Era da tanto che un romanzo non mi metteva così in difficoltà: nella lettura alternavo picchi di estrema ammirazione per Franzen – il modo in cui i personaggi si muovono all’interno di dinamiche familiari, condizionandole ed essendone condizionati, è raccontato superbamente – ad altri di noia assoluta mista a frustrazione davanti a una storia che per la gran parte non riusciva a coinvolgermi né a emozionarmi, pur avendone tutti i presupposti.
A smorzare il mio interesse è stato probabilmente lo stile, che ho trovato verboso e pretenzioso sia nel suo generale manierismo, sia nella sovrabbondanza di nomi di aziende, società e marche (anche di oggetti di uso quotidiano), cosa che mi costringeva a fermarmi di continuo per ricorrere a internet (lo stesso problema si è presentato, anche se in modo diverso, nelle parti con tecnicismi finanziari e della chimica). L’ho poi trovato dispersivo negli eventi (troppe cose inutili), ed esagerato e grottesco – rispetto all’intento, s’intende – in alcuni sviluppi e situazioni (per dirne una, c’era davvero bisogno della parte su Chip e la Lituania?), senza contare l’incapacità dei personaggi di suscitare il mio interesse o di trasmettermi alcunché.
Insomma, la potenza dell’idea di fondo per me si è persa in tutto questo, e quella che poteva essere una lettura grandiosa mi ha lasciato solo un senso di fastidio, di antipatia e di rifiuto.