Passavamo sulla terra leggeri

La mia edizione di Passavamo sulla terra leggeri.
Foto scattata nell’agosto 2025.

Non ho parole per raccontare cos’è davvero questo libro, né per esprimere la mia gratitudine nei confronti di Sergio Atzeni. Ci ha donato un racconto ispiratissimo, intessuto di poesia che sembra fluire direttamente dal tempo, fuori da ogni canone e intanto amalgama di magia e realtà, energia e malinconia, un fiume in piena che scorre tra storia e fiaba, stravolgendo qualsiasi confine con la forza dello spirito sardo.

Grazie, grazie per avermi fatto sentire con un libro tutta la fierezza e tutta l’emozione di appartenere a questo popolo, a questa terra, a questa isola arcana e meravigliosa.

“Chiamavamo noi stessi s’ard, che nell’antica lingua significa danzatori delle stelle.”

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Suggestioni paesaggistiche e sentimento ne L’edera di Grazia Deledda

La mia edizione de L’edera.
Foto scattata nell’agosto 2024.

L’edera è un romanzo breve e assai intenso che Grazia Deledda costruisce sullo sfondo di un duplice decadimento – della nobiltà sarda e della società del paese di Barunèi all’inizio del XX secolo – rendendo la tragica vicenda di Annesa punto di partenza per una riflessione su devozione e attaccamento e per un’indagine sulle idee di colpa e di peccato, misurando la distanza tra pentimento ed espiazione ed esplorando il rapporto tra religione e fede, mentre il paesaggio sembra parlare e il suo sentimento compenetrarsi con gli stati interiori dei personaggi, in un gioco di simbologie continuo e potente e in una fusione quasi mistica tra scrittura e natura.

***

Ho trascritto qui sotto una serie di passi che mi hanno colpita particolarmente e che credo risultino rappresentativi della bellezza, della forza e del pathos della scrittura di Grazia Deledda. Ho deciso di concentrarmi su quelli che raccontano il paesaggio e il compenetrarsi della natura con gli stati d’animo dei personaggi.
Le pagine si riferiscono all’edizione de L’edera OMBand Digital Editions 2022.

“La notte era calda e tranquilla, rischiarata appena dal velo biancastro della Via Lattea e dalle stelle vivissime. Davanti ad Annesa stendevasi l’orto, nero e tacito, dal quale saliva un aspro odore di pomidoro e di erbe aromatiche: il profumo del rosmarino e della ruta ricordava la montagna, le distese selvagge, le valli primordiali, coperte di macchie e di arbusti, che circondavano il paese.
In fondo all’orto cominciava il bosco, dal quale emergeva la montagna, col suo profilo enorme di dorso umano disteso sull’orizzonte stellato. I grandi alberi neri, in fondo all’orto, erano così immobili e gravi che parevano roccie scure.
Ma la pace, il silenzio, l’oscurità della notte, l’immobilità delle cose, pesavano come un mistero sul cuore di Annesa.” (pp. 15-16)

“– […] tu l’hai già detto una volta, che io sono come l’edera; come l’edera che si attacca al muro e non se ne distacca più finché non si secca…
– O finché il muro non cade […]” (p. 19)

“Ella aveva partecipato a tutte le vicende della famiglia, in quella casa dove il destino l’aveva gettata come il vento di marzo getta il seme sulla roccia, accanto all’albero cadente. Ed era cresciuta così, come l’edera, allacciandosi al vecchio tronco, lasciandosi travolgere dal turbine che lo schiantava.” (p. 20)

“Seduta sul limitare della porta, ombra nell’ombra, ella si lasciava avvincere dai ricordi: e questi ricordi erano tristi, e avevano uno sfondo incerto e melanconico come quel cielo notturno che finiva davanti a lei sopra la montagna addormentata.
Solo qualche ricordo, fra gli altri, brillava e si staccava da questo sfondo, simile alle stelle filanti che di tanto in tanto pareva si staccassero dal cielo, stanche di tanta altezza serena, per scendere sulla terra ove si ama e si muore.” (p. 20)

“Enormi roccie di granito, sulle quali il musco disegnava un bizzarro mosaico nero e verde, si accavalcavano stranamente le une sopra le altre, formando piramidi, guglie, edilizi ciclopici e misteriosi. Pareva che in un tempo remoto, nel tempo del caos, una lotta fosse avvenuta fra queste roccie, e le une fossero riuscite a sopraffare le altre, ed ora le schiacciassero e si ergessero vittoriose sullo sfondo azzurro del cielo. E le macchie e le quercie, a loro volta, cessata la lotta delle pietre, avevano silenziosamente invaso i precipizi, s’erano arrampicate sulle roccie, avevano anch’esse cercato di salire le une più su delle altre. Tutte le cose in quel luogo di grandezza e di mistero assumevano parvenze strane […]” (pp. 25-26)

“[…] ai loro piedi il bosco precipitava come una grandiosa cascata verde […] Valli e montagne, valli e montagne si seguivano fino all’orizzonte: tutto era verde, giallo e celeste.” (p. 27)

“La luce rosea-aranciata dell’aurora illuminava dolcemente il passaggio, che pareva un paesaggio primordiale ancora vergine di orme umane. La valle era tutta scavata nel granito; muraglie di roccie, edifizi strani, colonne naturali, cumuli di pietre che sembravano monumenti preistorici, sorgevano qua e là, resi più pittoreschi dal verde delle macchie di cui erano circondati e inghirlandati. Il letto di un torrente, di granito, d’un grigio chiarissimo, solcava la profondità verdognola della valle, e gli oleandri fioriti che crescevano lungo la riva, fra le roccie levigate, parevano piantati entro ciclopici vasi di pietra. […]” (p. 44)

“Un coro d’una tristezza selvaggia indescrivibile risonava nella chiesetta: pareva un rombo lontano di tuono, attraversato da melanconici squilli di campane, da lamenti e singhiozzi infantili. […]
E i devoti, nella chiesetta sempre più melanconica, proseguivano il loro coro desolato: pareva che un popolo nomade passasse al di fuori, nel campo roccioso, intonando un canto nostalgico, un addio alla patria perduta.
Paulu sentiva quest’arcana nostalgia che è nel carattere del popolo sardo.” (pp. 50-51)

“[…] E Paulu che non tornava! Dov’era egli? Il pensiero di Annesa lo cercava, lo sentiva, lo seguiva, per l’immensità deserta delle tancas, attraverso i sentieri melanconici, sotto quel cielo cupo e minaccioso che anche sopra di lei, sopra la sua testa dolente, pareva pesasse come una volta di pietra.” (p. 61)

“La giornata diventava sempre più cupa e triste; il tuono rumoreggiava in lontananza, dietro la montagna livida e nera. Qualche cosa di angoscioso e di tragico gravava nell’aria. […]
Sotto il cielo grigio solcato da nuvole quasi nere, d’un nero terreo, tutto appariva triste: la valle si sprofondava come un enorme precipizio, le roccie sembravano pronte a rovesciarsi le une sulle altre: il bosco della montagna, nero e immobile, si confondeva con le nuvole sempre più basse.
E Paulu non veniva. Annesa soffriva un terribile mal di capo: le pareva che l’anfora fosse una delle roccie che, nel suo capogiro, ella vedeva quasi muoversi e precipitare: e il tuono le risuonava entro la testa, con un rombo continuo.” (p. 62)

“[…] l’uragano era cessato: la luna saliva limpida sul cielo azzurro chiaro come un cristallo; i vetri delle finestre, il lastrico del cortile, le tegole della tettoia avevano un riflesso d’argento. E nel silenzio profondo non si udiva più neppure il canto dei grilli, né la voce del rosignuolo che ogni notte cantava come in sogno, nel bosco in fondo all’orto.
La furia dell’uragano aveva spento anche la voce delle cose. Pareva che gli abitanti del villaggio, nero ed umido sotto la luna, fossero tutti scomparsi come i loro leggendari vicini del paese distrutto.” (p. 67)

“Cadeva una sera mite e luminosa. I boschi, immobili e taciti, dal confine dell’orto fino agli estremi vertici della montagna apparivano rosei, come illuminati da un incendio lontano […]” (p. 90)

“Per qualche tempo rimase là, immobile sullo scalino della porta, ma invece di riposarsi le pareva di sentirsi sempre più stanca, e come il cielo si oscurava, anche i suoi pensieri si velavano.” (p. 90)

“Le pareva che fantasmi mostruosi l’inseguissero, per afferrarla e gettarla in un luogo più misterioso e spaventoso di quell’inferno al quale non credeva. Il caos era intorno a lei: un’ombra, una nebbia, una notte tormentosa, senza fine.” (p. 93)

“[…] di nuovo tutto fu silenzio sotto il grande occhio giallo della luna.” (p. 95)

“Le parve che la notte, la luna, le ombre, il silenzio le fossero amici: tutte le cose tristi ed equivoche oramai le davano coraggio, perché tutto era triste ed equivoco nella sua anima.” (p. 96)

“Qua e là brillavano, tristi e glauche fra i giunchi neri, larghe e rotonde chiazze d’acqua che parevano gli occhi melanconici della montagna non ancora addormentata. […]” (p. 96)

“[…] Fantasmi mostruosi sbarravano allora lo sfondo della strada: in lontananza apparivano edifizi neri misteriosi; muraglie fantastiche sorgevano di qua e di là dal sentiero: le macchie sembravano bestie accovacciate, e dai rami degli elci si protendevano braccia nere, teste di serpenti. Tutto un mondo di sogno, ove le cose incolori e informi destavano paura per la loro immobilità e la loro incertezza, si stendeva sotto il bosco.” (p. 96)

“[…] il mare apparve, come una nuvola d’argento azzurrognolo, sull’ultima linea del cielo lattiginoso […]” (p. 97)

“La luna brillava limpidissima; ma in lontananza cominciavano a salire larghi nastri di vapori luminosi, e quando il pastore e Annesa arrivarono al di là della radura videro, attraverso i tronchi, un mare di nebbia argentea, dal quale emergeva, enorme scoglio azzurro in forma di piramide, il monte Gonare.” (p. 99)

“Ma sotto di sé vide una cascata spaventosa di roccie, precipitante fin quasi in fondo alla valle: qua e là, fra i crepacci delle rupi livide alla luna, nereggiavano ciuffi d’elci e cespugli che parevano chiome selvaggie di mostri pietrificati.” (p. 99)

“Il cielo era velato; larghe striscie di nebbia bianca che parevano fiumi, solcavano qua e là le valli e i monti.” (p. 100)

“[…] sul versante della montagna ondulavano ombre e vapori, simili a grandi veli distesi sulle roccie […]” (p. 102)

“[…] ma già una luce vaga la richiamava verso un punto lontano, e la guidava come la luce del faro richiama e guida il navigante attraverso le tenebre e l’ira feroce del mare in tempesta.” (p. 102)

“[…] entrambi con gli occhi fissi al di fuori del portico, verso quella lontananza triste ove la luna moriva e il cielo pareva coperto di veli che uno dopo l’altro cadevano lentamente dietro le ultime montagne dell’orizzonte.” (p. 106)

“E ogni sua parola cadeva nel cuore di Annesa come pietra entro una palude, stracciando il velo torbido e fetido della superficie melmosa.” (p. 108)

“Vide attraverso il finestrino apparire una stella rossastra sul cielo verdognolo del crepuscolo, poi altre stelle ancora: e il bosco tacque, e tutto fu silenzio, silenzio misterioso di attesa.” (p. 115)

“[…] le pecore di zio Castigu pascolavano nascoste fra le macchie in fondo alla radura, e il tintinnio cadenzato dei loro campanacci pareva una musica misteriosa, quasi magica, un coro di vocine tremule sgorganti dalle pietre, dai tronchi, dai cespugli.” (p. 116)

“[…] erano lagrime di pentimento e di speranza, che nella notte infinita della sua anima cadevano e brillavano come nella notte le stelle filanti.” (p. 116)

“[…] la finestra era aperta; fino alla camera giungeva il canto di un grillo, un odor di basilico, lo splendore lontano d’una stella.” (p. 118)

“[…] La grande vallata dormiva ancora, con le roccie, i muraglioni di granito, i cumuli di pietre, chiari appena tra il verde scuro delle macchie: e nel silenzio dell’alba triste, pareva, coi suoi monumenti fantastici di pietra chiara, e le sue macchie melanconiche, un cimitero ciclopico, sotto le cui roccie dormissero i giganti di una età scomparsa.” (pp. 131-132)

“Una tristezza solenne, di cose morte, di luoghi vergini mai attraversati dall’uomo, incombeva sul paesaggio, fino all’orizzonte lontano, che con le sue nuvolette immobili pareva una pianura vaporosa sparsa di macchie ingiallite dall’autunno.
Annesa scendeva verso il ponte, con un fagotto in mano, e sembrava compenetrata dal silenzio cupo del luogo e dell’ora: il suo viso grigio e immobile, e gli occhi chiari dalla pupilla dilatata, riflettevano la serenità funebre del grande paesaggio morto, del gran cielo solitario.” (p. 132)

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Cavalli selvaggi e L’isola di Arturo: (più di) qualcosa in comune

Cavalli selvaggi di Cormac McCarthy e L’isola di Arturo di Elsa Morante: due delle storie più intense, evocative e travolgenti che abbia letto quest’anno. Gli stati d’animo di John Grady e di Arturo – e gli scenari in cui i due si muovono – mi hanno emozionato e scavato dentro, accompagnandomi ben oltre l’ultima pagina: su queste due storie sono tornata – torno – di continuo col pensiero, e più ci ragiono, più mi sembra di cogliere, con sempre maggior stupore, aspetti che i due romanzi, pur così diversi l’uno dall’altro, si trovano a condividere. Provo a elencarli qui sotto.

Le mie edizioni de L'isola di Arturo e Cavalli selvaggi. 
Foto scattata nell'autunno 2023.
Le mie edizioni de L’isola di Arturo e Cavalli selvaggi.
Foto scattata nell’autunno 2023.
  • La tensione al viaggio, all’avventura, alla scoperta del mondo come presupposto per indagare e scoprire se stessi. Che poi queste avventure siano concretamente vissute o soltanto immaginate e bramate, poco importa.
  • Il carattere di romanzo di formazione. Il percorso di crescita interiore fa da filo conduttore in entrambe le storie, innestato nell’una su un impianto western, nell’altra sul quadro agreste e marinaro di un’isola italiana.
  • L’indagine sulla solitudine, come condizione e come sentimento, in ogni sua declinazione. Ricercata e paventata, bramata e detestata, goduta e sofferta, magnifica e terribile.
  • Il richiamo del passato. È incredibile quanto gli “antichi condottieri” dei libri che ispirano Arturo abbiano in comune con lo spirito dei nativi americani che nell’ora “delle ombre lunghe” suggestiona John Grady.
  • L’innamoramento e il passaggio attraverso una storia d’amore come parte dell’esperienza formativa.
  • Il finale. Le “chiuse” che McCarthy e Morante hanno voluto dare alle loro storie sono tra loro così simili che pensarci risulta addirittura spiazzante.
  • La forza delle atmosfere. Due ambientazioni completamente diverse, certo, ma che siano i cieli e le praterie americane o le stelle e il mare di Procida, e che vengano vissute con un cavallo o con una barca, le atmosfere raccontate nei due romanzi hanno lo stesso immenso potere di restare nella mente e nel cuore di chi ci si immerge.

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A Cavalli selvaggi ho dedicato un articolo qui, mentre riguardo a L’isola di Arturo puoi leggere qualcosa anche qui. 😉

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Non smetterò mai di leggere Dialoghi con Leucò

Credo in ciò che ogni uomo ha sperato e patito. Non penso esistano parole più efficaci di queste – queste, pronunciate dal primo interlocutore nel pezzo intitolato Gli dèi – nel condensare il senso ultimo del mito e, insieme, il senso ultimo di questi Dialoghi con Leucò, impresa maestosa compiuta da Pavese, trionfo commovente di grecità e umanità.
Grecità e umanità. Perché insieme?, vi potreste chiedere.
Perché non c’è interrogativo umano, non c’è passione o sentimento che la cultura greca antica non abbia affrontato o esplorato. L’ha fatto in modi e sedi diverse, l’ha fatto soprattutto con la grande letteratura – come non pensare ai poemi omerici o al teatro?! – ma l’ha fatto, ancor prima e ancor più, attraverso il mito, patrimonio antico e universale di un popolo intero, sostrato di qualsiasi manifestazione artistica.
Una mitologia, quella greca, che Cesare Pavese ha fatto propria al punto da poterne scrivere incrociando più livelli di intenti: esplorare l’uomo attraverso il mito ed esplorare il mito attraverso l’uomo, in ventisette dialoghi di uno splendore delicato, di una rara sensibilità e di una profondità sconvolgente.
Dialoghi, dunque. Voci di dèi, semidei e uomini. Voci di ninfe e titani. Ascoltiamo Circe, Tiresia, Eracle; ascoltiamo Saffo, Ariadne, Calipso. Ascoltiamo anche diverse entità: Eros conversa con Tànatos, Bia con Cratos. Frasi brevi, spesso lapidarie, che concentrano strati di significati in una manciata di parole – parole su cui hai bisogno di tornare, midolli di realtà che giri e rigiri dentro di te. E si parla di amore, di origine e di religione; di nostalgia, di vecchiaia, di morte, di passione. Della vita, dunque, semplicemente; e di noi, di noi tutti, perché la domanda, la grande domanda sottesa, è sempre chi siamo? E così, dando voce al mito per quello che è – esattamente per quello che è – Pavese svela del mito aspetti nascosti, regalandoci prospettive inattese di storie che appartengono al nostro immaginario, sfaccettature che abbiamo sempre avuto sotto gli occhi ma su cui non abbiamo mai riflettuto.
E parlano sempre di noi questi dialoghi. Non solo quando a parlare sono uomini o quando si parla propriamente degli uomini: nel parlare degli dèi si parla di noi; anche nel parlare della dimensione arcaica primigenia si parla di noi.

Sì, perché il mondo è vecchio. Il mondo è più vecchio degli dèi.
I primi dialoghi in particolare rivelano un mondo antico, che rimarrà poi lì, a galleggiare e riecheggiare, quasi sospeso, per tutto il resto del libro, in contrapposizione a quello degli Olimpi ma a quest’ultimo sotteso. È il mondo del Caos primigenio, un mondo prima del tempo, il mondo favoloso – le cose stesse, regnavano alloradelle belve e dei boschi, del mare e del cielo, di lotta e di sangue; è la dimensione dell’indistinto, dove la nuvola la rupe la grotta hanno lo stesso nome, dove ogni entità è titanica e con loro, i Titani, domina l’irrazionale, l’ambiguo, la natura libera e ferina, mentre tutto è istinto, mentre i riti selvaggi spargono sangue.
Cos’era, a quell’epoca, l’Olimpo? Soltanto un monte brullo.
Poi è arrivato il regno degli dèi, gli immortali che hanno vinto i Titani, gli Olimpi che, rappresentando l’intelletto e la razionalità, hanno dato un nome alle cose, hanno messo ordine e portato una legge di giustizianulla si fa che non ritorni. Hanno vinto la selva, la terra e i suoi mostri, dice Eracle a Litierse, non hanno bisogno di sangue.

Ma cosa, quanto possiamo davvero attribuire agli dèi? È questa un’altra grande domanda che risuona ed echeggia. Per dirla con Tànatos, io mi chiedo fin dove gli Olimpici faranno il destino. E la verità, lo spiega Tiresia a Edipo, la verità è che il loro potere è limitato: posson dare fastidio, accostare o scostare le cose. Non toccarle, non mutarle. Sono venuti troppo tardi. Di conseguenza, come precisa Ermete, devon trafiggere e distruggere e rifare ogni volta che il caos trabocca alla luce, alla loro luce.
Ed eccolo, è qui l’intoppo: il caos trabocca. Trabocca perché la dimensione arcaica persiste, perché molte entità portano i segni di quell’era mostruosa, il ricordo del pantano, dell’informe furore sanguigno
Forse è anche per questo che gli stessi dèi, pur forieri di un mondo ordinato, sono scossi da passioni distruttive; è anche per questo che possono agire per capriccio – o meglio, ancora con Tànatos, ogni loro capriccio è una legge fatale. Per esprimere un fiore distruggono un uomo. Possono essere ingiuriosi, loro che, come rimarca un cacciatore, non han rimorsi, tanto che i boschi sono pieni di uomini e donne da loro toccati – chi divenne cespuglio, chi uccello, chi lupo. La stessa Demetra lo ammette con Dioniso: io non so come, ma quel che ci esce dalle mani è sempre ambiguo.
Nulla si fa che non ritorni evoca la giustizia degli Olimpi, ma, allo stesso tempo, proprio perché nulla si fa che non ritorni, sangue porta sangue. Come rivela Prometeo a Eracle, il sangue dei mostri che l’eroe ha ucciso – quel sangue distruttivo rivivrà in lui e lo porterà a morire. Lo stesso concetto è espresso da Teseo: quel che si uccide si diventa, risponde l’uccisore del Minotauro al compagno che lo rimprovera di crudeltà. Non per niente, in un certo senso, non si uccidono, i mostri, e anche gli dèi Olimpi, ricordiamolo, li hanno soltanto vinti.

Arriviamo così al punto focale: i tre mondi – quello arcaico, quello olimpico e quello umano – in realtà convivono. E c’è una tale fluidità tra Titani e dèi e uomini che forse è tutta una questione di nomi, di idee, di paure. Le cose si mescolano, le cose si ripetono. D’altronde il caos umano-divino è, nell’idea di Pavese, la forma perenne della vita. Fluidità, mutabilità: identità. Che cos’era bestiale se la bestia era in noi come il dio?, si domanda Chirone. Quanto agli dèi, finiranno anche loro, decreta Prometeo, lapidario. E, per chiarire a Eracle, precisa: […] i mostri non muoiono. Quello che muore è la paura che t’incutono. Così è degli dèi. Quando i mortali non ne avranno più paura, gli dèi spariranno.
Torneranno i titani?, gli chiede Eracle.
E Prometeo: Non ritornano i sassi e le selve. Ci sono. Quel che è stato sarà. […] Siamo un nome, non altro. […] E il mondo ha stagioni come i campi e la terra. Ritorna l’inverno, ritorna l’estate. Chi può dire che la selva perisca? O che duri la stessa? Voi sarete i titani, fra poco.
Eracle: Noi mortali?
Prometeo: Voi mortali – o immortali, non conta.
Quello che conta, allora, è da dove arriva il divino. Arriva dai posti che abiti, che vivi; arriva da come cresci, dai valori che fai tuoi. E comunque, come rimarca Teseo, […] quel divino che hai nel sangue non si uccide.

Il sangue. Ecco un’altra costante imprescindibile, dall’epoca del Caos primigenio – quando era misto a fango – al presente sospeso del libro, nel quale è strumento dell’uomo per omaggiare gli dèi, fino al momento in cui, come pronostica Dioniso, gli uomini lo vedranno nel vino cristiano.
Il sangue, quel che vi gonfia le vene e accende gli occhi, dice Diana a Virbio, so che è per voi vita e destino.
Destino – è questa l’altra parola chiave, è questo il cardine della riflessione sull’uomo e sul suo rapporto con la vita: il destino, avversato e detestato da alcuni; il destino, ricercato da altri come imprescindibile parte di sé, del proprio essere umano. Ho bisogno di avere una voce e un destino, dichiara Virbio a Diana, lamentando la condizione di estraneità dal tempo nella quale lei lo ha bloccato – quella felicità adamantina e finta che lo fa sentire un’ombra tra le ombre degli alberi – ed esprimendo nella chiusa finale – chiedo di vivere, non di essere felice – la necessità di una vita normale, magari difficile, ma umana. E se questo riecheggia, in qualche modo, nelle parole di Patroclo – meglio soffrire che non essere esistito – e nel discorso di Saffo, la quale, dopo il suicidio, realizza di preferire sofferenze e inquietudini alla monotonia di una morte che l’ha resa perenne schiuma d’onda, è passando per la sofferenza che Edipo, in uno dei dialoghi più commoventi, esprime la sua particolare visione della vita vera, il suo bisogno disperato di autodeterminarsi, di smarcarsi da quel destino a cui Virbio invece anelava in quanto umano: vorrei essere l’uomo più sozzo e più vile, afferma Edipo, purché quello che ho fatto l’avessi voluto. Non subìto così. Non compiuto volendo far altro.
Vivere, soffrire; accettare un destino o resistergli. Del resto, non è forse il destino la cosa più umana tra tutte? Così lo intende Orfeo: il destino, proclama, è più profondo del sangue, […] nessun dio può toccarlo. È cosa tua. Nell’originale interpretazione di Pavese, Orfeo cerca se stesso – non Euridice, ed è per questo che si volta, scegliendo di lasciarla andare – quando scende nell’Ade, e nel cercare se stesso cerca un destino. E quanto risuona, qui, Virbio! E quanto risuona Saffo, quando alla domanda di Britomarti sul destino risponde non l’accetto. Lo sono.
D’altronde, quello che cerco l’ho nel cuore, dice Odisseo a Calipso.

Accettare un destino o resistergli; soffrire, vivere. Vivere, sì. Perché la vita, la vita umana nella sua fragilità, nel suo costante moto di ricerca di sé, di lotta o armonia col destino, nelle sue passioni e in tutte le sue incertezze, possiede un’unicità che la rende più affascinante – e più vera, soprattutto – rispetto all’esistenza immobile nel tempo caratteristica degli dèi.

Sarà per questo che le divinità sono attratte dagli uomini? Che Artemide si innamora di Endimione e Bacco di Ariadne? Ancora, sarà per questo che i dialoghi dove un dio approccia un essere umano regalano le immagini più delicate? Come quella di Artemide, che nel toccare Endimione sui capelli, quasi esitando, viene colta da un sorriso incredibile, mortale, o come quando Dioniso, un dio per cui sorridere è come il respiro, sul punto di venire in soccorso di Ariadne è accostato da Leucotea a un paesaggio, un vigneto in costa a un colle lungo il mare, nell’ora lenta che la terra dà il suo odore, e poi a un profumo rasposo e tenace, tra di fico e di pino, e all’aria che pesa di mosto, e al frutto e fiore del melograno, e al fresco dell’edera, e ai pineti, e alle aie.
Ancora, c’è l’effetto che Odisseo fa a Circe, effetto che la maga stessa ci racconta in uno dei dialoghi più belli in assoluto, uno di quelli in cui guardiamo all’uomo con gli occhi di chi uomo non è, e in cui, per questo, emergono prospettive straordinarie di quella caducità che lo rende unico e inimitabile: la loro vita è così breve che non possono accettare di far cose già fatte o sapute, riflette Circe prima di mettere in luce quella facoltà – e insieme valore – che appartiene all’uomo e all’uomo soltanto, la memoria. E in questo dialogo, che sublima il potere del ricordo esaltandone la connessione con la dimensione affettiva, l’uomo risplende di possibilità estranee agli dèi – perché per lui il ricordo ha un significato, e perché è questo e solo questo a renderlo immortale, il ricordo che porta e il ricordo che lascia. Una volta – racconta Circe a Leucotea, parlando di Odisseo – credetti di avergli spiegato perché la bestia è più vicina a noialtri immortali che non l’uomo intelligente e coraggioso. La bestia che mangia, che monta, e non ha memoria. Lui mi rispose che in patria lo attendeva un cane, un povero cane che forse era morto, e mi disse il suo nome. Sì, l’uomo dà un nome agli animali. L’uomo ama, e ricorda i suoi affetti. E quest’uomo amava un cane, una donna, suo figlio, e una nave per correre il mare. E con quella sua nave arricchiva la terra di parole e di fatti, incurante del destino che per questo, in qualche modo, riusciva a raggirare.
Sì, perché se è vero che agli uomini accadono cose inesorabili, è anche vero che queste cose sono fatte di assurdo, di attimi inattesi, irripetibili, sorprendenti, come – racconta ancora Circe – quel gioco degli scacchi che Odisseo m’insegnò, tutto regole e norme ma così bello e imprevisto, coi suoi pezzi d’avorio. Lui mi diceva sempre che quel gioco è la vita.

E così gli uomini vivono davvero, a dispetto del destino, e chi soccombe sono in realtà gli dèi, chiusi in un eterno presente – gli dèi che non esistono, ma semplicemente, come precisa Tànatos, sono, in un mondo che passa.

Senza di loro – senza gli uomini – mi chiedo che cosa sarebbero i giorni, riflette Dioniso con Demetra; tutto quello che toccano diventa tempo […] azione […] attesa e speranza, risponde lei poco dopo: ci troviamo nell’ultima parte del libro, pagine meravigliose che condensano e illuminano quanto di più buono ci sia nell’uomo – l’uomo, un essere creativo, coraggioso, fantasioso, capace di adattarsi e industriarsi, di nutrirsi di speranze e promesse e progetti – in una prospettiva di fiducia sul mondo, ma soprattutto in una celebrazione commovente della vita di noi tutti.
È quello che traspira, ad esempio, dalle parole di Cratos e Bia, di Dioniso e Demetra, di Satiro e Amadriade.
Perché Zeus e tutti gli altri dèi sono così attratti dall’uomo? La risposta è che il mondo, se pure non è più divino, proprio per questo è sempre nuovo e sempre ricco. Che questi umani sono poveri vermi, ma tutto fra loro è imprevisto e scoperta. Che sulle colline han saputo piantare vigneti, facendo dolci paesi di brutti pendii sassosi, e così hanno fatto del grano, così dei giardini, spendendo fatiche e parole e creando un ritmo, un senso, un riposo. Sono preziosi nelle labilità, straordinari nelle debolezze – preziosi e straordinari, soprattutto, per quegli istanti imprevisti, unici, che danno un senso vero alla vita. Per questo nella loro miseria hanno tanta ricchezza. Per questo, soltanto vivendo con loro e per loro si gusta il sapore del mondo.
Senza di loro mi chiedo […] che cosa saremmo noi Olimpici, dice ancora Dioniso. Ci chiamano con le loro vocette, e ci dànno dei nomi. E proprio la riflessione sul valore del nome torna più volte in queste ultime pagine: hanno un modo di nominare se stessi e le cose e noialtri che arricchisce la vita […] sanno darci dei nomi che ci rivelano a noi stessi […] e ci strappano alla greve eternità del destino per colorirci nei giorni e nei paesi dove siamo. È una capacità che afferisce, più in generale, a quella della parola – e la parola dell’uomo, che sa di patire e si affanna e possiede la terra, rivela a chi l’ascolta meraviglie.


E che dire delle storie che sanno raccontare?

Proprio su questo si chiude l’opera. Nel penultimo dialogo, non a caso quello tra Mnemosine e il poeta Esiodo, si riprende il tema della memoria, declinata stavolta nel suo potere di filtrare le immagini e addolcire le asperità e accostata, appunto, alla capacità dell’uomo di comunicare, di esprimersi, di portare la parola al mondo: è così che nasce la dimensione artistica, potere supremo dell’essere umano. Non per niente Esiodo incontra Mnemòsine – la memoria, madre delle Muse e quindi della conoscenza (mi par di sapere qualcosa soltanto con te, le dice) e di tutte le arti – su un monte: è il monte Elicona, sede delle Muse per i Greci, che situavano nei luoghi elevati le feste della fantasia e della memoria, assegnando al pensiero e all’arte una posizione di preminenza sul mondo.

E su un monte è ambientato anche l’ultimo dialogo – su un monte brullo percorso, stavolta nella nostra epoca, da due interlocutori che discutono di mitologia. Perché, sì, quelle alture brulle sono così pregnanti di un passato mitico che basta un nonnulla, e la campagna ritorna la stessa di quando queste cose accadevano. Sono le alture dove i Greci hanno cercato, veduto, narrato quel patrimonio immenso di storie sull’umanità, lo spettacolo del mondo e dei moti del nostro animo – i Greci che sapevano troppe cose, che con un semplice nome raccontavano la nuvola, il bosco, i destini. È, ancora una volta, il potere di un nome che si carica di sostanze di significati: è il semplice, splendente potere della parola, che rivelando un midollo di realtà sorprende e scuote e fa tremare. E la parola è capace, lei e solo lei, di eternare questi luoghi donando loro nomi per sempre, laddove non rimane che l’erba sotto il cielo, eppure l’alito del vento dà nel ricordo più fragore di una bufera dentro il bosco. Per chi ci crede. Per chi crede in ciò che ogni uomo ha sperato e patito.
Non smetterò mai di leggere questi Dialoghi.

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Che libro immenso L’isola di Arturo

La mia edizione de L'isola di Arturo. 
Foto scattata nella primavera 2023.
La mia edizione de L’isola di Arturo.
Foto scattata nella primavera 2023.

L’infanzia e l’adolescenza di un ragazzo nato e cresciuto a Procida: i sogni, la solitudine, la scoperta dei sentimenti, le illusioni e le disillusioni.
E poi la forza e la magia del linguaggio che racconta tutto questo.
E poi l’immaginazione, perché per me L’isola di Arturo è stato prima di tutto e soprattutto un romanzo sul potere immenso dell’immaginazione umana.

Potere immenso. Romanzo immenso. Lettura immensa.


“Certe sere, dopo cena, attirato dalla frescura di fuori, mi stendevo sullo scalino della soglia, o sul terreno dello spiazzo. La notte, che un’ora prima, giù in piano, m’era apparsa così proterva, qua, a un passo dalla porta-finestra illuminata, mi ridiventava familiare. Adesso il firmamento, a guardarlo, mi diventava un grande oceano, sparso d’innumerevoli isole, e, fra le stelle, ricercavo aguzzando lo sguardo quelle di cui conoscevo i nomi: Arturo, prima di tutte le altre, e poi le Orse, Marte, le Pleiadi, Castore e Polluce, Cassiopea… Avevo sempre rimpianto che, ai tempi moderni, non ci fosse più sulla terra qualche limite vietato, come per gli antichi le Colonne d’Ercole, perché mi sarebbe piaciuto di oltrepassarlo io per primo, sfidando il divieto con la mia audacia; e allo stesso modo, adesso, guardando lo stellato, invidiavo i futuri pionieri che potranno arrivare fino agli astri. Era umiliante vedere il cielo e pensare: là ci sono tanti altri paesaggi, altre iridi di colori, forse tanti altri mari di chi sa quali colori, altre foreste più grandi che ai Tropici, altre forme di animali ferocissime e allegre, più amorose ancora di queste che vediamo… altri esseri femminili stupendi che dormono… altri eroi bellissimi… altri fedeli… e io non posso arrivare là! Allora, i miei occhi e i miei pensieri lasciavano il cielo con dispetto, riandando a posarsi sul mare, il quale, appena io lo riguardavo, palpitava verso di me, come un innamorato. Là disteso, nero e pieno di lusinghe, esso mi ripeteva che anche lui, non meno dello stellato, era grande e fantastico, e possedeva territori che non si potevano contare, diversi uno dall’altro, come centomila pianeti! Presto, ormai, per me, incomincerebbe finalmente l’età desiderata in cui non sarei più un ragazzino, ma un uomo; e lui, il mare, simile a un compagno che finora aveva sempre giocato assieme a me e s’era fatto grande assieme a me, mi porterebbe via con lui a conoscere gli oceani, e tutte le altre terre, e tutta la vita!”  (p. 180 Ed. Einaudi)

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De L’isola di Arturo ho parlato anche qui. 😉

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Canne al vento e il palpito del sentimento umano in una scrittura dalla forza ancestrale

La mia edizione di Canne al vento.
Foto scattata nella primavera 2023.
La mia edizione di Canne al vento.
Foto scattata nella primavera 2023.

Misteri di silenzi lunari, di folletti e fantasmi notturni che soffiano nel vento, di canne che mormorano, di erba che pare ondulare seguendo il motivo di una fisarmonica.
Misteri che in un mondo caldo e disfatto – in un mondo laconico, pieno di solitudine e d’oblio – sembrano incorniciare gli occhi nostalgici di personaggi vividi, intensi e desolati, inseriti in una calma morsa di miseria e rimpianto, di colpe e pentimenti, di orgoglio, di vergogna e di pietà.
È un mondo dove profumi evocano ricordi, come succede a Noemi in primavera, quando una “malattia di languore”, “il male del ricordo”, sembra riportare i suoi occhi “liquidi e freddi come un’acqua profonda” su un remoto belvedere, davanti a quella “festa della vita” a cui non riesce a unirsi e di cui tuttavia rimane in lei un sogno latente, insieme a una sete d’amore che le fa sentire dentro “tutto il grigio e tutto il rosso” e al contempo un “violento bisogno di solitudine”.
È un mondo dove un poderetto può essere un rifugio ma anche una prova di espiazione, come nel caso di Efix, che guarda alla sua collina con “tenerezza d’amante” – Efix, che ha sempre vissuto “sull’orlo d’una strada metà percorsa metà da percorrere”; Efix, che si porta dietro segreti che pesano come macigni.
È un mondo in cui nella ritualità e nel sentimento religioso è spesso labile il confine tra un personaggio e un popolo intero, anche attraverso suggestioni misteriose in mano al potere della natura. Succede, ad esempio, durante i canti in chiesa, quando l’estasi dolorosa di Efix è accostata alla luce rossa del tramonto che come un velo di sangue copre la folla, mentre migliaia di voci salgono in una sola, fondendosi come il profumo dei cespugli; succede, ancora, quando nel riso e nel pianto di singoli personaggi “il riso e il pianto di tutto il mondo” sembra unificarsi tremando e vibrando nelle note di un usignolo; e succede, ancora, quando le preghiere di dolore e speranza si perdono nel lamento remoto della natura o vibrano “lontano, al di là del tempo”.
E la speranza non manca mai, come l’attesa di “un essere misterioso, salvatore e vendicatore assieme”, attesa che riecheggia in quella figura del Redentore che ferma il suo volo sulla roccia più alta e che con la sua croce sembra unire il cielo azzurro alla terra grigia. Non manca mai, neanche, la fiducia nella “forza sovrannaturale” che spinge la mano dell’uomo, fiducia tangibile, ad esempio, nel significato che Efix attribuisce all’improvviso deviare di un raggio di sole sul suo volto. Eriguarda proprio Efix, peraltro, una delle immagini più belle di speranza, la potente e toccante similitudine per la quale “le sue stesse lagrime lo illuminavano, gli splendevano intorno come stelle”.
Alla speranza, infine, partecipa spesso anche la natura, facendosi soave laddove prima era stata cupa, e colpendoci ed emozionandoci per la sua plurivalenza, per la sua capacità di riflettere l’ampio ventaglio di stati d’animo dei personaggi. E allora il mondo può essere agitato “da una convulsione di tristezza e di terrore” oppure, mentre “una grande luna di rame sorge dal mare”, può sembrare “d’oro e di perla”, o ancora ammucchiare “a cataste sull’orizzonte tutto l’argento delle miniere del mondo”. E allora i monti possono assomigliare a vulcani e incombere “con forme fantastiche di muraglie, di castelli, di tombe ciclopiche”, oppure possono apparire come “i petali di un immenso fiore aperto al mattino”, sembrare “fatti di marmo e d’aria”. E, ancora, le nuvole possono somigliare a “torrenti di lava, colonne di fumo”, ma essere anche “bianche e tenere come veli di donna”, mentre la luna può “splendere azzurrognola sul rudero della torre come una fiamma su un candelabro nero”, ma può anche “sbocciare come una grande rosa fra i cespugli della collina”. E, infine, il fiume può avere un mormorio “monotono come quello di un bambino che s’addormenta”, oppure “palpitare come il sangue della valle addormentata”, facendosi portavoce di quel palpito del sentimento umano che risuona così bene in questa scrittura dalla forza ancestrale, in questo pathos che ci fa tremare e immaginare e che riecheggia in noi come il suono di quelle canne che sembrano sospirare, parlare e lottare spinte dal vento. 

***

Ho trascritto qui sotto una serie di passi che mi hanno colpito particolarmente e che credo risultino rappresentativi della bellezza, della forza e del pathos della scrittura di Grazia Deledda.
Ho raccolto i passi sotto alcune parole chiave; le pagine si riferiscono all’edizione di Canne al vento BUR Rizzoli 2008.

Natura, paesaggi, atmosfere

“E Dio prometteva una buona annata, o per lo meno faceva ricoprir di fiori tutti i mandorli e i peschi della valle; e questa, fra due file di colline bianche, con lontananze cerule di monti ad occidente e di mare ad oriente, coperta di vegetazione primaverile, d’acque, di macchie, di fiori, dava l’idea di una culla gonfia di veli verdi, di nastri azzurri, col mormorio del fiume monotono come quello di un bambino che s’addormenta.” (p. 27)

“A quell’ora, mentre la luna sbocciava come una grande rosa fra i cespugli della collina e le euforbie odoravano lungo il fiume, anche le padrone di Efix pregavano […]” (p. 28)

“[…] giunchi argentei lucenti alla luna come fili d’acqua.” (p. 28)

“Fra una canna e l’altra sopra la collina le nuvole di maggio passavano bianche e tenere come veli di donna; egli guardava il cielo d’un azzurro struggente e gli pareva d’esser coricato su un bel letto dalle coltri di seta.” (p. 73)

“Di là vedeva l’erba alta ondulare quasi seguendo il motivo monotono della fisarmonica, e i cavalli immobili al sole come dipinti sullo smalto azzurro dell’orizzonte.” (p. 86)

“Qualche figura di pescatore si disegnava immobile come dipinta in doppio sul verde della riva e sul verde dell’acqua stagnante fra i ciottoli bianchi.” (p. 101)

“[…] l’aurora pareva sorgere dalla valle come un fumo rosso inondando le cime fantastiche dell’orizzonte. Monti Corrasi, monte Uddé, Bella Vista, Sa Bardia, Santo Juanne, monte Nou sorgevano dalla conca luminosa come i petali di un immenso fiore aperto al mattino; e il cielo stesso pareva curvarsi pallido e commosso su tanta bellezza.” (pp. 128-129)

“Il villaggio bianco sotto i monti azzurri e chiari come fatti di marmo e d’aria, ardeva come una cava di calce […]” (p. 130)

“[…] e le rondini passavano incessantemente in giro, sopra le loro teste, come una ghirlanda mobile di fiori neri, di piccole croci nere.” (p. 152)

“[…] il vento infuriava sempre più e le nuvole salivano e scendevano dall’Orthobene, giù e su come torrenti di lava, come colonne di fumo, spandendosi su tutta la valle: ma sopra le alture di Nuoro una striscia di cielo rimaneva di un azzurro triste di lapislazzuli e la luna nuova tramontava rosea fra due rupi.” (p. 167)

“[…] nella sera nuvolosa, i monti del Gennargentu incombevano con forme fantastiche di muraglie, di castelli, di tombe ciclopiche, di città argentee, di boschi azzurri coperti di nebbia […]” (p. 176)

“Il vento passava impetuoso, ma sul tardi il sole apparve fra le nubi squarciandole e respingendole fino all’orizzonte, e tutto brillò attorno ai monti e alle valli ove la nebbia si raccolse in laghi argentei luminosi.” (p 182).

“[…] le montagne davanti e in fondo alla valle parevano vulcani; nuvole di fumo solcate da pallide fiamme e poi getti di lava azzurrognola e colonne di fuoco salivano laggiù.
Verso sera il cielo si schiariva, tutto l’argento delle miniere del mondo s’ammucchiava a blocchi, a cataste sull’orizzonte […]” (p. 203)

“Nel silenzio il torrente palpitava come il sangue della valle addormentata.” (p. 204)

Suggestioni

“La luna saliva davanti a lui, e le voci della sera avvertivano l’uomo che la sua giornata era finita. Era il grido cadenzato del cuculo, il zirlio dei grilli precoci, qualche gemito d’uccello; era il sospiro delle canne e la voce sempre più chiara del fiume: ma era soprattutto un soffio, un ansito misterioso che pareva uscire dalla terra stessa: si, la giornata dell’uomo lavoratore era finita, ma cominciava la vita fantastica dei folletti, delle fate, degli spiriti erranti. I fantasmi degli antichi Baroni scendevano dalle rovine del castello sopra il paese di Galte, su, all’orizzonte a sinistra di Efix, e percorrevano le sponde del fiume alla caccia dei cinghiali e delle volpi: le loro armi scintillavano in mezzo ai bassi ontani della riva, e l’abbaiar fioco dei cani in lontananza indicava il loro passaggio.” (pp. 28-29)

“[…] e tutto il paesaggio che pochi momenti prima pareva si fosse addormentato fra il mormorio di preghiera delle voci notturne, fu pieno di echi e di fremiti quasi si svegliasse di soprassalto.” (p. 30)

“L’euforbia odorava intorno, la luna azzurrognola splendeva sul rudero della torre come una fiamma su un candelabro nero, e pareva che in quell’angolo di mondo morto non dovesse più spuntare il giorno.” (p. 113)

“Sulla lucerna nera la fiammella azzurrognola immobile pareva la luna sul rudero della torre.” (p. 115)

“Dal buco del tetto pioveva come da un imbuto capovolto un raggio dorato […] Efix guardava come dal fondo di un pozzo quel punto alto lontano; ma d’improvviso gli parve che il raggio deviasse, piovesse su di lui, illuminandolo.” (p. 157)

“[…] e il Redentore ferma il volo sulla roccia più alta, con la croce che sbatte le sue braccia nere sul pallore dorato del cielo.
Ed Efix s’inginocchia ma non prega, non può pregare, ha dimenticato le parole; ma i suoi occhi, le mani tremanti, tutto il suo corpo agitato dalla febbre è una preghiera.” (p. 158)

“E l’ombra si addensava rapida; ogni nuvola passando sul vicino orizzonte lasciava un velo, il vento urlava dietro la chiesa, tutte le macchie tremavano protendendosi in là verso la valle, e pareva volessero fuggire, luminose d’un verde metallico, agitate da una convulsione di tristezza e di terrore.” (p. 166)

“[…] il riso e il pianto di Grixenda, il riso e il pianto di Noemi, il riso e il pianto di lui, Efix, il riso e il pianto di tutto il mondo, tremavano e vibravano nelle note dell’usignuolo sopra l’albero solitario che pareva più alto dei monti, con la cima rasente al cielo e la punta dell’ultima foglia ficcata dentro una stella.” (p. 174)

Odori e ricordi

“Quel giorno Noemi aveva come il male del ricordo: la lontananza delle sorelle e un’istintiva paura della solitudine la riconducevano al passato. Lo stesso chiarore aranciato del crepuscolo, il Monte coperto di veli violetti, l’odore della sera, tutto le ridestava l’anima di vent’anni prima.” (p. 58)

“Si sentiva l’odore degli ontani e del puleggio; tutto era caduto in un silenzio tremulo come dentro un’acqua corrente. Ed Efix ricordava le sere lontane, il ballo, i canti notturni, donna Lia seduta sulla pietra all’angolo del cortile, piegata su se stessa come una giovine prigioniera che rode i lacci e piano piano si prepara alla fuga.” (p. 76)

Noemi

“Tutti gli anni la primavera le dava questo senso di inquietudine: i sogni della vita rifiorivano in lei […] Le par d’essere ancora fanciulla, arrampicata sul belvedere del prete, in una sera di maggio. Una grande luna di rame sorge dal mare, e tutto il mondo pare d’oro e di perla. […] No, ella non ballava, non rideva, ma le bastava veder la gente a divertirsi perché sperava di poter anche lei prender parte alla festa della vita. […] (pp. 54-55)

“Allora Noemi si mise a ridere, ma sentì le ginocchia tremarle e sentì nel cuore la bellezza luminosa del tramonto: era un mare di luce sparso d’isole d’oro, con un miraggio in fondo. Ella non aveva mai provato un attimo di ebbrezza simile.” (p. 119)

“E come i bambini ed i vecchi si mise a piangere senza sapere il perché – di dolore ch’era gioia, di gioia ch’era dolore.” (p. 121)

“[…] e Noemi sentiva anche lei, fin là dentro, fin contro la grata che esalava un odor di ruggine e di alito umano, un tremito di vita, un desiderio di morte, un’angoscia di passione, uno struggimento di umiliazione, tutti gli affanni, i rimpianti, il rancore e l’ansito della peccatrice d’amore.” (p. 146)

Canne al vento

“[…] star vigili come le canne sopra il ciglione che ad ogni soffio di vento si battono l’una contro l’altra le foglie come per avvertirsi del pericolo.” (p. 28)

“Fuori le canne del ciglione frusciavano con tale violenza che pareva combattessero una battaglia.
All’alba, uscendo dalla capanna Efix infatti ne vide centinaia pendere spezzate, con le lunghe foglie sparse per terra come spade rotte. E le superstiti, un poco sfrondate anch’esse, pareva si curvassero a guardare le compagne morte, accarezzandole con le loro foglie ferite.” (pp. 189-190)

“Perché la sorte ci stronca così, come canne?”
“Sì, egli disse allora, siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne, e la sorte è il vento.” (p. 199)

Espiazione

“Sentiva ancora le monete dei giovani nuoresi percuotergli il petto e trasaliva tutto come lo lapidassero; ma era un brivido di gioia, era la voluttà del martirio.” (p. 174)

Sentimento religioso, colpa, preghiera, speranza

“Anche la preghiera aveva una risonanza lenta e monotona che pareva vibrasse lontano, al di là del tempo […]” (p. 45)

“[…] migliaia di voci salirono in una sola, fondendosi come fuori si fondevano i profumi dei cespugli; Efix inginocchiato in un angolo, provava la solita estasi dolorosa […] La luce rossa del crepuscolo, vinta verso l’altare dal chiaror dei ceri, copriva la folla come di un velo di sangue […]” (pp. 86-87)

“[…] e anche adesso gli pareva che tutto il sangue gli uscisse dagli occhi; tutto il sangue cattivo, il sangue del peccato. Il suo corpo ne rimaneva esausto, e l’anima vi si sbatteva dentro, in uno spazio vuoto e nero come la notte; ma le parole d’amore di Giacinto balenavano lucenti sullo sfondo tenebroso, e le sue stesse lagrime lo illuminavano, gli spendevano intorno come stelle.” (pp. 163-164)

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