Dalle terre rosse e grigie dell’Oklahoma a quelle verdi e dorate della California: oggi è un viaggio suggestivo lungo l’Historic Route 66, ma per migliaia di persone di un tempo fu un’odissea pietosa e terribile in cerca di una vita migliore.
Ce lo racconta magistralmente John Steinbeck nel suo Furore, romanzo straordinario che attraverso le vicende di una famiglia di migranti delinea un ritratto sincero e terribile dell’America degli anni Trenta (e, purtroppo, di dinamiche umano-sociali costanti in ogni epoca e luogo).
La crisi agricola e poi economico-sociale che sconvolge gli Stati Uniti centrali – il grano rovinato da vento e aridità, i danni inflitti dalla polvere (la nota dust bowl), l’arrivo dei trattori, lo sfratto da parte delle banche – costringe i Joad, come tante altre famiglie, al tragico abbandono della propria casa in Oklahoma e al dramma di un viaggio difficilissimo, in condizioni terribili, attraverso il Texas, il New Mexico e l’Arizona, lungo il deserto e la Route 66, nella speranza di una vita migliore in California. Ma il procedere sempre più arduo, mentre parti della famiglia vengono dolorosamente a perdersi, assottiglia e a poco a poco sgretola queste speranze, che per molti iniziano a trasformarsi in rabbia proprio con l’arrivo nel Golden State. La terra promessa, infatti, si rivela un luogo impietoso, dove i migranti sono costretti a una vita raminga da lavoratori stagionali, sottopagati e privi di qualunque diritto – perché, come è sempre più chiaro, le logiche di mercato sovrastano i principi inderogabili della dignità umana.
Pagine tra le più maestose, dolorose e indimenticabili quelle del capitolo 19. I californiani, migranti a loro volta tanto tempo prima, sono ora proprietari, nativi a contatto con migranti nuovi che vedono come invasori, e che giudicano, e che rifiutano: e li rifiutano perché li temono, e li disprezzano perché li rifiutano. I migranti sono spaesati, interdetti, spaventati: in nome di una giustizia che non trovano, possono diventare violenti; per lo sconforto e la necessità possono compiere atti disperati. Magistralmente Steinbeck rappresenta e spiega queste situazioni e i meccanismi che le creano: è un pugno nello stomaco, e restiamo sconvolti per la dolorosa attualità del racconto, per la terribile verità universale che ci costringe a riconoscere.
Nei migranti resiste la dignità morale – una morale semplice ma salda, fondata sui principi di solidarietà e carità umana (che, come è sempre più chiaro, rappresentano l’unica e autentica origine della giustizia sociale, dalla quale invece le logiche economiche dominanti – e spesso anche la legge costituita – si rivelano ben lontane). Ci sono poi quella speranza, quella volontà, quella rabbia che presto diventano furore. E non è importante se e quando e come questo furore esploderà: è importante, invece, il modo in cui esso si crea, il modo in cui sostiene l’uomo; il modo in cui, insomma, the grapes of wrath – “gli acini dell’ira” – sono pronti per la vendemmia.
Cos’è, dunque, Furore? Cos’è il furore?
Il furore è volontà. È lotta sociale contro l’ingiustizia. È, prima ancora, lotta dell’uomo per affermarsi. È, prima di tutto e soprattutto, lotta dell’uomo per sopravvivere. Ed è lotta dell’uomo con e contro la natura.
Perché, sì, in Furore la natura c’è. Onnipresente, incessante, implacabile. Lirica, quasi magica.
Steinbeck ce la racconta in due modi.
Da una parte è la natura come forza inarrestabile, incontrollabile, che è vento ed è sole, sole e calore soprattutto, e poi è acqua – perché Furore si apre con la pioggia e si chiude con la pioggia. All’inizio è una pioggia sottile e lieve – le ultime piogge, presto sostituite da una siccità spietata e da un vento accanito, e da una polvere che tutto distrugge. Alla fine è una pioggia violenta, che inonda e travolge, che sconvolge campi e fiumi e alberi, che costringe l’uomo a combattere, a tirar fuori il furore perché anch’essa è furore, ma che poi, cessando, lascia il posto alla rinascita della vita.
In altri momenti, soprattutto nella prima parte del romanzo e durante il viaggio nel deserto, abbiamo di fronte un altro tipo di natura, placida ma totalizzante, allucinante, mozzafiato. È il potere immaginifico di poche, semplici parole incastrate nel modo giusto. Davanti ai nostri occhi c’è un pallido quarto di luna, esile e vago in un cielo che sbiadisce; c’è una lenta cascata di stelle che scende sull’orizzonte; c’è la lunga nube della Via Lattea; c’è la luce solitaria dell’alba. Ma, soprattutto, scorrono davanti a noi le descrizioni dei grandi tramonti: quando il sole rosso, ad esempio, tocca l’orizzonte e si allarga come una medusa, mentre il cielo sembra più luminoso e vibrante di prima; o, ancora, quando una grossa goccia di sole rosso indugia sull’orizzonte, prima di cadere e scomparire lasciando il posto a una nuvola lacera, simile a uno straccio insanguinato. Ci sono poi le descrizioni-narrazioni del grande caldo del deserto, aguzzo e battente di giorno, ma ampio e soffocante di notte, quando sembra venire dal basso, dalla terra stessa; vediamo avvampare il deserto quando l’orlo del sole tocca l’orizzonte frastagliato, e c’è un momento in cui il paesaggio è terribile nella luce paonazza del tramonto. Immagini potenti come questa sembrano accentuare la tragedia umana delle migrazioni: è simbolismo semplice e acuto, e pare legare in un rapporto imprescindibile uomo e natura – lei, la natura, crea e partecipa del dramma umano; lei sfida e al tempo stesso accompagna l’uomo.
E non è un caso che l’inserto conclusivo sulla natura sembri congiungersi all’epilogo delle vicende dei Joad: quell’erba che rinasce dopo le piogge distruttive, verde e tenera, pare legarsi al coraggio indissolubile di Ma’, personaggio cardine del romanzo, e al gesto di compassione e di rinascita compiuto da Rose of Sharon: è quella speranza che fin dall’inizio segue e accompagna, e che nonostante tutto splende coraggiosa – più che mai in questa nota finale.
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Davvero interessantissimo, complimenti!
Che piacere il tuo commento! Grazie mille!
Un commento strepitoso a uno dei Capolavori indiscussi della Letteratura di ogni tempo!
Ti ringrazio tanto. Davvero felice che tu abbia apprezzato!