La stanza ovale

La stanza ovale, in fondo al corridoio, rimanda come imbottigliati i passi e i commenti degli ultimi visitatori, voci che mi scorrono addosso mentre cammino rasente al muro. Mi aspetta in fondo, lei, proprio lei, la stanza ovale, che ospita da sempre le opere più rilevanti.
Ma devo affrontarla vuota.
Mi fermo. Aspetto che le voci mi vengano incontro, prima ingarbugliate, poi distinte, poi di nuovo ingarbugliate finché si dileguano. Ecco. Adesso la stanza mi manda un’eco vuota, un vuoto silenzio di aspettativa – un vuoto, solenne richiamo.
Mi riscuoto. Percorro il resto del corridoio, prima lento, poi più sicuro. Varco la soglia senza esitare.
La stanza ovale. La conosco così bene.
Dieci anni e nulla è cambiato. Neanche le sensazioni.
Ne raggiungo il centro, tasto la panca e mi ci siedo.
Non alzo la testa verso la tela di fronte. Non ce la faccio.
Invece aspetto, il ticchettio dell’orologio che ho al polso più forte del mio respiro.
Passano due, tre, sette minuti. Altri tre, sei, otto minuti. Altri due, tre, sei minuti e al ticchettio si intersecano passi lungo il corridoio. È un rumore di tacchi, lento ma sicuro, così cadenzato da alternarsi perfetto alle lancette: un passo e una lancetta, un passo e una lancetta, tactic, tactic, il tac sempre più forte, il tic sempre uguale, il tac sempre più forte, il tic che sembra aumentare d’intensità, finché il ritmo dei passi cambia e tac e tic si sovrappongono e io non sono più in grado di sentire la lancetta.
Poi lei si ferma sulla soglia. Nella quiete che piomba improvvisa, quel lieve tic torna più forte che mai. E mi accorgo che è il mio cuore, adesso, a battere all’unisono con l’orologio. Il mio cuore, cassa di risonanza della stanza ovale.
Un minuto lunghissimo, poi i tacchi si muovono. Mi raggiunge e si siede accanto a me, cauta.
Non mi giro. Una scossa di emozione mi immobilizza.
Nella tensione che emana il suo corpo, la sento deglutire.
«Il dipinto è stupendo», dice. La voce le trema.
Un brusco tintinnio di bracciali mi segnala un gesto nervoso, involontario, della sua mano. La tiene in basso. Sento la mia poggiarsi sul suo palmo e le mie dita scendere piano, una a una, su ognuna delle sue, aggrappate al bordo della panca.
Perché solo adesso ho trovato il coraggio di rincontrarla?
Le sue dita sono ancora le stesse, anche se adesso ha unghie lunghe e arrotondate che percorro, una a una, coi miei polpastrelli. Nel tremito lieve che la scuote, mi sfiora involontariamente con una gamba. Non resisto: faccio scorrere l’indice lungo il suo braccio, dal polso al collo. Porta una giacca di cashmere su una camicia di seta. Sfioro un orecchino pendente e incontro un ciuffo di capelli. Sorrido: ha ancora quel crespo di dieci anni fa, quando giravamo per gallerie d’arte mano nella mano, lei tutta unghie rosicchiate e pullover stinti, io con gli occhi pieni di immagini.
Finalmente ho il coraggio di alzare il viso verso la tela di fronte a me. La mia tela.
Sono un pittore, ce l’ho fatta davvero.
Sono un pittore, e sono cieco.

Quarto posto al Concorso Letterario Nazionale
“Dentro l’amore” (Domodossola 2023, VII edizione)

* Lo spunto per questo racconto è stato un esercizio del gruppo Resina intitolato Cecità: con l’obiettivo di lavorare sugli stimoli sensoriali, bisognava scegliere fra tre ambienti (cucina di un ristorante, barchetta in mezzo al mare e galleria d’arte), collocarci dentro un personaggio cieco e raccontare un momento della sua giornata. La consegna prevedeva anche quattro restrizioni: il punto di vista doveva essere interno al personaggio; doveva essere presente almeno una sequenza descrittiva; si poteva utilizzare solo una combinazione di due sensi, al di fuori, ovviamente, di quello della vista; non si dovevano superare le 3000 battute, spazi inclusi.

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