. 
Foto scattata nell'autunno 2023.
Le mie edizioni de L’isola di Arturo e Cavalli selvaggi.
Foto scattata nell’autunno 2023.
  • La tensione al viaggio, all’avventura, alla scoperta del mondo come presupposto per indagare e scoprire se stessi. Che poi queste avventure siano concretamente vissute o soltanto immaginate e bramate, poco importa.
  • Il carattere di romanzo di formazione. Il percorso di crescita interiore fa da filo conduttore in entrambe le storie, innestato nell’una su un impianto western, nell’altra sul quadro agreste e marinaro di un’isola italiana.
  • L’indagine sulla solitudine, come condizione e come sentimento, in ogni sua declinazione. Ricercata e paventata, bramata e detestata, goduta e sofferta, magnifica e terribile.
  • Il richiamo del passato. È incredibile quanto gli “antichi condottieri” dei libri che ispirano Arturo abbiano in comune con lo spirito dei nativi americani che nell’ora “delle ombre lunghe” suggestiona John Grady.
  • L’innamoramento e il passaggio attraverso una storia d’amore come parte dell’esperienza formativa.
  • Il finale. Le “chiuse” che McCarthy e Morante hanno voluto dare alle loro storie sono tra loro così simili che pensarci risulta addirittura spiazzante.
  • La forza delle atmosfere. Due ambientazioni completamente diverse, certo, ma che siano i cieli e le praterie americane o le stelle e il mare di Procida, e che vengano vissute con un cavallo o con una barca, le atmosfere raccontate nei due romanzi hanno lo stesso immenso potere di restare nella mente e nel cuore di chi ci si immerge.

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A Cavalli selvaggi ho dedicato un articolo qui, mentre riguardo a L’isola di Arturo puoi leggere qualcosa anche qui. 😉

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Scrivere zen è un libro tesoro

L’unico modo per parlare di un libro come Scrivere zen – un libro, cioè, che non ho difficoltà a definire un tesoro – è lasciare che sia lui a parlare: ho scelto così di condividerne in questo articolo due estratti che trovo particolarmente simbolici e illuminanti.
Natalie Goldberg esprime concetti su cui non si può fare a meno di tornare, e molto spesso – basti guardare al secondo estratto – le sue parole sono valide non solo per chi scrive, ma per tutti.

La mia edizione di Scrivere zen.
Foto scattata nell’autunno 2023.
La mia edizione di Scrivere zen.
Foto scattata nell’autunno 2023.

Dal capitolo Vivere due volte (pp. 60-61):

“Be’, intendiamoci: anche agli scrittori piace far quattrini; anche agli artisti, contrariamente a quanto di solito si ritiene, piace mangiare. È solo che i soldi non sono per loro la motivazione determinante. Personalmente, se ho tempo per scrivere mi sento ricchissima, mentre mi sento poverissima se ho uno stipendio regolare ma non ho tempo per il mio vero lavoro. Pensateci. Il datore di lavoro ci dà uno stipendio in cambio del nostro tempo. Il tempo è la merce di maggior valore che un essere umano abbia da offrire. Noi scambiamo il tempo della nostra vita con del denaro. Lo scrittore si ferma al primo passo – il proprio tempo – e gli attribuisce un valore prima ancora di ricevere in cambio del denaro. Lo scrittore tiene moltissimo al proprio tempo, e non ha tanta premura di venderlo. È come ereditare un terreno di famiglia. Quel terreno è sempre appartenuto alla famiglia, da tempo immemorabile. Viene qualcuno, e si offre di comprarlo. Lo scrittore, se è furbo, non ne venderà troppo. Sa bene che una volta venduto il terreno potrà anche comprarsi una seconda macchina, ma non avrà più un posto dove rifugiarsi, non avrà più un posto dove sognare.
Dunque non è un male essere un po’ sciocchi, se si vuole scrivere. Dentro di noi esiste una persona a cui non si può mettere fretta, una persona che ha bisogno di tempo e ci impedisce di darlo via tutto. Quella persona ha bisogno di un posto dove andare, e ci costringerà a fissare le pozzanghere sotto la pioggia, di solito senza cappello, e a sentire le gocce sulla testa.”

Dal capitolo Siate precisi (pp. 84-85):

“Una decina d’anni fa decisi che volevo imparare il nome delle piante e dei fiori che crescevano nei paraggi di casa mia. Mi comprai un manuale, e passeggiando per le strade alberate […] esaminavo le foglie, la corteccia e i semi confrontandoli con le descrizioni del libro. Acero, olmo, quercia, robinia. Spesso baravo, chiedendo a chi vedevo al lavoro nel proprio giardino il nome dei fiori e degli alberi che vi crescevano. Restai stupitissima nello scoprire quanto fossero pochi coloro che avevano una qualche idea del nome degli esseri viventi che abitavano nel loro fazzoletto di terra.
Quando conosciamo il nome di qualcosa, questo ci dà una maggiore concretezza. Elimina le nostre sfocature mentali; ci lega alla terra. Se camminando per la strada vedo una ‘sanguinella’ o una ‘forsythia’, mi sento più in armonia con l’ambiente. Mi sto accorgendo di quel che mi circonda, e so dargli un nome. Sono più vigile e attenta.
[…] Se diciamo ‘geranio’ anziché ‘fiore’, penetriamo più a fondo in ciò che è qui ed ora. Più riusciamo ad avvicinarci a quel che abbiamo davanti al naso, più gli permettiamo di insegnarci tutto quel che ci serve. […]
Imparate il nome di tutto: uccelli, formaggi, trattori, automobili, edifici. Lo scrittore è tutto: architetto, chef, agricoltore; e allo stesso tempo, lo scrittore non è niente di tutto questo.”

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