Orbital di Samantha Harvey ci ricorda che la Terra è la risposta a tutte le domande

La mia edizione di Orbital.
Foto scattata nel settembre 2025.
La mia edizione di Orbital.
Foto scattata nel settembre 2025.

Orbital non è una lettura semplice. Scivolare in silenzio attraverso i fusi orari sulla stazione spaziale mentre scivoliamo attraverso sei sguardi – quelli di quattro astronauti e di due cosmonauti – richiede una dose di concentrazione non indifferente, perché si lega alla disponibilità a dedicare al libro un tempo assoluto, totale, che consenta un’immersione completa.
Non perché Orbital contenga particolari riflessioni o innovazioni concettuali, ma per il cambio di prospettiva in cui ci proietta; perché, se si riesce a entrare nel libro, la sensazione è davvero quella di orbitare sedici volte attorno alla Terra nel giro di ventiquattro ore. E il punto – la cosa che ci assorbe, ci fagocita e ci sconvolge – è proprio questo: non il fatto di avere tra le mani qualcosa di nuovo o di diverso, ma il fatto di avere quello che sappiamo – semplicemente tutto quello che sappiamo – condensato lì, davanti a noi.

Non per niente, i pensieri che si hanno in orbita sono così grandiosi e così vecchi. E sono anche meno numerosi e più nitidi, come campane lontane che suonano una alla volta nella testa.
E d’altronde, come potrebbe essere altrimenti? Sei qui che giri attorno alla Terra, giri e rigiri, sedici volte in ventiquattro ore, giri mentre lo spazio fa a pezzi il tempo, mentre la tua idea di casa implode, mentre sei diviso tra il non voler essere qui e il volerci essere sempre – qui, a un passo dallo spazio che ti ha lasciato avvicinare al pulsare tremante del suo selvatico esotismo; qui, tra la Luna, la cui vista dalla stazione spaziale è tutto, e le stelle che spuntano come bucaneve; qui, soprattutto, di fronte alla tua Terra, quella Terra che appare fluida, morbida, quella Terra di cui ci si innamora ogni volta: quando è illuminata e sembra respirare, come un animale, mentre mostra tutta la sua semplicità di terra e mare senza esseri umani, e allo stesso modo quando, nell’eccesso luminoso della notte, sembra proclamare all’abisso che lì c’è qualcuno (perché, in un rovesciamento completo di prospettive, l’umanità dallo spazio è una creatura che esce solo di notte).
E tu sei qui, sei qui che giri di fronte a questo spettacolo e sai che potresti passare tutta la vita così, in orbita, in una combinazione improbabile, ma tremendamente esatta, con l’atlante stradale e le mappe delle stelle.

Qui, di fronte alla Terra che brilla come uno specchio illuminato in una stanza nero pece, ogni visione ti ha spalancato il cuore, scardinandolo, una fessura per volta: le isole Curili come una scia di impronte e il Giappone, sotto di loro, simile a un fantasma che infesta le acque; le luci di Città del Capo, un artiglio che segna l’inizio, o la fine, di un continente; i fiumi del Nord America come lunghe ciocche di capelli caduti, l’Himalaya come brina strisciante; le isole Marshall, un delicato merletto di terre, e nella Polinesia francese gli atolli simili a losanghe di opale; e ancora, canyon come conchiglie di madreperla, continenti incisi con l’oro nell’ultimo tratto di notte, il nichel morbido e levigato del Mediterraneo luccicante nel Sole, la spirale del centro America, la distesa ocra e marrone dell’Uzbekistan; e poi Johannesburg e Pretoria, in Sudafrica, unite come una stella binaria; i Grandi Laghi come acciaio battuto nel sole di pomeriggio; le luci di Taiwan e Hong Kong, vicine alla curvatura terrestre, simili a incendi che divampano; e c’è la Danimarca che balza come un delfino verso la Norvegia e la Svezia, c’è il bastione di montagne del Sud America, ci sono le regioni dell’Asia turgide di mattino; e c’è la costa sinistra del Canada, che non è affatto una costa, ma tanti frantumi di terra; e le città dell’Africa – continente di caotica perfezione, raso stropicciato, pastello sbriciolato – simili a mucchietti di monete d’oro su un telo ricamato; e la solennità del tardo pomeriggio del Nord Europa; e di notte, sotto la prima neve della stagione, ci sono Samara e Togliatti, sulle candide sponde del Volga, simile a un serpente nero che si staglia nel bianco; e poi il panorama dell’estremo nord, un vortice liquido di banchi di ghiaccio e nubi.
E mentre fissiamo nel nostro cuore le immagini delle aurore polari, che mutano e ondeggiano serpeggiando all’interno dell’atmosfera, frenetiche e magnifiche come una creatura intrappolata; mentre un fulmine compare come un fiore elettrico che sboccia e si richiude in silenzio; mentre contempliamo il ricamo delle navi che solcano l’oceano, il Terminatore continua a spostarsi e ancora una volta ci meravigliamo per l’arrivo dell’alba – quando, sulla spalla destra del pianeta, compaiono le prime fessure argento, e basta un attimo perché questo lato si trasformi in una scimitarra brillante – e poco dopo per i mille modi in cui la Terra canta di luce, fino a un’altra ora del tramonto, che ci trova incantati di fronte a quella linea sempre meno nitida, come se la Terra, acquerello che perde colore, si stesse dissolvendo.

Davanti a tutto questo, mentre i continenti passano come campi e villaggi dal finestrino di un treno, molte grandi domande sembrano tornare a scavarci nel cuore.
Come conciliare l’arroganza e l’avidità dell’uomo con la sua capacità di sentire, con il dono di essere testimoni di quanto c’è di buono?
Come conciliare la consapevolezza di ciò che è possibile fare con il desiderio, la convinzione, l’opportunità e la spinta dell’autodeterminazione con tutta un’altra consapevolezza, quella di essere granelli di sabbia? Come conciliare il fatto che contiamo tanto e non contiamo per niente? Che ogni vita di per sé è una nullità, ma anche molto più di tutto il resto?
E poi, chi o cosa ha creato l’universo – una forza sfrenata, attenta e bellissima, oppure, con una differenza banale e insormontabile al tempo stesso, una sfrenata, disattenta e bellissima?
Ma quanto più queste domande sembrano riemergere e incalzare, tanto più finiscono per annullarsi: nella miscela di spettacolo e straniamento che è quest’orbitare, infatti, realizziamo di essere noi il punto, realizziamo che il punto è la Terra. E d’altronde, a ben guardare, Harvey ci aveva fornito questa chiave già a pagina 3: la Terra è la risposta a tutte le domande. È questa, dunque, la grande intuizione di Orbital – la necessità di riportare l’attenzione su di noi, su quello che abbiamo attorno e su quello che abbiamo dentro, sulla bellezza e sulla potenza del mondo in cui viviamo e del nostro essere creature.
E, allora, quanto è commovente che da qui la Terra sembri infinitamente unita, come un poema epico di versi che scorrono? Quanto è potente l’idea che una creatura qualsiasi sulla Terra da sola possa raccontarci tutto, la storia del mondo e forse anche il suo futuro, perché la sua storia è la storia della Terra?
Quanto è commovente che forse, tra più o meno quarantamila anni, una qualche forma di vita in un qualche sistema planetario della Via Lattea recupererà una vecchia sonda derelitta e libererà la Quinta di Beethoven, che rimbomberà come un tuono attraverso una frontiera diversa, e la musica dell’uomo potrà risuonare fino ai confini della nostra galassia?
La musica dell’uomo e quella della Terra, messe insieme: sono queste le cose che vorremmo lasciare, che vorremmo attraversassero la nube di Oort, i sistemi solari, i meteoriti sfreccianti e l’attrazione gravitazionale di stelle che ancora non esistono. Sono queste cose – il canto delle balene, il belato di una pecora, risate, passi, il lieve schioccare di un bacio, il rombo di un trattore, la voce di un bambino, e magari la firma sonora di un cervello inondato d’amore. E allora queste cose osserviamole, diamo loro spazio, ricordiamocele. Perché la domanda giusta, quella vera, è una domanda retorica: ci sono davvero cose più importanti di queste?

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